I miracoli di san Breznef

Breznef_coverIdeazione maggio-giugno 1997

di Valerio Riva

Quando diventai direttore della divisione libri della Rizzoli, agli inizi degli anni Ottanta, la prima cosa che feci, com’era naturale, fu di farmi portare i tabulati delle tirature e delle vendite. La Rizzoli è una casa editrice ben organizzata e quei tabulati erano uno strumento affidabile. Passai alcuni giorni a leggerli e rileggerli (c’erano migliaia di titoli), e a un certo punto mi colpì il fatto che tra gli autori figurasse anche il nome di Leonid Breznev. Non mi ricordavo di aver mai visto il libro Rizzoli con quell’autore in copertina.

Guardando più attentamente, vidi che il titolo (non ricordo se fosse Memorie di oppure Opere di o qualcosa del genere: nei tabulati i titoli vengono sempre molto compressi e sintetizzati) denunciava seimila copie di tiratura e seimila e nove copie di resa. Scoppiai in una risata così fragorosa che la segretaria venne dalla stanza accanto per vedere se fossi per caso uscito matto. Non aveva poi tutti i torti.

Era proprio una cosa da matti. Quelle nove copie in più, magicamente clonate nel passaggio dalla tipografia al banco del libraio e ritorno, erano una prova incontrovertibile: se uno dei capi più amati, più venerati e più durevoli del socialismo reale (durato infatti molto più di Lenin, solo un po’ meno di Stalin e di Togliatti) era capace, come Gesù Cristo, di moltiplicare oltre che i pani e i pesci, anche le copie dei suoi propri libri, e non solo in Urss (dove questi miracoli, com’è noto, erano all’ordine del giorno) ma anche di qua dal muro di Berlino, chi mai poteva aver dubbi sulla superiorità morale e materiale del comunismo?

Certo, visto con occhi di marci capitalisti, quello che, rinascimentalmente, si potrebbe chiamare il “miracolo brezneviano delle nove copie” poteva anche essere spiegato in altro modo. Terra terra: che la tipografia avesse consegnato qualche copia in più delle ordinate, giusto come coda di lavorazione o salvaguardia nei confronti di avarie e scarti. Matter of fact: che quel liber magnus del grande Breznev (non l’ho letto, ma immagino un capolavoro inimitabile) fosse stato dalla Rizzoli comprato, pagato, tradotto, editato, stampato, rilegato, cellofanato, e poi direttamente impacchettato e mandato in magazzino, in attesa del macero. Senza mai passare per una libreria. Come dire: alcune centinaia di milioni buttati direttamente nella spazzatura.

Quando poi andai al primo piano di via Rizzoli, in presidenza, per chiedere (ridacchiando) lumi su quelle nozze di Cana editoriali, né Bruno Tassan Din né Angelo Rizzoli jr., che erano i padroni del vapore dell’epoca, mi seppero dare una spiegazione convincente. Angelo, se non ricordo male, parlò vagamente di un certo viaggio a Mosca, e di un “omaggio” che si era dovuto fare nell’occasione. Insomma: una mazzetta comunista (nei tabulati, alla casella “diritti”, al posto della cifra dell’anticipo figurava uno spazio bianco). Non osai chiedere se la mazzetta fosse stata pagata di qua o di là dal Muro.

Tassan Din, per conto suo, invece di rispondermi mi mandò, di lì a qualche mese, un deputato del Pci (di quelli con scritto in faccia “agente del Kgb”), latore di una nuova proposta: un libro quasi simile, ma stavolta di Cernienko (nel frattempo, io avevo fatto fare a un famoso dissidente russo un libro su Andropov, cosa che non piacque al soviet di redazione). Breznev, Andropov e Cernienko morirono a poca distanza l’uno dall’altro. Il libro di Cernienko, tuttavia, non si fece, non perché il suo autore fosse morto prematuramente, ma solo perché finì prima in galera Tassan Din (la mazzetta, si vede, stavolta non aveva funzionato).

Ma è probabile che sulla decisione di mandare subito al macero quello di Breznev avesse davvero influito la notizia della sua (non certo prematura) scomparsa: morto l’autore, era meglio limitare i danni. Con quello che si era speso prima, era già un bene almeno risparmiare le spese di distribuzione. Ripenso sempre a quel miracolo di san Breznev, quando sento le lamentele di molti intellettuali liberali sul controllo che la sinistra avrebbe esercitato sull’editoria nazionale: per venti o trent’anni, dicono alcuni (e non hanno torto); per quaranta, cinquanta, sostengono altri (sono meno d’accordo). E sul fatto che tale ferreo controllo abbia causato la sostanziale emarginazione dal panorama librario italiano della cultura di destra o comunque anticomunista.

Qualcuno arriva fino al punto di sostenere (non senza qualche ragione) che la cultura di sinistra ha avuto negli ultimi decenni, tra noi, una tale vitalità o per lo meno una tale aggressività non solo da imporsi sulla cultura della destra praticamente cancellandola, ma addirittura fagocitandola e assimilandola al punto da trasformarla anch’essa in cultura di sinistra. Non dico che queste considerazioni non siano vere. Riscontri nella realtà ne hanno, e non sarebbe difficile fare un elenco dei recenti casi di simile pantagruelismo (o uranismo) culturale. Dico solo che trasformare gli ultimi venti o trent’anni di editoria italiana in una specie di cena di Trimalcione di sinistra mi sembra un po’ riduttivo. E mi domando preliminarmente se sia poi tanto vera la premessa di quel ragionamento.

E cioè mi chiedo: ma è poi esistita davvero la cultura di sinistra in Italia? Ed è vero che sia stata tanto vitale, aggressiva, onnipervasiva? Se così fosse, perché oggi di colpo scopriamo tutti, adesso che è andata al potere, che la cultura di sinistra è vuota, fumosa, incoerente? Che non è stata capace di creare una classe dirigente? In breve: che non esiste? E se non fosse addirittura mai esistita? È mai possibile, infatti, che tutto si spieghi col fatto che D’Alema sia più scemo di Longo? Che Fassino sia più cretino di Pajetta? Io credo che la spiegazione vada trovata da un’altra parte.

Esiste una legge in editoria (che è poi una legge che viene dall’industria in generale) per la quale il 20 per cento delle case editrici fa l’80 per cento del fatturato; e viceversa, che l’80 per cento delle case editrici fa il 20 per cento del fatturato. La legge si può applicare anche agli autori: il 20 per cento degli autori (quelli che vengono in genere indicati come autori best-seller) producono (o si appropriano, a seconda del punto di vista) dell’80 per cento del fatturato/diritti; mentre l’80 per cento degli autori (quei poveracci che non riescono a vendere più di mille-duemila copie e magari anche molto meno) formano, con il loro miserabile 20 per cento di fatturato/diritti, lo strame necessario per permettere ai grandi autori di portarsi via la maggior parte della torta.

Questa legge (con i dovuti adattamenti) si può applicare anche al rapporto sinistra-editoria. In certi settori del catalogo editoriale (la pubblicistica politica, la filosofia, la sociologia, la saggistica di un certo tipo, la storiografia – specie quella contemporanea – ma anche la narrativa, la saggistica letteraria, insomma le humanae litterae in senso lato) non c’è dubbio che negli ultimi venti-trent’anni la sinistra in Italia l’abbia fatta da padrona. Diciamo pure che abbia occupato l’80 per cento del catalogo. Di conseguenza, costringendo il resto dentro un angusto 20 per cento scarso, e in certi momenti (per esempio, gli anni Settanta) anche meno.

Ma se si va a vedere quanto ha reso questo 80 per cento di catalogo (parlo in generale) in termini di fatturato, allora si scopre che non supera il 20 per cento del totale. Talora, addirittura molto meno. Insomma voglio dire che (sbrigativamente parlando, s’intende) se è vero, come è vero, che i libri “di sinistra” hanno occupato per due o tre decenni la gran parte del catalogo editoriale, lo hanno potuto fare solo perché le spese della produzione editoriale venivano pagate (spesso fin troppo generosamente) da libri che, genericamente, potremmo definire “di destra”.

E, più sbrigativamente ancora, che la cultura di sinistra si è mantenuta floridamente per tutto questo periodo come una gran sanguisuga che si è attaccata alla cultura, diciamo così, “di destra” e ne ha succhiato (o sperperato) tutto il sangue e i profitti.

Facciamo qualche esempio, clamoroso? Parlo di cose che conosco e lascio volentieri a qualche avventuroso studente di sociologia e di statistica di dimostrare con dati di fatto, numeri, cifre, proporzioni e percentuali quel che sostengo un po’ apoditticamente (e sarebbe comunque una bellissima tesi di laurea).

Ripensate a Giangiacomo Feltrinelli. Un editore di sinistra, per la maggior parte della sua vita editoriale. In certi momenti, nel Sessantotto, un grande e copioso editore di sinistra. Con che cosa si sarebbe pagato tutti i suoi innumerevoli librettini rossi, se non con i soldi fatti con libri come Il dottor Zivago o Il gattopardo? Libri “di destra”, non solo per quel che c’era dentro, ma anche perché così venivano classificati dalla pubblicistica di sinistra.

Ricordate le liste dei libri “da leggere” e da “non leggere” dei Quaderni piacentini? Quelli “da leggere” erano titoli di cui si vendevano mediamente tre copie; quelli “da non leggere”, dei best-seller da decine, centinaia di migliaia di copie. Ma l’editoria è un’industria, vive di profitti, o per lo meno di ricavi. E i profitti e i ricavi li facevano, anzi li fanno ancora i libri “da non leggere”; mentre quelli “da leggere” potevano essere pubblicati solo da editori che campassero sugli altri libri.

Se ne sono ben accorti quegli editori “politicamente corretti” ma imprenditorialmente sprovveduti che negli anni Settanta – persuasi ormai che la cultura di sinistra avesse conquistato la terra – si sono limitati a pubblicare i libri consigliati come “buoni” dalla sinistra. Risultato? Hanno fatto fallimento. Qualcuno di loro, dopo essersi ridotto alla canna del gas e aver dilapidato l’intero patrimonio familiare, si è poi riciclato come intellettuale di destra, ma questo è un altro paio di maniche.

Vorrei fare un esempio più recente, perché il lettore si senta meno spaesato. Prendiamo Baldini & Castoldi. Editore intelligente, abile, giustamente di successo. Il suo cavallo di battaglia, il suo best-seller è la Tamaro. Libriccini di poche pagine. Miliardi di fatturato, miliardi di profitti. Uno degli ultimi libri del catalogo Baldini & Castoldi è (tanto per fare un esempio macroscopico) la biografia del Che Guevara di Jon Lee Anderson. Libro di sinistra, autorizzato, politicamente corretto, rivisto personalmente da Fidel Castro (dicono).

Mille e cinquanta pagine. Prezzo di copertina, 50 mila lire. Quante copie se ne venderanno? Se va bene, diecimila copie. Diciamo, 500 milioni di fatturato. Togliamo, a esser buoni, il 55 per cento di spese di distribuzione. Restano all’editore, 225 milioni. Cifra con cui l’editore deve pagarsi i diritti d’autore, la carta, la stampa, la legatura, la pubblicità, le spese generali, gli oneri bancari, le tasse. Il solo costo della traduzione supera, per lo meno, i 25 milioni. Come fa a starci dentro? Non ci sta. O riceve un bonus dall’Avana per pubblicare questo libro, oppure va in perdita.

Se poi invece di diecimila copie, ne vende (come credo probabile) duemila, la perdita diventa un disastro. Chi paga la biografia politicamente corretta di Che Guevara? Ma la Tamaro, naturalmente. Autrice che i nuovi “quadernisti piacentini” classificano ormai come irrimediabilmente “di destra”. Di recente ho scritto (indignando, per esempio, Michele Serra) che un altro grande successo del Feltrinelli di sinistra è stato Cent’anni di solitudine, e che anche questo è un libro di destra. E che il suo autore, Garcia Marquez, è uno scrittore di destra travestitosi per opportunismo da intellettuale “di sinistra”. Apriti cielo!

Io credo di avere le mie buone ragioni, e le spiegherò un’altra volta. Voglio soltanto qui dire che questo, a mio parere, è un caso tipico di intellettuale che, essendo intimamente reazionario, si paga il lusso di apparire “di sinistra” avendo successo con libri intrinsecamente “di destra”. E non sarebbe neanche il primo caso. Vi prego, fate mente locale: ricordate Louis Aragon?

Caso ancora più interessante: qualche anno fa, uno studioso russo emigrato nel 1979 negli Stati Uniti, Vladimir Shlapentokh, ha scritto un bel libro per la Princeton University Press per dimostrare come nel suo Paese la corrente degli scrittori “russofili” (che intimamente erano quasi dei fascisti) riuscì a conquistarsi uno spazio notevole nella pubblicistica sovietica spacciandosi per più comunisti degli altri. Il che, naturalmente, la dice lunga anche su cosa era il “socialismo reale” dell’Unione Sovietica…

Torniamo per un momento al “miracolo brezneviano delle nove copie clonate”. Qual è il senso finale e generale che si può trarre da quella piccola, ridicola storia, in sostanza? Che negli ultimi venti-trent’anni l’editoria italiana ha dovuto (o voluto) pagare la sua sopravvivenza, stampando (e non vendendo) libri “di sinistra” come quel fantomatico e mai letto capolavoro di Leonid Breznev, destinato in partenza al macero.

Una storia da riderci sopra, tutto sommato? Mica tanto. Perché tutti quei tanti, innumerevoli “miracoli editoriali” destinati al macero hanno però costituito (non parlo qui adesso in particolare del Breznev, beninteso) tanti titoli validi per accedere a cattedre universitarie, per entrare nelle giurie dei premi letterari, per accedere alle poltrone di controllo dell’editoria, della televisione, del giornalismo, per essere eletti deputati o senatori, per diventare consiglieri del Principe, eccetera. E per clonare a loro volta altri libri e autori “politicamente corretti”, e moltiplicare all’infinito questa prolificante schiatta di extraterrestri.

Un’enorme, asfissiante produzione di spazzatura culturale protrattasi per tre decenni, che ha dato come risultato ultimo il fatto, ormai lampante, che il giorno in cui quelle idee e quei signori hanno preso il potere nel Paese, si sono dimostrati incapaci di governarlo. E così come allora vivevano e si riproducevano e si moltiplicavano per clonazione, succhiando i profitti dei cosiddetti best-seller “di destra”, così adesso vivono sulle tasse che ci cavano di tasca giorno per giorno.