Lasciate stare la guerra dei Trent’anni e concentratevi su questa

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5 dicembre 2015

 Articolo di Alberto Negri

(giornalista de Il Sole 24 Ore)

Sono stati fatti recentemente alcuni paralleli tra la guerra dei Trent’anni tra cattolici e protestanti e il conflitto tra sciiti e sunniti. Niente è più fuorviante dei paralleli con il passato per non imparare la storia del presente.

La guerra attuale ha inizio nel 1979 con la rivoluzione islamica di Khomeini e poi con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Saddam Hussein attacca l’Iran nel settembre del 1980 con il sostegno finanziario delle monarchie del Golfo e quello militare dell’Occidente: la guerra si conclude con il cessate il fuoco del 1988 con un milione di morti. Sullo Shatt el Arab vidi la trincea di un soldato iracheno e di uno iraniano a tre metri di distanza: il confine non era cambiato di un centimetro.

L’invasione dell’Armata Rossa nel dicembre 1979 si concluse con la ritirata sovietica del 1989 e la vittoria dei mujaheddin: era la prima volta che dei gruppi islamici di ispirazione radicale ottenevano una vittoria di queste proporzioni contro una superpotenza: la base fu il Pakistan, la direzione dei servizi di Islamabad, della Cia e i soldi in gran parte dei sauditi e del mondo musulmano. Anche qui la frontiera afghano-pakistana non mutò e venne confermata la Linea Durand disegnata dagli inglesi a fine Ottocento. Si combatte quindi da 36 anni con due scopi: contenere l’influenza dei russi e degli iraniani.

L’obiettivo degli Stati Uniti è quello di bilanciare le potenze regionali sciite e sunnite per controllare militarmente il Golfo, il Mediterraneo e i flussi energetici energetici diretti a Oriente, in particolare verso la Cina dove si gioca la partita. Le guerre americane del 1991 e del 2003 contro l’Iraq sono state il corollario di questa politica e degli errori che ne sono derivati. Il dato fondamentale è che finora non sono mai stati cambiati i confini degli stati ex coloniali. Unendo il campo di battaglia iracheno a quello siriano, il Califfato mette in dubbio le frontiere tracciate un secolo fa dall’accordo Sykes-Picot nel 1916 e da quelli successivi di Losanna e Sévres. Ed è questo il problema più spinoso per cui la guerra all’Isis è apparsa esitante e inconcludente: non c’è nessun progetto politico concreto per sistemare la regione se non quello del Califfato di Al Baghdadi, sostenuto in vari modi dalle potenze regionali sunnite.

Si capisce bene che in questa situazione stati come il Libano e la Giordania, per motivi diversi, rischiano grosso pure loro. Quanto alle ineffabili monarchie del Golfo dovranno occuparsi della lo stessa tenuta e di quella dell’Arabia Saudita che ha trovato in Yemen il suo Vietnam.

Si sta compiendo l’unico disegno che avevano Cheney, Bush e i neo- con ereditato da Obama: polverizzare l’intero Medio Oriente arabo. Gli Stati Uniti hanno guardato nel 2014 il Califfato conquistare una città grande e strategica come Mosul senza fare una piega: Washington non ha mai voluto fare davvero la guerra all’Isis e ora se ne accorgono anche gli europei.

La Libia, che era uscita con l’ultimo Gheddafi da ogni gioco mediorientale per concentrarsi sull’Africa, è stata fatta rientrare nell’ambito del Medio Oriente dalla guerra del 2011 che l’ha lasciata senza una guida alle influenze regionali. Come previsto si è subito spaccata in due tra Tripolitania e Cirenaica e non si è più ricomposta.

Ora la presenza dei jihadisti potrebbe assestare il colpo finale a ogni simulacro della Libia e innescare anche nuovi conflitti che potrebbe coinvolgere oltre alla Tunisia anche l’Algeria ma da Washington non arriva alcun segnale di interesse. Lo Stesso Egitto lotta per la sopravvivenza: non solo si è impegnato a sostenere il governo di Tobruk, rivendicata con la Cirenaica da re Farouk a Churchill negli anni’40, ma adesso rischia di perdere il controllo del Sinai.

E Israele, la Palestina, i curdi? Il Califfato che rivendica di voler governare tutti i musulmani non dice una parola sull’occupazione israeliana del Golan perché teme di essere spazzato via dalla maggiore potenza militare della regione fino alla comparsa della Russia in Siria. Probabilmente c’è qualche accordo segreto tra Putin e Netanyahu per spartirsi le rispettive zone di influenza. Agli israeliani resta il Golan, la Palestina non si tocca mentre i russi manovrano i curdi in funzione anti-turca.

All’Iran resta l’influenza su metà dell’Iraq sciita e protegge le sue frontiere, in cambio Mosca potrebbe ottenere da Teheran la “neutralizzazione” di Hezbollah in Libano nei confronti di Israele: questa sarebbe forse la mossa che potrebbe sistemare “miracolosamente” la regione. In questo modo i principali attori, Usa, Israele, Russia e Iran – accontentato dal rientro sulla scena internazionale – ottengono soddisfazione mentre l’Europa esce ammaccata, come è logico che sia per un’espressione monetaria e geografica ma non politica che fino a ieri ha voltato la testa dall’altra parte per non discutere di quanto avveniva a Sud delle sue labili frontiere.

Quanto al terrorismo, dopo uno spettacolo di questo genere, c’è la forte possibilità che continui per altri anni perché quando si inghiottono in questa maniera i destini di interi popoli e nazioni qualcuno scontento rimane sempre. Non vi pare?

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Post sul profilo Facebook dell’autore 16 dicembre 2015

I gattopardi del Medio Oriente e occidentali

Alberto Negri

SiriaGrande la confusione sotto il cielo del Medio Oriente e nelle cancellerie occidentali e arabe. Qual è la strategia Usa? Buttare dentro tutti nel campo di battaglia contro l’Isis in modo da evitare di mettere lo stivale a terra e salvare la faccia delle petro-monarchie che hanno finanziato il terrorismo e inviato ovunque nel mondo musulmano gli Imam più radicali ed estremisti.

Gli Usa negoziano con la Russia, e quindi anche con l’Iran, l’uscita di scena di Assad e garantiscono sia Israele che i sauditi. Impressionante il silenzio di Gerusalemme: una guerra in casa e gli israeliani, sempre pronti a dire la loro su tutto, che non proferiscono parola: probabilmente hanno un patto con Mosca sul Golan e gli Hezbollah in Libano ma anche con i sauditi perché sono arrivati persino a circolare foto di guerriglieri qaedisti di Al Nusra curati negli ospedali israeliani.

La coalizione a guida saudita appare un altro fronte anti-sciita per sostituire quello jihadista e dare magari una veste accettabile ai gruppi più radicali sostenuti dalla monarchie del Golfo sia nel Siraq che in Yemen dove Riad utilizza al Qaeda contro gli Houthi sciiti, chiamati chissà perché ribelli quando sono sostenuti anche dall’ex presidente Saleh. Ribelli forse ai voleri di Riad.

In Ocidente la stampa britannica esulta per la coalizione saudita anti-terrorismo, quasi un ossimoro, che però permette di mantenere ricchi contratti e continuare a vendere pezzi di industrie e compagnie europee alle monarchie del Golfo.

Le fazioni libiche a quanto pare non firmeranno subito l’accordo per il governo di unità nazionale, nato con l’idea di trasferirlo a Tripoli. La partizione libica è in atto da tempo ed è forse l’unica che funzionerà: dipende da come si divideranno le risorse. E infine anche l’Italia, che spera di dire la sua sulla Libia, è costretta a mettere piede in Iraq con la storia alquanto confusa di proteggere i lavori alla diga di Mosul: è da vedere se l’Isis e i jihadisti lo permetteranno senza reagire. Ma così vogliono gli americani e Obama per darci uno strapuntino al tavolo dei negoziati e consentirci di portare a casa petrolio e gas nel Mediterraneo, dopo avere strepitato contro i tedeschi per il Nordstream 2 con la Russia. Inutile prendersela solo con questo governo: è assente il Parlamento, è assente un intero Paese, e non da oggi.

Quanto alla Turchia, il vero grande malato dell’Occidente, bisogna tenere in piedi Erdogan al quale forse la situazione è sfuggita dal controllo anche in casa: ma siamo proprio sicuri che sia stato lui a decidere di abbattere il caccia russo? Dovrà accontentarsi del petrolio di Barzani continuando ad accanirsi sui “suoi” curdi. Addio sogni di gloria di un Sultano dimezzato: se la Fed alza i tassi, lui come gli altri emergenti dovranno fare i conti con un’altra svalutazione della moneta.

La realtà è che tutti adesso cercano di mettere di soppiatto un piede in Siria per potere dire una parola sulla futura spartizione del Paese e del resto della regione: non è detto che la divideranno ma ogni contingente proteggerà le proprie maggioranze o minoranze di riferimento settario o etnico. E’ la versione del Gattoppardo in salsa mediorientale: tutto cambia perché nulla cambi.