La cultura del pappagallo

editori_sinistraPubblicato su La Stampa del 18 aprile 1990

La polemica sull’editoria di sinistra in Italia. Il giudizio di Galli della Loggia

di Ernesto Galli della Loggia

Una gran parte della cultura e dell’opinione pubblica italiana ha quasi connaturato il dono dell’oblio. Dimentica con grande facilità, e se anni dopo, per caso, qualcuno le ricorda ciò che essa si è gettata dietro le spalle con disinvoltura, allora fa mostra della più profonda meraviglia, magari condita degli sdegni di circostanza.

Mi dispiace – per l’amicizia e la stima che ho per lui – che anche Beniamino Placido si sia adeguato a questo modello di comportamento, dando sulla voce (per giunta con qualche sarcasmo) a Nicola Matteucci, reo di aver parlato di una «dittatura» che la cultura marxista avrebbe esercitato sull’editoria italiana per almeno un paio di decenni del dopoguerra.

Non so se il termine dittatura sia davvero il più esatto. Sono convinto però che i fatti diano nel complesso ragione a Matteucci, e qui ne vorrei illustrare per l’appunto un piccolo spezzone, tirando fuori dal cassetto vecchi appunti presi per tutt’altre ragioni alcuni anni fa . Si tratta dell’esame sommario condotto sul catalogo storico della casa editrice Einaudi, (Cinquant’anni di un editore. Le edizioni Einaudi negli anni 1933-1983), dei titoli concernenti l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti pubblicati nel periodo 1945-1968.

Che i titoli siffatti rappresentino una cartina tornasole tra le più significative è evidente. Naturalmente bisogna tenere nel debito conto che la casa editrice Einaudi è sempre stata una casa editrice di sinistra, orgogliosa di esserlo, e che dunque è scontata (oltre che essere un suo pieno diritto) la preferenza per certi temi o autori.

Essa però ha sempre avuto anche l’ambizione di essere una casa editrice comunque di alta cultura, di pubblicare comunque testi di indiscutibile rango intellettuale.Proprio la somma di queste due caratteristiche consente di valutare nel modo migliore – perché in un punto alto, forse nel più alto – un primo fatto importante, e cioè quali siano stati – se «dittatoriali» o meno – i metodi di esercizio dell’egemonia della cultura «marxista» (meglio definirla comunista, del pci) là dove, come all’Einaudi di allora, quell’egemonia in complesso c’è senz’altro stata.

Certo, il campo d’osservazione essendo quello della storia e dell’attualità politico-sociale contemporanei, cioè un campo d’immediata e altissima crucialità politica, tende inevitabilmente a sovrarappresentare la politicità delle scelte, a provare troppo, per così dire. Ma, pure con questa riserva, le prove meritano di essere esaminate.

Dal punto di vista numerico nei ventitré anni considerati, i titoli sull’Urss e sugli Usa più o meno si equivalgono: 40 per la prima, 36 per i secondi; dei quali 8 di storia generale e ottocentesca nel caso sovietico, 7 nel caso dell’America. Già su questi titoli si possono cominciare a fare, però, alcune osservazioni.

A parte infatti i due libri di Venturi sul populismo e sul moto decabrista, quello di Berti sui rapporti tra la Russia e gli Stati italiani dell’800, nonché il volume di Lionel Kochran sulla Russia fino al 1917, i soli tre titoli sulla Rivoluzione che compaiono nel catalogo Einaudi corrispondono in sostanza ad altrettanti ritratti puramente encomiastici dell’evento (si tratta dell’immarcescibile I 10 giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, uscito nel 1946, di Lenin e la rivoluzione russa, di Christopher Hill, del 1954, e dell’Anno primo della Rivoluzione russa di Victor Serge, pubblicato nel 1967).

Il quarto non è certo assimilabile a questi, ma sta di fatto che anche la monumentale Storia della Russia sovietica di E.H. Carr (che cominciò ad uscire nel 1964) appare fortemente ispirata – con tipico vezzo di radicalismo anglosassone – ad una opzione genericamente e pregiudizialmente giustificatoria della linea bolscevico-staliniana, solo in parte corretta nel successivo: 1917. Illusioni e realtà della rivoluzione russa (1970).

Come c’era da aspettarsi, viceversa, qualsiasi tono apologetico è assente nei titoli «generali» americani che sono tutti di storia sei-ottocentesca – si va dall’America dei Padri Pellegrini alla guerra civile – ad esclusione dell’opera di sintesi di Nevins e Commager, Storia degli Stati Uniti, pubblicata per la prima volta nel 1947 con il titolo America ed il sottotitolo «Storia di un popolo libero» che gli sarà doverosamente tolto nelle successive numerose edizioni.

In complesso, l’elemento più sorprendente dell’elenco dei titoli dedicati dalla casa editrice Einaudi agli Usa è la sua discontinuità cronologica. Sono ben otto, infatti, i volumi pubblicati dal ’45 al ’47, tra cui spiccano ben tre libri di Walter Lippmann e il celeberrimo Ragazzo negro di Richard Wright (che pubblicato a partire dal 1969 nella collana «Libri per la scuola media» avrà in questa collana, fino all’83, la bellezza di 19 edizioni contribuendo forse la sua parte a radicare in generazioni e generazioni di giovani italiani l’idea che il razzismo sia una malattia esclusivamente made in Usa).

Ma dopo il 1947, per ben dieci anni, dalla casa editrice di Torino, non esce nulla, assolutamente nulla, sulla storia, la società, la politica o l’economia americana. Unica, solitaria – e quanto mai significativa – eccezione è, nel ’53, Il gangsterismo in America di Kefauver. In una sorprendente continuità con il provincialismo fascista, per un lungo decennio, insomma, la più prestigiosa casa editrice italiana, roccaforte della più agguerrita e spregiudicata intellighentsia, non trova opportuno far conoscere nulla al pubblico italiano del Paese e della società che si avviavano penetrare di sé il modo di vivere e di pensare, l’esistenza, di tutto il pianeta.

E’ difficile credere sia alla casualità, sia ad una supposta ovvietà di una simile scelta culturale. La cosa più probabile è che i consulenti della Einaudi ed i funzionari editoriali di via Biancamano, stretti per un verso dalla necessità (da essi sentita come tale) di non spiacere alle forsennatezze settarie del pci in un campo delicatissimo, e per l’alro dall’esigenza di salvare il proprio onore non diventando ei puri megafoni dello stalinismo, abbiano scelto la soluzione «italianissima» el silenzio. Di non pubblicare nulla.

Con l’Urss, invece, evidentemente ci si poteva non fare altrettanti problemi, e infatti il catalogo lo dimostra. Dal 1946 al 1953 sono almeno una decina i titoli d’impronta schiettamente apologetica che Einaudi fa uscire, sui quali campeggia – per l’indubbia autorevolezza dell’autore – Il marxismo e la questione nazionale e coloniale (1948) di Josif Stalin.

Si va da La ricostruzione edilizia nell’Urss (1948) di Nikolaj Voronin, o Il sistema finanziario dell’Urss (1947) di Bogolepov a La proprietà socialista dello Stato (1953) di Anatolij Venediktov. Una menzione particolare, anche per il titolo, dal suono ogi decisamente macabro-sarcastico, merita la pubblicazione, nel 1950, de Il comunismo sovietico: una nuova civiltà, dei coniugi Webb: una silloge di pii, anche se spudorati vaneggiamenti che ha l’onore di comparire nientemeno che insieme a Marx, a Kelsen e a von Gierke nella prestigiosa «Biblioteca di cultura politica e giuridica».

Pur senza l’entusiasmo prodigato in precedenza, anche dopo il ’53 e per tutti gli anni di Krusciov – del quale non si manca di pubblicare nel 1964 I problemi della pace – Einaudi non fa venire meno le più ampie aperture di credito all’Unione Sovietica. Di contro un paio di libri tra cronaca e storia dedicati agli avvenimenti del ’56 (per la verità specificamente all’Ungheria) e ad un problematico Isaac Deutscher Dove va l’Unione Sovietica, si susseguono dal 1958 al 1964.

Progresso sovietico contro iniziativa americana (una raccolta di testi statunitensi intrisi di una profonda sfiducia sulle possibilità dell’America di rispondere efficacemente alla sfida kruscioviana) Sviluppo economico e decentramento in Urss, di Silvio Leopardi; Viaggio di un tecnico curioso nella civiltà sovietica, di Luigi Morandi, Il passaggio dal socialismo al comunismo e le prospettive dell’economia sovietica di Strumilin.

Ho già detto si Deutscher. In precedenza – nel 1959 – Einaudi aveva pubblicato di Livio Maitan Trotsky oggi. Ora si fa coraggio e pubblica direttamente le opere del grande eretico: prima una raccolta di scritti del ’62, poi, nel ’67, La Rivoluzione permanente. Si delinea così una caratteristica politico-culturale che la casa editrice fa propria almeno fino ai primi Anni 70: di fronte al progressivo sfacelo dell’universo comunista, evitare accuratamente di spingere l’indagine alle origini della Cosa, bensì teorizzarne la «degenerazione», e predicarne una uscita «da sinistra», secondo il modello che tutto il goscismo, a cominciare dal gruppo del Manifesto, cerca nello stesso periodo di fare.

Inutile dire il destino miserando che – oggi possiamo dirlo – la storia ha assegnato a simili escamotages. Più importante osservare che per muoversi su questa linea l’Einaudi sarà costretta da un lato a mantenere assolutamente nascosta la portata effettiva e concreta di quella «degenerazione» (non un libro esce da via Biancamano su ciò che è realmente successo in Russia dalla morte di Lenin fino a Breznev) e dall’altra ad abbracciare tutte le «eresie», gli scavalcamenti, le fantasie e i terzomondismi che servono per l’appunto a mantenere in vita fino al limite del possibile il mito del ritorno alla purezza del marxismo rivoluzionario.

Di questa scelta, chi è chiamato elettivamente a fare le spese sono naturalmente gli Stati Uniti. Parallelamente alla parabola sui indicata, infatti, terminato il decennio del grande silenzio, gli Usa diventano un bersaglio fisso, una specie di predestinato punching ball di tuta la produzione storico-politico-sociale contemporanea dell’Einaudi.

Sull’impero sovietico e sui suoi meccanismi di dominio via Biancamano non ha pubblicato né pubblicherà mai nulla. Ecco invece rovesciarsi sugli Usa, dal ’62 al ’68 le apocalittiche e cervellotiche analisi-previsioni di Sweezy e Huberman (non se ne realizzerà neppure una), pomposamente qualificate Teoria della politica estera americana (1962) e La controrivoluzione globale (1968), La strategia dell’ annientamento (1963) di Lapp, la prima delle tendenziosissime ricostruzioni che i coniugi Kolko dedicano alla società ed alla politica estera del loro Paese, il libro di Alperovitz La diplomazia atomica americana, e poi Crisi in bianco e nero di Silberman, tutto Packard, i Colletti bianchi di Wright Mills, gli Ultimi discorsi di Malcom X, e ancora Fanon,. Edgard Snow, Chomsky e Galbraith, Tutino, Masi Collotti, Pischel, Myrdal: tutti libri che anche quando – come Packard o Wright Mills – non erano caratterizzati da partigianeria ideologica spinta all’inverosimile o da un portentoso disprezzo per i fatti, di sicuro componevano, nel complesso, un quadro nerissimo se non francamente demonizzato, dell’universo sociale e politico americano.

Il risultato è che se uno oggi vuol capire qualcosa di quanto è davvero accaduto nel mondo (per esempio nel Terzo mondo) dal 1945 al 1975, il catalogo Einaudi coevo non serve praticamente a nulla o quasi. E più o meno la stessa cosa può dirsi per quello di Laterza o Feltrinelli, per i quali valgono caratteristiche sostanzialmente simili.

Almeno nel settore della letteratura storica e politico-sociale contemporanea esiste dunque un riscontro preciso della dittatura culturale che la sinistra ha esercitato nelle case editrici di cultura. E’ il fatto che quelle case editrici hanno sistematicamente escluso, per decenni, i titolo che in qualunque modo potessero contraddire la visione o la versione delle cose proprie della parte politico-ideologica con cui avevano deciso di stare.

Il bando comminato al crocianesimo, di cui ha parlato Matteucci, è perciò solo un aspetto – e direi neppure il più importante – di un fenomeno più vasto, il quale ha anche le sue eccezioni che però non fanno che confermare la regola.

Beninteso, anche in quegli anni le leggi garantivano a chiunque il diritto di esercitare a proprio modo l’attività editoriale, o per esempio di fondare nuove case editrici (che infatti furono fondate, tra l’altro proprio per rispondere al settarismo delle scelte prevalenti: si pensi a Comunità e al Mulino) ma ciò non basta davvero a far venire meno l’elemento «dittatoriale» della presenza che la cultura di sinistra ebbe allora nell’editoria italiana.

Non si tattò solo di non pubblicare neppure un rigo di Aron o Tocqueville, di Orwell, Silone, Popper, Berlin o del Solgenitsin non romanziere, ma della costruzione – a presuntuosa conferma dell’interdetto e della esattezza luminosa delle proprie certezze – di una rete a maglie strettissime, fatta di recensioni, idee correnti, convegni, pettegolezzi, collaborazioni, stilemi accreditati.

Come ha scritto per l’appunto Orwell «gli intellettuali abitualmente non temono l’opinione delle masse. Ciò da cui sono spaventati è l’opinione prevalente all’interno del loro proprio gruppo. C’è sempre, in un momento dato, un’ortodossia, un grido di pappagallo che deve essere ripetuto»: ebbene, perché non ammettere che per almeno una trentina d’anni quel grido di pappagallo è stato un grido di sinistra?

*  *  *

Pubblicato su La Stampa del 1 maggio 1990

Galli della Loggia: l’«egemonia» della cultura comunista e le complicità degli intellettuali

EDITORIA DI SINISTRA: DOV’ERA IL TRADIMENTO 

I buoni libro non riscattano silenzi e omissioni

di Ernesto Galli della Loggia

E’ dal 1960 – ormai dunque sono la bellezza di trent’anni – che ogni mese, più o meno puntualmente, qualcuno si presenta a casa mia a ritirare l’importo della rata di un conto per l’acquisto di libri della casa editrice Einaudi, conto aperto per l’appunto in quel tempo lontano e da allora mai chiuso. Di libri Einaudi ho perciò pieni, e continuo a riempire, gli scaffali della libreria; e credo di non conoscere il catalogo di nessun’altra casa editrice meglio – quasi a memoria, direi – di quello della casa editrice torinese.

Come molti altri italiani nati negli Anni ’40, insomma, la mia formazione intellettuale, e dunque politica, si è svolta grazie, e in compagnia, di quel catalogo. E, va da se, si è trattato di una formazione «di sinistra», della quale non mi dispaccio affatto, anche se non penso – a differenza di quanto invece sembra pensare Valentino Parlato – che essa da sola possa valermi l’iscrizione d’ufficio ad una eletta schiera di benemeriti del Paese.

Ma a molti italiani di sinistra della mia generazione, alla metà egli Anni 60, per ragioni che non sto a dire, venne voglia di saperne di più – molto di più di quanto gli fosse stato fino ad allora permesso di sapere dai loro mentori editorial-culturali – sulla storia del comunismo, dell’Urss, della III Internazionale, dell’Europa dell’Est.

Cominciò allora una rincorsa affannosa (e per certi aspetti, lo confesso, forse anche quasi maniacale, tra bancarelle e librerie, a titoli di autori nuovi e antichi. Voglio ricordarne qualcuno alla rinfusa: Solzenicyn, Ulam, Malia, Souvarine, Orwell, Katkov, Medvedev, Besançon, Silone, Grossman, Berdjaev, Nadezda, Mandelstam, Conquest, Fejto, Aron, Gilas, la Arendt e per finire – perché no? – anche Kravcenko, sì quel povero Kravcenko che aveva scelto davvero la libertà, e che diceva la verità, nonostante quel che ne pensassero, tra un sorriso di compatimento e l’altro, tanti intellettuali dell’epoca.

Il «comunismo reale»

Autori e libri come si vede diversissimi, spesso su sponde ideologiche anche opposte, ma a accomunati da una caratteristica: nessuno di essi è stato pubblicato dalle case editrici di cultura del nostro Paese in cui è stata particolarmente forte l’influenza della sinistra vicina al partito comunista («egemonia»?, «dittatura»? lasciamo perdere, è questione di sostanza, non di parole, e la sostanza di ciò che si vuole dire è chiarissima). E dunque nessuno di essi è mai stato pubblicato dall’Einaudi, da me presa unicamente come l’esempio più significativo del tutto.

Dimenticavo un’altra caratteristica comune a quegli autori e libri: naturalmente essi sono tutti assai critici verso il «comunismo reale» ed i suoi padri, a cominciare da Lenin. C’è bisogno di ricordare che per almeno trent’anni, nel caso dei libri sugli Stati Uniti, un approccio critico – unilateralmente, partigianamente critico – sembrerebbe essere stato, viceversa, la condizione necessaria, indispensabile, per essere pubblicati dalle suddette case editrici, prima fra tutte, ancora, l’Einaudi?

Su questo risultato di faziosità ideologico-storico-politica che inficia gravemente tutta la produzione contemporaneistica dell’editoria di sinistra fino agli Anni ’70 io ho richiamato l’attenzione in un mio precedente articolo sulla Stampa. Senza aggiungere punto, né che quell’editoria era per intero da mandare al rogo (come scioccamente mi ha accusato di voler fare l’Unità, con una rozzezza da Anni 50 che non le fa onore), né tantomeno che tutti i libri usciti dai suoi torchi fossero «marxisti»; il che solo una persona di assoluta ignoranza avrebbe potuto dire.

Simili obiezioni dunque non valgono: così come vale poco, ben poco, obiettare che tuttavia l’editoria di sinistra, ed Einaudi in specie, hanno pubblicato moltissimi ottimi libri (in campi diversi da quello da me tirato in ballo): perché semmai ciò rende le sue colpe ancora maggiori. Se una casa editrice, infatti, dimostra di sapere in generale ascoltare i dettami della qualità e della cultura, non è forse più grave (e sospetto) se in uno specifico ambito, viceversa, tradisce platealmente quei dettami e inclina a trasformarsi nell’altoparlante di una rozza ideologia di partito?

Obiettare realmente comporterebbe poter dimostrare che tradimento non c’è stato – che dunque, per esempio, i libri pubblicati sull’Urss e sugli Usa erano libri ottimi, equilibrati ed onesti: ma sfortunatamente proprio ciò è impossibile. O bisognerebbe poter dimostrare che quel tradimento è stato tutto sommato insignificante, o comunque non troppo significativo al confronto con i meriti acquisiti in generale da quell’editoria.

E’ questa, nella sostanza, la tesi di Norberto Bobbio, il quale, infatti, per ricordarci i suddetti meriti, si diffonde in un lungo elenco di buoni o eccellenti libri usciti da Einaudi.

Ma, per sostenersi, la tesi di Bobbio avrebbe bisogno di un ulteriore e decisivo elemento, del quale invece non c’è traccia. Se infatti si vuole dimostrare, come egli vuole, il carattere tutto sommato poco significativo delle concessioni fatte dalla casa editrice torinese alle posizioni del pci in alcuni campi, si è nell’obbligo logico di fare anche proprie entrambe queste premesse: e cioè, sia che tali campi – in particolare il «comunismo reale» e l’Urss – non hanno occupato un posto di assoluto rilievo tra i fenomeni destinati a disegnare il volto del nostro secolo, sia che in essi nulla c’era che mettesse immediatamente in gioco i principi più elementari del bene e del male.

Sono questi i due punti davvero dirimenti. Ed è dalla posizione che si assume rispetto ad essi che dipende tutto il resto, a cominciare, per l’appunto, dal giudizio sull’editoria di sinistra nel dopoguerra.

A chi – ad esempio -, come chi scrive, la parabola storica del comunismo, a cominciare dall’esperimento sovietico, appare come uno dei casi più straordinari e spaventosi di esercizio brutale del potere, mischiato ad un uso quasi diabolico della menzogna ideologica – secondo per importanza solo al nazismo -, non può apparire certo poco significativo che una cultura che si vuole e si voleva democratica abbia mantenuto una sostanziale complicità con quei fatti che invece richiedevano la sua condanna più ferma.

E invece cos’altro è stato se non complicità, nel momento in cui si ha una casa editrice, pubblicare immancabilmente sempre e soltanto libri favorevoli alla violenza e alla bugia leninista-staliniana e mai, neppure una volta, qualcosa di diverso?

Per capire la portata di ciò che qui è in gioco vale la pena di ricordare come di recente, di fronte ad episodi o cose improvvisamente verificatisi o irrefutabilmente avvenuti alla luce in Cina, in Romania, o altrove, si sia usato da qualche osservatore il termine fascismo. A mio giudizio l’uso di un termine del genere, per quelle situazioni e quei Paesi, è sbagliato e distorcente, ma esso vale comunque a dare la misura della ripugnanza che quegli episodi e cose ispirano.

Vorrei allora chiedere a Bobbio: quando di tali episodi e cose si gettavano le premesse, negli Anni 40 o 50 o anche dopo, ovvero quando si verificavano episodi o cose in tutto simili a quelli di oggi, cosa faceva la cultura di sinistra? Cosa pubblicava l’editore Einaudi mentre a qualche centinaia di chilometri da via Umberto Biancamano Stalin scatenava persecuzioni contro gli ebrei, mentre l’Nkvd deportava interi popoli, mentre in Urss prosperava il più grande sistema concentrazionario di tutti i tempi, mentre centinaia d’infelici, da Praga a Sofia, affrontavano in solitudine il capestro o il plotone d’esecuzione? Ci si può consolare oggi – e pensare di far rtornare i conti – dicendo: si, va bene, però pubblichiamo un sacco di bei libri di Braudel e di Danilo Dolci?

E’ accaduto così che per conoscer quello che realmente aveva voluto dire uno dei massimi sconvolgimenti di questo secolo, nelle cui spire si erano dibattuti, e si andavano ancora dibattendo centinaia di milioni di esseri umani, un italiano di sinistra della mia generazione non abbia potuto in nessun modo contare sulle «sue» – anzi della «sua» – casa editrice. E’ in questo modo, anche in questo modo, che sono nati i disappunti poi diventati disamori, hanno preso forma sospetti d’ipocrisia, sono venute meno consolidate certezze.

Ancora oggi non cesso ingenuamente di stupirmi del numero piccolissimo di persone di sinistra che ha letto Arcipelago Gulag, uno dei vertici della saggistica di tutti i tempi. Ma come non supporre che se quel libro l’avesse pubblicato una casa editrice come Einaudi, invece della «commerciale» Mondatori, il loro numero sarebbe molto maggiore? Il numero cioè di coloro che conoscono la verità? E non è questo forse che la cultura per definizione deve sempre proporsi? Come vedi, caro Valentino Parlato, non è affatto così ovvio da che parte davvero stiano i chierici che hanno tradito.

Il fatto è che una certa cultura democratica non marxista – in Italia perlopiù di matrice gobettiana e azionista – è portata tutt’ora a disfarsi in silenzio, a rimuovere e dimenticare, e comunque ancora oggi a non vedere nei suoi esatti termini il fardello in certo senso per lei insopportabile che è rappresentato dalla vera natura storico-ideologica del comunismo reale e dunque non poterne tenere conto nelle sue valutazioni del mondo

Fraintendimenti clamorosi

Prendere atto di quella natura comporterebbe infatti riconoscere il fraintendimento clamoroso in cui essa incorse nel dopoguerra (in Francia, Inghilterra e Stati Uniti già durante gli Anni 30), allorché, per repulsa del fascismo, – di cui essa in quanto «borghese», si sentiva in qualche modo corresponsabile – dedusse con meccanica deduzione che poiché i fascisti erano stati anticomunisti, da parte dei democratici non si potesse più esserlo a nessun costo, mai; e chi per caso si ostinasse ad esserlo (Truman, Scelba, Churchill, Silone) si apparentasse virtualmente ai fascisti.

Essere anticomunisti era vietato ideologicamente. Il guaio è che da ciò discendeva un corollario che aveva nascosta in sé una trappola mortale, una vera e propria perdita dell’anima. Non essere anticomunisti, infatti, imponeva di non essere neppure contro Stalin e il suo sistema, perlomeno di non esserlo in modo pubblico aperto, per esempio pubblicando libri sgraditi ai suoi seguaci. Non essere anticomunisti imponeva cioè, perlomeno in pubblico – nelle proprie azioni pubbliche – di apparire, con il proprio silenzio, complice oggettivo del male. Di un male che era costato – e stava costando – la vita a milioni di innocenti, esattamente come il nazionalsocialismo.

L’editoria di sinistra, la casa editrice Einaudi, furono prese per l’appunto a questo laccio. E cedendo ad una predisposizione tipica degli intellettuali s’illusero – come già ci si era illusi sotto Mussolini – che a bilanciare o riscattare le bugie e il male fosse sufficiente l’intelligenza, che mettendogli vicini molti bei libri, i più belli, quelli brutti sarebbero divenuti meno brutti e meno bugiardi.

Quel che stupisce è che anche oggi, a distanza di tanto tempo, sembri non esserci lo spazio per alcun ripensamento, per alcun meditato e sofferto riandare a quelle vicende lontane. Ancora oggi tocca invece sentire, ad esempio per bocca di Furio Diaz, il vecchio ritornello: «Già! Ma gli altri? Dove li mettiamo gli altri che erano maccartisti, portavano in giro la Madonna Pellegrina, e mandavano la Celere contro gli operai?».

Come se tra i due ordini di fenomeni, come se tra Kolyma e Melissa, tra Donald Trombo e Slansky, o tra padre Lombardi e Beria, ci fosse un qualche paragone possibile. Ma tant’è. Nella sinistra emersa il tono della musica è ancora questo, eterno, sicuro di sé, e immutabile fino alla fine dei secoli; quella sommersa, invece, osserva un prudente silenzio; e si prepara a diventare consigliere comunale