Giuseppe Moscati. Il medico santo

Giuseppe MoscatiTracce maggio 2009

Tra i vicoli di Napoli, le corsie d’ospedale e le cattedre universitarie si dipana l’opera di questo “strano” dottore mosso in ogni istante «dall’ardenza dell’amore, la carità». Quinta tappa del nostro viaggio tra i santi che, annunciando il cristianesimo, hanno cambiato la società

di Paola Bergamini

Napoli 1923, nel corridoio della III sala dell’Ospedale degli Incurabili si sente un gran vociare. Una donna piange, l’uomo accanto a lei, con il viso infiammato urla: «Suora, dove è un medico? Questa situazione è inaccettabile, solo perché siamo dei poveri cristi…».

«Io sono un medico – si sente alle spalle -. Questo è un luogo di sofferenza, vi prego di abbassare la voce. Reverenda madre mi spieghi cosa sta succedendo». «Professore – risponde la suora -, è per quel ragazzo affetto da emofilia, soggetto a lunghe emorragie che bisogna medicare quotidianamente…».

L’uomo la interrompe: «C’è che, siccome le ferite di mio figlio emanano cattivo odore, nessun assistente vuole medicarlo. Sono ore che stiamo aspettando».

Il medico non dice una parola, si avvicina al carrello delle medicazioni, lo spinge fino al letto del paziente. Con delicatezza comincia a sfasciarlo, a pulire le ferite, a medicarlo e intanto gli parla. Un dottore, che ha assistito alla scena commenta: «Che uomo, un filantropo. Al servizio dell’umanità». Il padre del ragazzo scuotendo la testa: «Dotto’ lei non ha capito niente. Che “filantro”, o come si dice. Ha guardato mio figlio? Io non so cosa gli ha detto, ma mi sembra che soffra meno. Ha chiesto a sua madre di portargli una corona del Rosario. Quello ha la carità nel cuore».

E dopo un attimo: «Ditemi il suo nome». «È il professor Giuseppe Moscati. II mio professore», gli risponde con orgoglio un giovane medico appena arrivato. L’uomo sorride: «Ora capisco. Il medico santo».

Giuseppe non sa che a Napoli lo chiamano così. Per lui «gli ammalati sono le figure di Gesù Cristo. Amiamo Dio senza misura nel dolore. Riponiamo tutto il nostro affetto non solo nelle cose che Dio vuole, ma nella volontà dello stesso Dio che le determina. Molti sciagurati, delinquenti, bestemmiatori, vengono a capitare in ospedale, per disposizione ultima della Misericordia di Dio, che li vuole salvi», aveva scritto a margine della sua tesi, quando a soli 23 anni si era laureato con lode e pubblicazione della tesi in Medicina.

Nello stesso anno aveva vinto il concorso per aiuto straordinario agli Incurabili e, a distanza di pochi anni, era diventato aiuto ordinario, direttore di sala e nel 1922, a 38 anni, una commissione appositamente nominata dal Ministero della Pubblica Istruzione gli aveva conferito la libera docenza in Clinica medica generale. E poi gli studi, le pubblicazioni su riviste prestigiose.

È uno dei primi in Italia ad usare l’insulina per pazienti affetti da diabete, facendola arrivare, direttamente dall’America attraverso un suo ex allievo. Un luminare, un personaggio importante per tanti colleghi che però non capiscono quel modo di fare “strano” che ha con i pazienti, tanto che un giorno proprio un collega lo aveva fermato per dirgli: «Tu sei una celebrità nel mondo medico, non è conveniente che consigli agli ammalati, mentre li visiti, di confessarsi e di fare la comunione».

Giuseppe aveva risposto secco: «Al di sopra di noi c’è il Signore. E a lui prima di tutto si deve riferire tutto quello che facciamo e operiamo. In altri termini: prima Dio, poi le altre cose». Quella stessa sera aveva scritto: «II dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».

Dio, se c’è non c’entra.

Quando si era iscritto a Medicina, nella prestigiosa università partenopea, la posizione dei suoi professori era ben diversa: l’uomo è un insieme di gangli. È l’affermarsi del positivismo scientifico, per cui Dio se anche c’è, non c’entra. Per Giuseppe non era così! Aveva cominciato la sua battaglia. Aveva studiato, si era appassionato alla scienza che non vedeva mai in contrapposizione con la sua fede. Per lui era ed è uno strumento di investigazione che rivela che ogni cosa è voluta da Dio per l’uomo perché «’lsuo fattore non disdegnò di farsi sua fattura» (Dante, Paradiso XXXIII), amandolo fino alla morte, avendone pietà.

Questo amore scandisce ogni suo gesto, ogni istante della sua giornata. Lo fa essere un maestro per gli studenti, che da lui vogliono imparare questo modo diverso di “essere medico”. Per questo all’amico Benedetto Croce, quando nel 1923 sorge il problema della clinicizzazione per cui viene impedito l’insegnamento libero negli ospedali, scrive: «Vorrebbero rompere il legame che ci unisce agli studenti. Come se l’unica cosa da insegnare loro fossero la scienza, le nozioni. La carità devono imparare: la carità ha trasformato il mondo in alcuni periodi. Solo pochissimi uomini sono passati alla storia per la scienza, ma tutti potranno rimanere imperituri se si dedicheranno al bene. E chi meglio del medico può fare questo?».

È pomeriggio inoltrato, quando Giuseppe esce dall’ospedale. Per un attimo si volge a guardare la facciata degli Incurabili. Una voce lo distoglie dai suoi pensieri. «Professore, mi scusi posso chiederle una cosa?». Giuseppe riconosce uno dei suoi alunni. «Mi dica». «Se non le dispiace volevo accompagnarla fino a casa, ma forse la disturbo».

Giuseppe sorride: «No, anzi, mi fa piacere. Stavo ricordando le parole che disse mio padre – un grande uomo, era magistrato della Corte d’Appello di Napoli – a me ragazzino, una sera sulla terrazza di casa, la stessa dove ora abito con mia sorella Nina. Mi disse: “Guarda. Quanta sofferenza tra quelle mura. Ma il dolore viene lenito con i rimedi che l’uomo con la ricerca ha trovato e, dove questi non possono più nulla, con la pietà cristiana. Lì, nella sofferenza, il Signore porta il suo conforto se ci sono persone buone che non hanno paura ad annunciarlo. Il dolore è vinto perché il Medico è venuto a porre rimedio: la morte è stata vinta”. In quel momento ho intuito che il Signore mi voleva tra quelle mura».

Sono a metà strada, quando Giuseppe chiede all’allievo: «Io mi fermo per qualche minuto, qua, nella chiesa delle Sacramentine. Lei?». «La accompagno», non esita a rispondere il giovane medico. Invidia la fede certa del suo professore, che lo contraddistingue da tutti; non c’è nessun bigottismo nel suo modo di fare, ma un modo di affrontare la vita che lo rende speciale. Per questo vuole stare con lui. In quella chiesa, alcuni anni prima, Giuseppe aveva fatto voto di castità al Signore. In silenzio, senza clamore. Aveva scritto: «Ho uno slancio di tenerezza per la Madonna del Buon Consiglio, che mi sorride così come è effigiata nella chiesa delle Sacramentine. Innanzi a questa immagine di lei e in questa chiesa io feci abiura degl’impuri affetti terreni».

Sotto la lava del Vesuvio.

Arrivano in via Cisterna dell’Olio che è quasi sera. Davanti al numero 10, dove abita, Giuseppe si ferma per salutare l’allievo. «A domani». Il giovane medico non molla: «Professore, posso assisterla nelle visite che fa ora nel suo ambulatorio?». «Può essere che si faccia tardi…». «Non importa». «Va bene».

Appena varcano la soglia di casa una ventina di persone, di tutti i ceti sociali, sono pronte ad accoglierli. Nina, la sorella, gli si fa incontro: «Un ragazzo ha lasciato questo foglietto». Giuseppe lo apre, la sua fronte si corruga. «C’è un bambino che sta molto male, dopo cena andrò a visitarlo». «Dove abita il ragazzino?». «Dalle parti di corso Vittorio Emanuele». «Non è una bella zona…», commenta Nina. Giuseppe la guarda negli occhi: «Nina, il Signore chiama dove vuole. Lo sai, tra i malati, in ospedale c’è la mia famiglia. Lì ogni giorno mi chiama il Signore. Non ti preoccupare, questo giovane medico mi accompagnerà. Non mi succederà nulla». È vero, al medico santo nessuno osa far nulla.

Iniziano le visite. «Dotto’, sono grave?». «No, ma deve prendere le medicine che le prescrivo». «Dotto’, sa che io indirettamente la conosco? Mia nonna mi ha raccontato di quando lei venne a Torre del Greco. Era l’8 aprile 1906, il giorno funesto dell’eruzione del Vesuvio» e, rivolgendosi al giovane medico incuriosito: «Mi ricordo il fiume incandescente che scendeva dalla montagna, il cielo era nero. L’apocalisse sembrava. Tutti scappavano. Nell’ospedale di Torre del Greco i malati erano per lo più persone anziane, non potevano muoversi. Nell’evacuare gli ospedali nessuno aveva pensato a loro… eccetto il dottor Moscati. Arrivò verso sera su un calesse. Con pochi precisi ordini cominciò a far uscire tutti i malati. Lo vidi io stesso portarne fuori alcuni sulle spalle. Appena l’ultimo malato fu issato su un carro, tutto l’edificio crollò. Tra quelli che lei salvò, c’era anche mia nonna».

«Io non ho salvato nessuno. È stata tutta opera della Provvidenza. Sono stato solo un suo strumento. Comunque, non perdiamo tempo. Tu, piuttosto, quando ti sei confessato l’ultima volta? Mi sembra che le preghiere siano un lontano ricordo». L’uomo arrossisce… «Come fa a sapere?», pensa fra sé. E in risposta: «Quanto le devo?». Moscati alza lo sguardo di scatto: «Portali in chiesa i soldi e intanto visita il tabernacolo. La Provvidenza farà il miracolo anche a te».

Il giovane medico è strabiliato: erano bastati pochi indizi per capire di cosa era affetto l’uomo e uno sguardo per capire dove era la sua anima. Sulle capacità di diagnosi di Moscati nessuno aveva dubbi, soprattutto dopo che, a dispetto di tanti luminari di fama internazionale, era stato l’unico a capire di cosa era malato il famoso tenore Enrico Caruso, rientrato in patria per curarsi. Purtroppo era ormai troppo tardi, non c’era stata possibilità di cura. Al tenore, Moscati aveva detto: «Avete consultato tutti i medici, ma non avete consultato Gesù Cristo». Caruso aveva risposto: «Professore, fate quello che volete». Era stato chiamato il prete e amministrati i Sacramenti.

Giuseppe sa di cosa l’uomo ha bisogno, il Signore gli ha donato questo talento: di capire la malattia e di scrutare il cuore delle persone. Come avviene il 13 febbraio 1927. Quel giorno l’aula magna dell’Università di Napoli è affollata di professori e alunni, venuti ad ascoltare Leonardo Bianchi, vicepresidente della Camera, noto per la sua attività scientifica, ma anche per le sue idee antireligiose. Giuseppe è seduto in seconda fila.

AI termine della conferenza, tra lo scroscio di applausi il professore improvvisamente si accascia. Viene sdraiato a terra, non riesce a parlare, ma con gli occhi cerca Moscati, che nel frattempo si è avvicinato. Giuseppe capisce la gravita della situazione e chiede a un collega di andare a chiamare un prete. In ginocchio gli parla, dal panciotto estrae un crocifisso e lo da fa baciare al morente. L’uomo continua a guardarlo, non c’è terrore sul suo volto. Dopo pochi minuti esala l’ultimo respiro. Regna il silenzio, tutti gli sguardi sono rivolti a Giuseppe. Una cosa è chiara: il professor Bianchi, l’uomo che aveva sempre solo creduto nella scienza, in punto di morte aveva voluto vicino Moscati. Per convertirsi.

Un popolo in silenzio.

Due mesi dopo, 12 aprile 1927. A metà pomeriggio Giuseppe interrompe le visite. Non si sente bene. Nina è costretta a mandare via le persone che affollano il corridoio. Quando ritorna in camera del fratello, lo trova accasciato sulla poltrona. Emette l’ultimo respiro senza una parola. Sulla scrivania il libro ancora aperto di sant’Alfonso de’ Liguori, che stava meditando. Dopo poche ore la notizia scuote la città. Napoli si paralizza.

Davanti al palazzo di via Cisterna dell’Olio si forma una lunga coda. Sacerdoti, religiose, politici, aristocratici e popolani in silenzio pregano. Nel registro delle firme tra le tante frasi piene di affetto si legge: «Non ha voluto fiori e nemmeno lagrime. Ma noi lo piangiamo, che il  mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di tutte le virtù, i malati poveri hanno perduto tutto».

Giuseppe Moscati è stato canonizzato da Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987, durante il Sinodo dei laici.

PER SAPERNE DI PIU’

Antonio Tripodoro Giuseppe Moscati. Il medico dei poveri (Paoline, 9,50 euro)

Paolo Bergamini Laico cioè cristiano (Marietti, 10 euro)