Sui sentieri di una carità intelligente

L’Osservatore Romano,16 novembre 2007

di Umberto Muratore

Di tutte le virtù eroiche che vengono riconosciute ad Antonio Rosmini, una in particolare lo distingue da tanti altri santi e beati che gli tengono compagnia nel cielo della santità, e ce lo rende contemporaneo oggi.

È il modo originale con cui ha percorso il sentiero della “carità intelligente”, la generosità con la quale venne incontro alla penuria non di conoscenza, ma di senso completo per raggiungere la vocazione fondamentale di ogni uomo alla santità.

Il primo chiaro sentore dei guasti etici e spirituali provocati da una cultura scorretta egli l’ebbe a Milano, nel 1827, mentre si trovava accanto ad Alessandro Manzoni e cercava di portare a termine uno studio di politica. Ad un certo punto capì che i fremiti della società civile non erano causa principale del malessere della modernità, ma effetti di una malattia più profonda.

L’empietà aveva fatto un lungo cammino, gli uomini erano andati lontani, sbandando sia a destra che a sinistra, ed ora bisognava compiere un lungo cammino, se si voleva andare alle radici della malattia per curarla. L’errore, iniziato nel comportamento, era penetrato nel cuore delle persone, e poi dal cuore era salito alla testa, diventando un modo di pensare, una mentalità comune. Era dunque la mente che bisognava cambiare. Era una sana filosofia la medicina che poteva portare rimedio alla radice dei mali della modernità.

Due anni dopo, durante una visita pontificia, provvidenzialmente perché inaspettatamente, si sentì investire dal Papa Pio VIII di una missione che confermava e rafforzava a puntino i suoi presentimenti:  “È volontà di Dio che lei si occupi nello scrivere libri:  tale è la sua vocazione. La Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori:  dico di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza.

Per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggi altro mezzo che prenderli con la ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Si tenga certo, che lei può recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandosi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del sacro ministero”.

Prendere dunque gli uomini per la ragione e per mezzo della ragione condurli alla religione. Prendere gli uomini per la testa, come avrebbe detto cento anni dopo un altro santo, Escrivà de Balaguer. Chissà quante volte Rosmini ebbe a pensare a questa missione che egli, per primo nell’Ottocento, indicò come esercizio di “carità intellettuale” verso la nuova forma di povertà dei contemporanei.

Era una missione “profetica”, perché coglieva la tendenza prevalente dei tempi e metteva in guardia circa i futuri effetti perversi di uno strisciante relativismo e nichilismo, di cui egli allora individuava i semi e che noi avremmo sperimentato durante tutto il Novecento.

Pochi anni prima di morire, nell’Introduzione alla filosofia, primo volume della riedizione ordinata di tutte le sue opere, Rosmini, ormai nel pieno della maturità, spiegherà meglio in cosa consisteva la penuria di senso della civiltà occidentale.

La cultura della modernità, affascinata da alcuni filoni “empi” dello spirito dell’Enciclopedia francese, si andava mettendo nella convinzione che tra intelligenza e fede non vi fosse mediazione:  più l’uomo avrebbe coltivato la ragione, più avrebbe potuto fare a meno di Dio nella conduzione della propria vita. Volontà di emancipazione dunque dalla religione, tentativo illusorio di poter costruirsi da solo il proprio destino, allontanamento dalla comunione con Dio, spegnimento interiore del soprannaturale ed ebollizione continua entro le pareti della sola soggettività, entusiasmo fanatico verso la periferia del mondo e svuotamento progressivo della vita interiore.

Rosmini scrisse più di cento volumi per convincere i contemporanei che si trattava di un sentiero fatale, che la ragione lontana dalla religione e dalla grazia soprannaturale avrebbe imboccato le vie dello smarrimento, vie di morte che sarebbero approdate alla follia delle ideologie e al sacrificio della stessa ragione.

Per venire incontro ai fratelli ed operare un dialogo più efficace capovolse il metodo classico del ragionamento:  Agostino e Tommaso partivano dalla riflessione su Dio per giungere all’uomo; Rosmini ritenne più utile ai propri tempi iniziare dall’uomo per giungere a Dio.I pensatori cristiani che l’hanno preceduto indulgevano all’uso dell’autorità nella soluzione dei problemi, egli ritenne più utile ora usare la persuasione e il dialogo. I libri precedenti erano scritti in una lingua per pochi, egli scelse la lingua corrente del popolo. Ma il deposito era lo stesso, i contenuti immutati. Non fu capito subito, ma il tempo gli diede ragione.

Abbiamo così una serie impressionante di scritti, una specie di summa o “sistema della verità” ragionata, nella quale ogni studio prima mette a fuoco il problema sul quale si interroga, poi sottopone a esame le soluzioni precedenti cercando di valutarne pregi e difetti, quindi avanza la propria soluzione e, infine, mette in evidenza la coerenza di questa soluzione con la continuazione nella fede. Il tutto con lo spirito di chi vuole conservare la “libertà del filosofare” e promuovere la “conciliazione delle sentenze” o raccolta dei semi di verità sparsi nelle diverse culture.

Facilitato da tali metodi, il lettore che si addentra negli spessi volumi di questo prete mite e acuto, inizia una navigazione intellettuale sul mare dell’essere che avanza verso molteplici direzioni:  filosofia, logica, antropologia, psicologia, etica, pedagogia, diritto, politica, ontologia, spiritualità, teologia, perfino matematica. E man mano che legge e riflette, scopre il richiamo logico con le altre parti e col tutto, quasi la conoscenza dell’io del mondo e di Dio fossero realtà di un grandioso mosaico mai completato, di un cantiere che cresce ordinato ma rimanendo sempre aperto e perfezionabile.

Il suo è un procedere, nel quale l’uno e i molti, la totalità e la molteplicità, l’interno e l’esterno, l’analisi e la sintesi, il vecchio e il nuovo si richiamano e si illuminano a vicenda, e l’essere unitrinitario infinito e finito brilla in tutta la sua totalità senza mortificare la molteplicità. È un procedere che raccoglie e unisce i frammenti di verità sotto le ali della verità madre, un sapere che appunto perché unisce e non spacca si fa “carità” sia nei contenuti che nel metodo.

La sorpresa forse più forte del contemporaneo, nell’accostarsi a Rosmini, è accorgersi che può sviluppare ad altissimo livello l’esercizio della ragione senza dover né rinunciare alla fede, né tenerla separata dall’intelligenza riflessa. Anzi l’una si rafforza con l’altra, l’una cerca l’altra, in un vissuto che le vede feconde proprio perché sanno camminare intrecciate.

L’altra sorpresa è lo spirito profetico di questo pensatore. Egli, prima ancora di Nietzsche, aveva annunciato l’avvento del nichilismo – lo chiamava “nullismo” – perché riuscì a vedere la natura dei semi di morte che già entravano nella mentalità del tempo e ne indovinò i frutti lontani.

Infine la sua testimonianza di vita e di pensiero oggi fa emergere una serie di linee fresche ed efficaci per affrontare le sfide del millennio appena agli inizi. Pensiamo al fondamento o “principio di verità”, per il quale l’uomo già col nascere è abitato dalla verità oggettiva; al principio della morale come disinteressato “riconoscimento dell’essere” da parte della volontà.

In diritto è sua l’affermazione del diritto che si identifica con la persona umana sussistente. Nessuno dei moderni sa trovare come lui un fondamento così solido alla dignità della persona, la cui autorevolezza le viene non tanto dalle sue qualità soggettive, ma dal valore infinito della luce intellettuale oggettiva di cui ogni soggetto umano partecipa.

Le pagine politiche sull’esercizio libero del diritto come principio di ricchezza dei popoli, sul “perfettismo” come frutto di ignoranza e madre di tutte le ideologie, sul bisogno che il diritto sia tutelato dal dovere per non trasformarsi in licenza e arbitrio, oggi appaiono freschissime, quasi fossero state scritte ieri.

La sua pedagogia punta più sulla formazione della ragione e della volontà che sugli  ausili esterni, più sull’autorevolezza dei maestri che sulla efficienza dell’istituzione e delle strutture di supporto.

Negli ultimi anni, carico ormai di saggezza e di santità, coniò una delle più belle definizioni dell’uomo:  “L’uomo è una potenza, ultimo atto della quale è congiungersi all’Essere senza limiti per congiungimento amativo”. Egli voleva dire che tutto in noi spinge verso la direzione dell’abbraccio con Dio, tutto è pellegrinaggio verso la santa montagna.

L’universo stesso, e gli eventi, senza saperlo, aiutano l’uomo a “correre” verso il suo ultimo destino. Solo nella ricerca speculativa e pratica dell’unione con l’Essere assoluto ogni persona umana può esprimere tutte le sue potenzialità e così diventare il più possibile “perfetta”, cioè “bella”, riverbero della bellezza o santità di Dio.

Aveva assimilato bene questa alta lezione il poeta rosminiano Clemente Rebora, approdato dall’ateismo alla scuola di Rosmini “padre fondatore” dopo una travagliata conversione, quando avvertiva i poeti che “solo santità compie il canto”. L’aveva imparata il filosofo Michele Federico Sciacca, passato dal maestro Gentile al maestro e padre spirituale Rosmini.

Come l’aveva appresa il giurista Giuseppe Capograssi e continuano ad apprenderla tutti quei giovani che si vanno oggi accostando alla “filosofia orante”, alla “carità intellettuale” del prete roveretano.

(A.C. Valdera)

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