Orrori medievali? No, comunisti

comunismoArticolo pubblicato su Il Secolo d’Italia
del 23 febbraio 2002

Così i vecchi schemi resistono nelle formule «liturgiche» degli intellettuali

di Guido Verna

La polverosa e stantia prevedibilità delle esternazioni degli intellettuali Italiani «organici» mi ha fatto tornare in mente quanto ha scritto Alain Besancon – nel suo bellissimo Novecento, il secolo del male (ed. Ideazione) a proposito della distruzione morale prodotta dal comunismo e dal nazionalsocialismo: «Il linguaggio viene trasformato: non serve più a comunicare o a esprimere qualcosa ma a mascherare la soluzione di continuità tra il sistema e la realtà. Ha il compito magico di piegare la realtà alla visione del mondo. È un linguaggio liturgico, in cui ogni formula indica l’adesione del locutore al sistema e, insieme, invita l’interlocutore ad aderirvi. Le parole segnaletiche sono dunque altrettante minacce e raffigurazioni di un potere» (p.46).

Un potere declinante, aggiungo io, in via di autoestinzione, ma pur tuttavia sempre forte, senz’altro più forte di quanto immaginano – e non sono pochi – quelli che finora non hanno voluto tener conto di questa considerazione di Vittorio Mathieu che traggo dalla prefazione al libro citato: «li comunismo ci ha liberato di sé da sé, perché aveva fondato la sua causa sul nulla, non perché una terza guerra mondiale sia stata vinta. Ma il comunismo ci ha liberato di sé solo di fatto, non ci ha liberato di sé come non-pensiero».

Il locutore portatore del non-pensiero, fruendo dell’amnesia e dell’amnistia di cui parla sempre Besancon, continua, perciò, come se niente fosse accaduto, nell’uso «liturgico» del linguaggio, «per piegare la realtà» alla sua obsoleta visione del mondo che doveva trovare la conferma veritativa nella prassi e che, al contrario, proprio la prassi ha infine falsificato. Un’ineluttabile – perché «scientifico» – paradiso in terra si è rivelato invece una landa desolata, una terra arida. E nel paradiso perduto, il locutore è costretto ad alzare i toni perché l’interlocutore si sta allontanando e venti nuovi soffiano e tendono a coprire le sue parole.

Il problema non riguarda, evidentemente, solo l’Italia: anche oltre le Alpi l’uso del linguaggio liturgico continua «a mascherare la soluzione di continuità tra il sistema e la realtà». Prendo un esempio che può sembrare di basso profilo e poco incisivo. Ma se Il locutore è Il Procuratore capo del Tribunale penale lnternazionale dell’Aia, il suo ruolo e la sua visibilità ne aumentano a dismisura sia il profilo che l’incisività.

Tenendo presente che anche la storia è realtà mi riferisco a quanto ha detto in occasione dell’apertura del processo a Milosevic il suddetto Procuratore, la ticinese signora Carla Del Ponte -Involontaria ma felice sintesi di giuriste nostrane, la signora Paciotti e la signora Fumagalli Carulli, un po’ allo yogurt come la prima e molto sinforosa come la seconda -: «Alcuni degli incidenti hanno rivelato una ferocia medioevale».

Un’affermazione che sul Corriere della Sera si è meritata il titolo in prima pagina (12 feb.) ma anche l’intelligente nota di Paolo Mieli (18 feb.), che concludeva così: «Altro che epoca di oscurità e di ferocia; al Medioevo dobbiamo probabilmente la parte più importante del nostro essere civili, e delle nozioni sulla base delle quali oggi ci accingiamo a processare Milosevic».

Glisso sulla falsità e sulla rozzezza dell’accostamento storico del Procuratore, che dà comunque la misura – tuttavia non sorprendente, se non altro per la diffusione altrettanto «liturgica» che l’accostamento ha nel milieu culturale in cui si situa la Signora -della sua raffinatezza nei giudizi. Non senza però invitarla a informarsi un po’ meglio: per comodità – dal momento che la lettura dei libri ha una durata non minima e potrebbe perciò privare la nascente giustizia del mondo della sua opera di levatrice – potrebbe per esempio limitarsi fuggevolmente a visitare una cattedrale e a sentire un po’ di musica medioevale: se è vero che architettura e musica sono tra le manifestazioni più rappresentative e descrittive di una civiltà, sono certo che ne ricaverebbe rapidamente molti elementi finalmente di giudizio e noti più di pregiudizio.

Chiuso l’inciso, quello che invece mi pare opportuna sottolineare ancora è la conferma, a più di dieci anni dalla caduta del Muro, della vigenza almeno europea della liturgia di quel linguaggio, che è l’estrinsecazione fonetica della camicia di forza della tuttora permanente egemonia culturale comunista. Il pesante velo sui crimini del comunismo è stato squarciato – anche se, per chi voleva vedere, questo velo è stato sempre sufficientemente trasparente -; Milosevic è stato l’ultimo presidente dichiaratamente comunista d’Europa: e allora perché scomodare il medioevo?

Non era molto più chiaro – e comprensibile e al passo coi tempi – dire semplicemente: ferocia comunista? Infine: perché succede tutto questo? La risposta, assolutamente condivisibile, la trovo in un libro splendido e troppo presto dimenticato, Gli archivi segreti di Mosca, (ed. Spirali), di Vladimlr Bukovskij: «I potenti di questo mondo non hanno interesse a scavare fino a raggiungere la verità. Chi lo sa cosa potrebbe saltar fuori? Cominci coi comunisti e finisci con te stesso. Effettivamente, come dicono gli inglesi, è meglio non lanciar pietre se vivi in una casa di vetro», (pp. 54)

E più avanti (pp.60): «Ma una cosa è certa: né la stampa né il mondo degli affari né le personalità pubbliche né gli uomini del mondo occidentale hanno conservato la propria innocenza. E sebbene il comunismo sia crollato, sono rimasti i pilastri della società e del suo estahlishment. Sono proprio loro adesso quelli che gridano più forte degli altri che la guerra fredda è finita, ma non vogliono dire chi l’ha persa.

Nemmeno l’ombra del pentimento nemmeno il minimo tentativo di rivisitare il proprio passato, nemmeno un briciolo di onestà. Mi tornano Involontariamente in mente i versi di Galic: Sulla tomba stanno i predatori / sono loro il picchetto d’onore».