Se studiare è un optional

scuola_sfascioArticolo pubblicato su La Repubblica
20 febbraio 2001

di Mario Pirani

La “rivoluzione culturale” in Cina durò una diecina d’anni, all’incirca dal 1966 alla morte di Mao. Costò una trentina di milioni di morti e un quinquennio di carestia. I giovani, in divisa di “guardie rosse”, vennero innalzati a detentori del Nuovo Pensiero, gli insegnanti furono avviati forzosamente alla coltivazione delle rape, lo studio della storia, e soprattutto di tutto ciò che poteva richiamarsi agli antichi insegnamenti confuciani, rigorosamente proibito. Si ordinò persino la chiusura degli antiquari e la dismissione dei costumi tradizionali nei balletti dell’Opera di Pechino, così da rimuovere ogni idea del Passato.

Un Nuovismo feroce imperò per dittatura. Schiere d’intellettuali di sinistra in Occidente salutarono il “libretto rosso” e le nefandezze che lo accompagnarono come la più avanzata primavera umanistica. Gran parte di loro non hanno mai espresso la minima autocritica e seguitano ad autocertificarsi come maestri del pensiero.

Dubito che il virus mentale che allora li infettò si sia subdolamente annidato in tutto questo tempo e, venuto in contatto con il sociologismo pedagogico d’oltreatlantico, abbia diffuso e provocato una di quelle patologie mutanti, quanto devastanti, che le terapie della Ragione faticano a contenere. Come per l’Aids, che si sospetta abbia contagilato l’uomo in seguito al bestiale connubio con una scimmia compiacente, quanto maliziosa.

Come spiegarsi altrimenti lo sfascio della scuola italiana cui hanno contribuito, con pari impeto e comune compiacimento, uomini di destra, quali il Donofrio, ministro della P.l. di Berlusconi, firmatario dell’abolizione del rinvio a settembre, o il De Mauro, che, da ultimo, ha sancito la riduzione della Storia ad ancella degli studi?

In perfetta buona fede hanno anch’essi, e i loro colleghi, innalzato bambini e ragazzi sul trono di un effimero potere che consente di studiare o meno, di assentarsi o venire a scuola, di svillaneggiare il professore o di comportarsi civilmente, di chiedere a genitori dissennati protezione, magari giuridica, nei confronti del docente. Non ci sono punizioni ma neppure premi, perché tale non può essere considerato un diploma conseguito gratis. Certo, una minoranza si salva ma questo è l’effetto paradossale del fallimentare presupposto egualitario di abbuonare a tutti l’onere dell’impegno e di un minimo di disciplina.

Per contro gli insegnanti bistrattati, malpagati (malgrado l’ultimo contratto), sovraccaricati d’inutili adempimenti burocratici, sollecitati ad occuparsi d’infiniti “optional” piuttosto che della didattica sono accampati nelle scuole in preda al disinganno, all’umiliazione, alla perdita di ruolo o, cinicamente, si adeguano e lucrano misere integrazioni adattandosi alle infinite direttive su Pei (Progetto educativo d’istituto), Carta dei Servizi, Normativa sulle assenze, Integrazione Pei, Questionario sindacale, Nuovo esame di Stato, Pof (Piano offerta formauva), Fis (Formazione integrata Superiore), Pip (Piano integrato provinciale), Funzioni obiettivo e quant’altro escogiti la perversa fantasia dei gerarchi della didattica (leggi per credere il recentissimo volumetto di Lorenzo Busson, “Studenti serpenti. una scuola a Nord Est”, ed. Biblioteca dell’Immagine, Pordenone).

Naturalmente anche fra i docenti brillano le esemplari eccezioni, i pochi eroi (ma “povero quel paese che ha bisogno di eroi!”) che riescono a sedare con lo sguardo gli incipienti tumulti e far amare Leopardi; o i tanti testardi fantaccini dell’insegnamento che vanno avanti malgrado tutto. Conforta, peraltro, l’attivarsi di movimenti di base che elaborano modifiche sostanziali alla riforma dei cicli, interpretano l’autonomia come libertà di non applicare i nuovi programmi, preparano progetti alternativi nel quadro di una dialettica propositiva, politicamente trasversale.

Le sigle sono già tante: dai «500 insegnanti e genitori di Torino” alla «Proposta per una rivalutazione culturale della scuola», filiazione della cattolica Nuova Spes.

Nel complesso si può dire che il mondo della scuola pubblica appare deluso della sinistra, che ne ha mortificato le competenze e diffidente, quanto impaurito, da un centro destra che, da un lato, dichiara di voler privilegiare gli istituti privati, mentre, dall’altro è ancor più impregnato di pseudo cultura aziendalistica (Inglese, Internet, Impresa).

Per quanto riguarda la sinistra c’è da chiedersi quale pulsione suicida l’abbia investita, ma la risposta non è semplice perché coinvolge l’analisi della crisi politica e ideale, seguita al crollo dei regimi comunisti e alla delegittimazione dei partiti, da Tangentopoli in poi. Picconata l’organizzazione di massa tradizionale che permetteva di monitorare le opinioni diffuse, oscuratasi la dialettica di un impianto culturale che ambiva a coniugare la continuità e il radicamento storico con la fede nel progresso e nella scienza, è come se ogni luce orientativa si fosse spenta.

La critica spietata delle ascendenze non è bastata e si è giunti a negare di averne mai avute. Persa la memoria per lobotomia ci si è rivolti ai mercatini di bussole usate illudendosi di trovare qualche possibile orientamento: per la scuola il rappezzato patchvork spazia da don Milani al ciarpame psico-pedagogico di stampo anglosassone che ha portato l’Inghilterra, stando alle affermazioni di Blair, ad avere uno dei più disastrati insegnamenti pubblici del mondo (ma nel Regno Unito come, del resto, negli Usai gruppi dirigenti si formano nei grandi colleges e università private di altissimo livello ed altissimo costo). Come meravigliarsi se una parte non piccola d’insegnanti si sta disamorando di una antica appartenenza alla sinistra, così come gli scienziati che si sentono traditi da chi fino a ieri amava identificarsi col progresso?

In questo deserto la politica scolastica delle sinistre – coltivata un tempo nei suoi orientamenti da intellettuali come Visalberghi e Codignola, Concetto Marchesi e Francesco Flora, Natalino Sapegno e Rosario Villari e verificata in dibattiti appassionati e coinvolgenti -, è oggi dominio di una casta potente quanto autoreferenziale di pedagogisti, in buona misura anonimi, abbarbicati attorno al ministero della Pubblica Istruzione e negli Istituti regionali per la didattica (Irrsae), che hanno imposto la loro dittatura sull’ordinamento scolastico, grazie alla acquiscenza dei ministri che si sono succeduti.

Loro credo è la docimologia (dal greco “dòkimos”, idoneo) che dovrebbe scientificamente determinare la valutazione dell’alunno, con un approccio oggettivo, non influenzato dalla soggettività individuale dell’insegnante. Quindi niente interrogazioni, temi in classe, poesie a memoria, ortografia, regole grammaticali e sintattiche, analisi logica e altri reperti del passato “confuciano”: lo studente sceglierà a suo piacere i «moduli” dei “nuovi saperi che reputerà più confacenti (salvo saltare attraverso predisposte «passarelle» da un “modulo” all’altro).

La valutazione, non più soggetta all’arbitrio dell’insegnante, sarà assolutamente oggettiva. attraverso tesi e quiz, per rispondere ai quali, come è noto, non occorre esser padroni della lingua parlata o della scrittura, bastando un si o un no, o anche una crocetta. Se poi qualche temerario insegnante si azzardasse ancora ad esprimere giudizi negativi, basterà sottoporlo – come sovente accade – a una specie di processo nel consiglio di classe (cui democraticamente partecipano rappresentanze degli scolari e delle loro famiglie) per ricondurlo a più consoni comportamenti (il che, del resto, già tanti fanno, per cui molti voti sono palesemente falsi). Infine, per gli eventuali docenti testardamente renitenti, vige l’opportunità del ricorso al Tar e della promozione per sentenza.

In questo contesto si colloca ora la riforma dei cicli e dei programmi. Le elementari e le medie saranno un tutto unico per sette anni (uno in meno degli attuali), cui seguiranno i cinque anni delle superiori. Mi astengo in questa sede dall’esporre le non poche obiezioni che già ricorrono, del resto, su tutta la stampa limitandomi al punto che, non solo a me, sembra il più grave, quello dell’insegnamento della Storia.

In forma generale, cronologica, dalle origini dell’uomo ai giorni nostri, esso dovrebbe svolgersi una volta sola, dalla quinta della scuola di base, fra i 10 e gli 11 anni, fino alla seconda superiore, fra i 14 e i 15 anni. Nei tre anni successivi si svilupperanno temi specifici sulla base di percorsi tematici a scelta (la Shoah, la mondializzazione, l’emancipazione femminile, il colonialismo, ecc.).

C’è da chiedersi come una simile aberrazione – tutt’al più spiegabile in una scuola primaria del Nevada – abbia potuto germogliare a due passi dal Foro Romano. Mi basta riportare le parole di una lettera aperta al ministro (in realtà mai aperta) di un insegnante liceale, il prof. Fabrizio Polacco, di Roma (esponente di Prisma – Progetto per la rivalutazione dell’insegnamento e dello studio del mondo antico), il quale propone l’alternativa di due cicli consecutivi di cinque anni ciascuno e si chiede “come sia possibile parlare una volta sola, per di più a soli undici anni, della civiltà greco-romana e medievale, un arco storico che ci ha dato l’alfabeto, la religione, la filosofia, l’arte e la politica”.

E quando nell’ultimo triennio si passerà allo studio per temi? «Non riesco a capire come si possa immaginare uno studio monografico slegato dalla visione generale del processo storico», ha osservato in proposito uno studioso emerito come Rosario Villari. Ma a queste osservazioni di semplice buonsenso la setta dei nuovi pedagogisti ribatte: «La storia non si studia ma si fa!”, alludendo ai cosiddetti «laboratori dove sedicenni, che vagamente ricordano le guerre puniche e pensano che Carlo Magno ed Alessandro Magno siano fratelli, dovrebbero cimentarsi in ricerche autonome, quasi si trattasse di applicazioni tecniche, tipo il «piccolo falegname».

Spero di non beccarmi nuovamente l’epiteto di fascista per tutte queste critiche, assai blande se paragonate a quelle di un illustre grecista, Luciano Canfora, (politicamente di osservanza cossuttiana) il quale ha scritto: «E’ un segno di demagogia suicida trattare l’Italia come un paese emergente, bisognoso di dotarsi, quasi fosse una tabula rasa, dei primi elementari strumenti di acculturazione di massa». Non ci resta che sperare nel rinsavimento. Anche in Cina, passata la “rivoluzione culturale», i ragazzi sono tornati a scuola e i professori ad insegnare.