L’olocausto delle donne che insanguinò l’alba del ‘900

armenian genocide 9Articolo pubblicato su Avvenire
del 18 ottobre 2000

di Jacques Rhetore

I convogli dei deportati attraversarono il vilayet di Diyartxzkir passando, quasi tutti, per la città di Mardin da dove sono stati osservati da vicino. È di questi convogli che vorrei adesso trattare. Mi dispiace di non poter dare, sul loro numero e sul numero dei deportati in genere, altro che cifre vaghe, quelle che circolavano pubblicamente.

Nonostante ciò, attraverso le cifre e i fatti che le accompagnano, il lettore potrà, aggiungendovi quello che di suo conosce dei massacri di A’Jardin e Diyarbakir, farsi un‘idea dell’immensità del disastro che la politica disumana dei Giovani Turchi fece subire alla popolazione cristiana negli anni fatali 1915-1916.

In generale, come ho già accennato, questi convogli composti da donne, bambini e anziani provenienti dai paesi di Erzurum, Vlouch, Bitlis, Van, Kharput, Sivas, Angora, Brusse, Konia, Urfa, Cesarea ed erano destinati a Ras-el-Ain, Deror e Mossul dove arrivavano solo in pochi. Questi sfortunati porta vano con loro, quasi sempre, soltanto gli abiti custoditi dentro borse in cui nascondevano anche il denaro necessario.

I pacchi, le valigie venivano regolarmente rubati dai soldati o dai curdi durante il tragitto. Alcuni prigionieri di Brusse hanno raccontato che il governo gli aveva detto: «Avete cinque giorni per vendere le vostre abitazioni e i vostri beni alfine di ritirare il denaro per soddisfare i vostri bisogni nel paese in cui abiterete»

Tutti raccolsero, in questo modo, somme di denaro che portarono con loro, poi a qualche giornata di cammino da Brusse i soldati, dopo essersi informati di quelli che erano più ricchi li massacrarono impossessandosi dei loro beni. Lo stesso raccontavano anche quelli che facevano parte del convoglio di Angora. La libertà lasciata ai conduttori del convoglio sulle persone loro affidate aveva fatto nascere in loro una sete insaziabile d’oro e un’abominevole crudeltà da soddisfare.

Tuttavia, al di là degli omicidi, suscitati a volte dalla sete d’oro, i prigionieri testimoniavano in generale di non essere stati troppo maltrattati lungo il percorso, dal loro paese alla frontiera di Diyarbakir: li si proteggeva anche contro la rapacità dei curdi e quelli che non riuscivano a seguire il convoglio venivano semplicemente abbandonati per la strada ma non uccisi.

Per loro tutto cambiava alla frontiera del vilayerdi Diyarbakir. Hanno raccontato che era come se si aprisse l’inferno con i suoi demoni. Era come l’inferno: i soldati li maltrattavano in tutti modi e li uccidevano soltanto per rubare o per alleggerire il convoglio. Era come l’inferno: un caldo insopportabile per il clima torrido e una sete impossibile da placare.

Così molti tra loro, soprattutto i bambini, morivano lungo il cammino. Alle volte i soldati imponevano al con voglio una marcia precipitosa che gente debole o indebolita in tutti i modi non poteva sopportare; allora su di loro piovevano colpi, mentre i ritardatari venivano raggruppati sulla strada per formare nuovi convogli.

La strada era disseminata di cadaveri annegati nelle riviere mentre il resto era stato rapito dai curdi, autorizzati a far tutto contro i deportati Alcuni soldati cristiani provenienti da Erzurum, nel novembre 1915, raccontarono di aver attraversato, al di sopra di Diyarlikir, due valli piene di cadaveri di donne armene, sdraiate le une accanto alle altre come fossero montoni a riposo.

I soldati stimarono il numero di quelle donne intorno alle 50.000. Anche se la cifra sembra esagerata indica comunque un numero molto elevato. In seguito questi cadaveri, che infettavano l’aria, vennero bruciati.

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