Il razzismo? Darwin più teosofia

razzismopubblicato su © Il Timone n. 31
Marzo 2004

Le radici del razzismo sono nel cuore delle correnti culturali della modernità: l’illuminismo, il positivismo scientifico e la critica della civiltà cristiana medievale e della Chiesa cattolica

di Adolfo Morganti

Dopo il 1945 lo spettro del razzismo si aggira per l’Europa. L’impatto del genocidio degli ebrei e di altre minoranze etniche perpetrato a cavallo della seconda guerra mondiale ha segnato in profondità la cultura europea dell’ultima metà del ‘900, e oggi i mass media hanno volgarizzato l’uso del termine “razzismo” estendendolo ad una serie di usi sempre più distanti dalla sua realtà originaria: il linguaggio comune, plasmato dal gergo giornalistico, oggi tende ad utilizzare come sinonimi termini quali “xenofobia”, “razzismo”, “intolleranza”, “antisemitismo”.

In tal modo la parola ‘razzismo” significa cosi tante cose da non significarne più alcuna, e il suo utilizzo rischia di farla diventare un termine puramente retorico, il cui significato è di volta in volta imposto dal potere politico e mediale: per cui “razzisti” sono sempre e comunque “gli altri”.

È importante, per capire questo fenomeno, ricostruire la storia del razzismo, le sue radici filosofiche e scientifiche, il clima culturale che ha reso possibile prima pensare e poi applicare il razzismo alla cultura e alla società.

Se apriamo il Dizionario enciclopedico Treccani della lingua italiana, alla voce “razzismo” leggiamo: «Termine, diffuso in Italia soprattutto dal 1938, usato per indicare da una parte le dottrine che postulano quale presupposto del divenire storico l’esistenza di “razze superiori” e “inferiori”, le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione, e dall’altra l’azione tendente a ottenere la “purezza” e il miglioramento delle razze superiori».

Il lettore può constatare da un lato la riduzione nel pensiero razzista dell’umanità a specie zoologica – una fra le tante esistenti, e pertanto sottoposta agli stessi processi di valutazione e selezione riservati ai bovini da latte a al suini da carne -, e nel contempo l’impressione profondamente errata che il razzismo sia un fenomeno novecentesco, connesso al dilagare del nazismo in Europa ed albo sterminio degli ebrei, e pertanto cessato nel 1945.

Questa interpretazione del razzismo come breve parentesi inspiegabile e barbarica all’interno del percorso progressivo della cultura europea del ‘900 è esattamente parallela – e ne condivide le fonti ispirative – alla definizione crociana del nazismo come parentesi inspiegabile e irrazionale della cultura politica europea, e come questa e autoconsolatoria e sbagliata.

Chi voglia studiare direttamente i “testi sacri” del pensiero razzista otto-novecentesco vi scopre infatti una singolare coesistenza di filoni culturali apparentemente diversi e che la nostra sensibilità troverebbe oggi razionalmente incompatibili fra loro, ma che nella cultura degli albori della modernità si fusero assieme:

a) l’utilizzo entusiasta delle conoscenze scientifiche derivanti dalla genetica, dalla teoria dell’evoluzione e dall’antropologia scientifica: già Ia generazione successiva a Charles Darwin iniziò ad usare l’evoluzionismo per “interpretare” le differenze fra culture e razze in modo da sottolineare la superiorità della razza wasp (bianca, anglosassone e protestante) e giustificarne il colonialismo.

b) la cultura materialista e positivista allora egemone fece si che queste teorie scientifiche si mescolassero assieme alla critica illuministica alla società organica e all’universalismo cattolico e medievale, per cui non tanto un generico cristianesimo, ma soprattutto il Cattolicesimo romano divenne il “nemico principale” delle teorie razziste, e tale è rimasto fino ad oggi.

c) l’alternativa al Cattolicesimo venne cercata sviluppando i temi tipicamente romantici (e puritani) della “mistica del popolo”, inteso come comunità dei portatori della stessa eredità simultaneamente biologica e spirituale, fino a generare nel corso del ‘900 una impressionante serie di sette nazionaliste sospese fra il luteranesimo e il neopaganesimo più estremi come ad esempio la Teosofia, in cui il razzismo biologico si mescolava con deliri neospiritualisti di ogni tipo.

d) infine, il culto giacobino dell’onnipotenza dello Stato divenne l’obbligata cornice politica e giuridica del razzismo, come di ogni totalitarismo moderno. Allo Stato venne affidato il compito di “rigenerare” la società distruggendo ogni resistenza: il sogno giacobino di Saint-Just diveniva realtà con più di un secolo di ritardo.

Il razzismo non è stato quindi un’anomalia inspiegabile nel cammino ascendente della società europea verso le sognate “radiose sorti, e progressive”: al contrario, anche in quest’ambito il ‘900 si è limitato a realizzare quanto è stato a lungo pensato e discusso nel secolo precedente e nello stesso tempo, senza il lungo percorso di costruzione non solo di una pseudo-scienza, ma anche di una pseudo-filosofia ed anche di una pseudo-religiosità razzista, percorso che si è dipanato per ben due secoli, il XVIII e il XIX, i genocidi del 900 non avrebbero potuto essere pensati e realizzati.

Le radici sette-ottocentesche del razzismo non sono cresciute fuori, ma nel cuore delle grandi correnti culturali che hanno costruito la modernità: in primo luogo l’illuminismo e il positivismo scientifico e il derivante clima di critica serrata e caustica del patrimonio culturale e spirituale dell’Europa anteriore alla rivoluzione politica, scientifica ed industriale del XVIII-XIX secolo; tale critica ebbe il suo massimo bersaglio nella civiltà cristiana medievale e soprattutto nella Chiesa cattolica, e i razzisti avevano ben chiara la coscienza di continuare a combattere una “battaglia di civiltà” che da Voltaire e dal kulturkampf bismarkiano sembra condurre direttamente ai Lager (e per via simmetrica, ai GuLag), in nome del progresso della scienza e della lotta contro Ia superstizione cristiana e, massimamente, cattolica.

In questo cammino il 1945 rappresenta un punto di svolta, ma non la fine della strada. Smettendo di coprirsi gli occhi si constata che il razzismo, nelle sue componenti pseudo-scientifiche e pseudo-religiose, è ampiamente sopravvissuto alla fine del Terzo Reich, dimostrando una vitalità ed una capacità di convivere con sistemi politici e culturali variegati solo apparentemente paradossale, semplicemente rivestendosi di panni maggiormente politically correct.

La tragedia cambogiana, le recenti polemiche attorno alla riapertura del processo contro l’ex-premier serbo Slobodan Milosevic, accusato dal Tribunale Penale Internazionale di genocidio, e la continuazione dei “genocidi nascosti” contro i Cristiani in Sudan e i Tibetani in Cina, costituiscono un ulteriore motivo per ricordare come, dall’abbandono delle radici culturali e spirituali cattoliche, la modernità occidentale abbia ricavato solamente allucinazioni ideologiche, dolore e distruzione.

Bibliografia

Adolfo Morganti, Il razzismo. Storia di una malattia della cultura europea, Il Cerchio, collana “L’Altrotesto”, Rimini 2003.