Il comunismo non è finito

Il ManifestoArticolo pubblicato su: © Il Timone – n. 23 Gennaio/Febbraio 2003

Dato troppo presto per spacciato, il comunismo sopravvive con la dittatura degli “intellettuali organici”. Che incalzano lo stesso partito, quando si mostra poco efficace politicamente. Emarginato chi si oppone.

di Eugenio Corti

È luogo comune che il comunismo sia finito. In realtà è finito (e neanche dappertutto) il comunismo leninista, ma gli è subentrato, e sempre più si sta sviluppando, il comunismo gramsciano, il quale alla dittatura leninista del proletariato, che attuava l’eliminazione fisica degli oppositori, sostituisce la dittatura degli intellettuali “organici al comunismo” (l’espressione è di Gramsci), che non uccide fisicamente, ma attua l’emarginazione, ossia la morte civile, dì chiunque le si opponga.

Questo fenomeno va considerato dentro il più ampio quadro della cultura occidentale, che nel XX secolo ha avuto il suo apice nel “proclama della morte di Dio”. Proclama che permea la filosofia di Nietzsche e di Feuerbach, nonché il nazismo e il comunismo, cioè le ideologie scaturite dall’insegnamento dei due filosofi, entrambi discepoli del grande Hegel.

Teniamo presente che il modello dell’intellettuale propugnatore della “morte di Dio” ci è configurato bene dai versetti del Padre Nostro, se capovolti: “Non sia santificato il Tuo nome – non venga il Tuo regno – non sia fatta la Tua volontà”.

Quanto alla dittatura del proletariato dobbiamo ricordare che lo stesso Lenin, resosi conto che in realtà “a lasciarlo fare, il proletariato rinnova sempre la socialdemocrazia” (cerca cioè la conciliazione), aveva trasferito il compito di attuare la rivoluzione dal proletariato alla sua “avanguardia cosciente”, ossia al partito comunista, mettendo così al primo posto la marxiana ed hegeliana “violenza come levatrice necessaria della storia”.

A questo punto è entrato in scena Gramsci, segretario del partito comunista italiano allora alla macchia, il quale si era reso conto che la via adottata da Lenin avrebbe portato al disastro (infatti, come sappiamo, ha portato a qualcosa di mai visto nella storia: a cento milioni di morti, secondo i computi degli ex comunisti; secondo i nostri a più del doppio, e alla riduzione in miseria dei popoli interessati).

Lasciando perdere tutti i suoi orpelli ideologici, a noi sembra che a indirizzare Gramsci fuori dal percorso fallimentare di Lenin sia stata una semplice constatazione. Che cioè a condurre, con un processo durato secoli, l’Europa alle soglie della rivoluzione comunista (come pure di quella nazista, ma questo a lui poco interessava) non erano stati i proletari, bensì gli intellettuali.

Ai quali si deve anzitutto nel Rinascimento lo scalzamento del teocentrismo medievale, e la sua sostituzione con l’antropocentrismo, poi gli sviluppi illuministi di questo, poi il loro sbocco nella filosofia idealista tedesca, e infine nell’ideologia marxista. In coerenza con ciò Gramsci aveva proposto di investire del compito rivoluzionario direttamente la classe intellettuale (indicandole anche la via da percorrere: in sostanza il condizionamento sistematico di tutti i gangli della cultura e dell’informazione).

Al pari degli altri teorici comunisti eretici, che risiedevano in Russia, anche Gramsci sarebbe stato senza dubbio giustiziato dai leninisti-stalinisti, se non gli fosse capitato, durante un viaggio in Italia, d’essere incarcerato dai fascisti. Questo fatto gli salvò la vita, non solo, ma gli consentì di scrivere e di elaborare per anni indisturbato, mettendole via via al sicuro, tutte le sue opere teoriche.

Le quali, solo dopo la sua morte e in seguito ai terribili insuccessi del leninismo, finirono con l’essere accolte dai comunisti italiani, che con tutto il loro ardore rivoluzionario presero ad arroccarsi sempre più nella cultura. Del resto erano gli stessi governi democristiani ad abbandonare via via la cultura nelle loro mani, quasi a compenso del fatto che così il gigantesco partito comunista italiano (il maggiore d’Occidente) avrebbe rinunciato alla sanguinosa rivoluzione leninista.

Nei decenni in cui estendevano il loro dominio sulla cultura, quegli intellettuali organizzati hanno sempre più emarginato chiunque potesse essergli d’ostacolo, demonizzandolo fino al parossismo se era molto noto, e in tutti i casi escludendolo da ogni possibilità editoriale, giornalistica, televisiva, radiofonica, letteraria e culturale in genere. Hanno orchestrato anche grandi campagne di firme, a sostegno di qualche punto del loro programma, chiamando a sottoscrivere chiunque non volesse rimanere escluso dalla “società che conta”: e purtroppo moltissimi intellettuali si sono prestati a sottoscrivere.

Così per esempio, a cominciare dal 13 giugno 1971, in tre successivi numeri del settimanale L’Espresso, sotto un documento menzognero in cui un irreprensibile commissario di Pubblica Sicurezza, Luigi Calabresi, veniva definito “un torturatore” e “il responsabile della morte di Pinelli” hanno apposto la loro firma ben ottocento intellettuali italiani, cioè quasi tutto il Gotha della nostra intellettualità, a cominciare da personaggi che pure erano molto affermati, come i romanzieri Moravia, Pasolini e Umberto Eco (Calabresi venne poi assassinato).

Poiché, malgrado questo, ad ogni elezione il nostro popolo ha rifiutato il comunismo, l’azione di quegli intellettuali organizzati è proseguita anche in seguito e in questi ultimi mesi si è fatta così prevalente che se i dirigenti dei partiti di derivazione comunista non dimostrano sufficiente incisività politica, gli intellettuali subentrano loro direttamente, organizzando al loro posto grandi manifestazioni di piazza. Intanto i danni nella società civile italiana stanno facendosi enormi.

Ne indichiamo in particolare due: primo, nessuna opera nuova di cultura che sia davvero valida e libera può più entrare in circolazione se non su organi privi di risonanza (sembrerebbe ritornato il Samizdat della Russia di Zdanov: anche l’editoria e le reti televisive di Berìusconi infatti sono purtroppo condizionate da intellettuali di sinistra). Secondo: le nuove generazioni, dopo il cedimento di tanti insegnanti, e dopo tanti anni di condizionamento esercitato dai comunisti su tutti, senza eccezione, i testi scolastici (non abbiamo qui spazio per descrivere come fu attuato) stanno poco alla volta perdendo il contatto con la cultura greco-romana-cristiana, e in sostanza con la nostra civiltà.

Molti giovani che – senza lasciarsi inebetire dalle massicce dosi di sesso loro quotidianamente propinate – vorrebbero resistere incontrano difficoltà a trovare dei punti di orientamento. Anche perché agli intellettuali egemoni che escludono Dio dalla società, si sono aggregati molti intellettuali cristiani persuasi di essere così “all’altezza dei tempi” (gli eterni “utili idioti” di cui parlava Lenin) per cui la vera cultura cristiana è ormai ghettizzata al punto da essere poco presente tra i giovani.

Abbiamo tratteggiato la situazione dell’Italia, il Paese che conosciamo meglio. Ma anche nel resto dell’Occidente gli intellettuali determinati a escludere Dio dalla società, pur continuando a procedere lungo percorsi tra loro molto diversi, sembrano da qualche anno in qua risentire gli impulsi del comunismo, tanto da assumere nel loro insieme una configurazione vagamente dittatoriale. Mediante lo sbarramento del “politically correct”, infatti, anch’essi escludono in pratica dal diritto di esprimersi chiunque la pensi in modo diverso. Ci chiediamo se l’egemonia culturale gramsciana non stia quietamente diventando planetana…

A tale riguardo ci viene incontro un significativo episodio: l’assegnazione di uno degli ultimi premi Nobel per la letteratura a un noto teatrante italiano, che semplicemente non si capisce quali opere abbia scritto, ma che è molto conosciuto per il suo acceso sinistrismo. Costui – stando ai giornali – ha subito dichiarato che avrebbe speso il denaro del premio per fare riaprire il processo a un altro notissimo personaggio di sinistra, in carcere perché condannato come mandante dell’omicidio Calabresi.

Per quanto riguarda la Chiesa, la situazione è stata fotografata lo scorso 16 marzo con grande allarme dal Papa, in un discorso al la riunione plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura: “Più che in qualsiasi altro periodo della storia si deve notare una rottura del processo di trasmissione dei valori morali e religiosi fra le generazioni, che conduce a una sorta di eterogeneità tra la Chiesa e il mondo contemporaneo”.

Il comunismo dunque non è finito, ha solo cambiato costume: la grande tragedia è al suo secondo atto.

Ricorda

“(…) mi accorsi nel corso di una dolorosa vicenda che il PCI voleva fare a meno di Dio. Con questo non intendo dire che voleva essere anticlericale, perché il PCI non lo fu mai, anzi fu aperto ai cattolici, tanto che ci fu un incontro importantissimo tra Togliatti e Pio XII, il Papa del 18 aprile 1948, il Papa della grande vittoria del ’40. Fare a meno di Dio è molto peggio che essere anticlericale; pensare che si possa vivere senza un riferimento trascendente è certamente una cosa che non fa cercare la verità, mentre bisogna cercare la verità, la verità che apre. Forse c’è Dio? Forse no? Ma la verità è la ricerca. Non restai comunista anche e soprattutto per questo”.

(Massimo Caprara, il Novecento e l’ideologia, Conferenza tenuta a Milano il 18 febbraio 2002 testo non rivisto dall’autore, Itacalibri, Castei Bolognese 2002).

Bibliografia

AA.VV,Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998.

Michele Brambilla,L’eskimo in redazione, Ares, Milano 1990.

Massimo Caprara, Gramsci e i suoi carcerieri, Area, Milano 2001.

Eugenio Corti,L’esperimento comunista, Area, Milano 1991.

Jean Daujat, Conoscere il comunismo, Il Falco, Milano 1977.

Igor Safarevic, il socialismo come fenomeno storico mondiale, Effedieffe, Milano 1999.