La fine dello Stato veneziano

leone_S_MarcoStudi Cattolici n.555 maggio 2007

di Gennaro Incarnato

I fatti sono inconfutabili. Facciamo parlare un grande storico francese, certo non sospetto di simpatie per l’Antico Regime né imputabile, per ovvi motivi, di revisionismo, abile paravento a ideologie tradizionaliste, conservatrici, neoborboniche oggi in qualche maniera di moda. «Toccò all’armata francese sostenere il ruolo di provocatrice in tutto questo rivoltante affare della spartizione della Serenissima». Così Jacques Godechot, La grande nazione. L’espansione rivoluzionaria della Francia nel mondo, 1789-1799 (Laterza, Bari 1962, pp. 248-249).

Eppure, trascorso giusto mezzo secolo dall’edizione originale di questo lavoro apparso in Francia nel 1956, i termini del problema restano invariati. È il contrasto tra etica e politica; ne sottintende in realtà altri ancora più profondi, di cui si dovrà discutere nella presentazione della recente fatica di Francesco Mario Agnoli, dedicata al tramonto della Repubblica di San Marco (Napoleone e la fine di Venezia, II Cerchio, Rimini 2006, pp. 212, euro 16,00).

Meritoria, chiara nell’esposizione, coraggiosamente e umanamente partecipe, essa si innesta in un dibattito ancora vivo e attualissimo. Come scrive l’autore nella presentazione, prima di passare a una minuziosa, precisa, appassionata esposizione dei fatti, il lavoro corrisponde «all’esigenza, vi-vissima tuttora nella coscienza popolare, ma oggi non sempre soddisfatta dalle scelte politiche dei legislatori e dai tecnicismi delle aule di giustizia, che il giudizio coincida con condivisi princìpi morali» (p. 15).

È il giudizio della storia, quello al quale si riferisce Agnoli, ciò che gli viene contestato in nome di una pretesa e durissima a morire «secolarizzazione della politica». La politica, riduttivamente e meschinamente conclusa nella cosiddetta «arte del possibile», giustifica tutto. Anche il sacrificio degli inermi, dei più deboli e dei civili. A essa si opporrebbe il famoso «spirito del mondo a cavallo». È il progresso civile, economico e sociale regalateci dalla immortale Rivoluzione.

Giovane, ma già guasto

II cavallo sarebbe stato quello del giovane Napoleone. Giovane d’età era nel 1796/97, ma già vecchio e profondamente guasto nello spirito. Facciamo parlare un altro grande storico della Rivoluzione e dell’Impero: è Georges Lefebvre, che dedicò la vita allo studio delle cause, degli svolgimenti e degli esiti del processo rivoluzionario.

Ecco la Francia consegnata alla storia e a Napoleone, una conferma di quanto egli fosse già vecchio nell’animo dopo un decennio di drammatici eventi: «Al governo, ex nobili come Barras e Talleyrand, concussionari riconosciuti ed esperti in tradimenti, ostentavano a tale riguardo – cioè dei sentimenti e della nuova cultura, quella del Romanticismo non priva anch’essa di pericolose deviazioni – un cinico disprezzo. Il bel mondo che frequentava i salotti alla moda, quelli di madame Tallien, di madame Hamelin o di madame Récamier, non pensava che ai piaceri.

Fatto più grave: la gioventù, cresciuta in mezzo ai torbidi, non sapeva granché e non se ne affliggeva; per nulla idealisti, i giovani non pensavano che a far carriera; la guerra ne offriva il modo e bastava aver coraggio. Ma codesti realisti, se lasciavano fare a Bonaparte finché fu vittorioso, non desideravano affatto il ritorno all’Antico Regime: indifferenti alle idee, essi accettavano il fatto compiuto, ossia l’opera della Rivoluzione, secondo il maggiore o minore utile che ne ricavavano».

Così il grande e certamente disilluso Georges Lefebvre (cfr Napoleone, Laterza, Bari 1960,p. 25). Si badi bene, l’opera era apparsa in Francia nel 1935. In quel medesimo torno di tempo erano state pubblicate le altre opere fondamentali dello studioso. Eppure, a distanza di tanti anni, le posizioni restano le stesse.

La «secolarizzazione della politica» reclama con arroganza le sue ragioni. Un’altra guerra mondiale non è bastata. Né sembra sia bastato il crollo dei muri e delle ideologie. Peggio ancora. Sembra che i valori «laici» e «secolari» dominanti riabilitino quel mondo emerso sul finire della Rivoluzione, al quale Lefebvre, nei durissi-mi anni Trenta del XX secolo, aveva dedicato il suo lacerante e lacerato giudizio.

Con educazione, con garbo, con infinita pazienza aggiungerei, Agnoli, da magistrato consapevole dei vincoli ai quali il giurista è sottoposto dalla rigida gabbia del diritto codificato, ha ascoltato le ragioni dei difensori della machiavellica «secolarità della politica». È questa una lettura quasi certamente distorta dello stesso Machiavelli. Agnoli ha tuttavia rivendicato le ragioni superiori della morale, che non è mai astratta come suppongono i cosiddetti realisti, e ha con rigore, come si diceva, ricostruito i fatti; in particolare le numerose, calcolate, ciniche provocazioni che portarono alla caduta della Serenissima Repubblica di Venezia.

Era lo scontro tra due mondi, uno civilissimo al suo splendido tramonto e quindi logoro; l’altro quello cinico, spietato, giovanilmente arrogante, emerso dal dramma della Rivoluzione. Venezia e Napoleone. Venezia e il Direttorio. Anche però (il che Agnoli nella sua solida, mirata requisitoria contro i francesi mette in minor rilievo), Venezia e l’Austria. Un’alleanza tra Francia e Asburgo ai danni di Venezia non era certo cosa nuova.

Il mondo dell’Antico Regime aveva covato in sé, da secoli, i sotterfugi, le doppiezze, le piccole astuzie propagandate dai soliti sapientoni laici come il senno e il succo della «scienza politica». La macchina poliziesca, il terrorismo di Stato non erano una novità della Rivoluzione. Questa aveva solo imposto un’accelerazione e una crescita, coinvolgendo nella lotta ceti nuovi e più numerosi, da lunghi anni in attesa del loro momento.

Ai tempi di Luigi XII e del suo ministro Georges d’Amboise, più noto come il «cardinale di Roano», si era giunti a un accordo con l’imperatore Massimiliano d’Austria. Allora, siamo nel 1509, Venezia era una potenza viva e nel pieno delle sue forze. È una differenza di non poco conto rispetto alla spenta, guardinga politica di neutralità disarmata osservata ai tempi dell’ultimo doge, Ludovico Manin. È proprio vero: di raffinata civiltà si può anche morire. Tutto ciò è messo nel dovuto risalto dal lavoro di Agnoli, senza cadere in nostalgici rimpianti. È, questa, una forma di stanco lamento dalla quale l’autore è esente.

Un esercito di sradicati

Gli avidi francesi, entrati nel territorio della Serenissima per inseguire le truppe austriache di Wurmser sfruttando ai loro fini un accordo di utilizzo di una sorta di corridoio che permetteva alle truppe austriache di transitare in territorio veneto, erano e agivano fin dall’inizio come degli arricchiti penetrati nella casa di una vecchia famiglia patrizia in decadenza per portarne via, a basso o nullo costo, i preziosi e la mobilia di pregio.

Napoleone possedeva uno strumento con cui avrebbero dovuto fare presto i conti anche i suoi impreparati, velleitari, quasi sempre altrettanto avidi, sostenitori italiani: «Tutti questi soldati francesi, con una certa ladra furtiva guardatura guardano dietro ad alcuni e alle botteghe, che sembra segnino fra sé stessi, persone e luoghi». È un cronista del tempo opportunamente citato da Agnoli. Era l’esercito, l’Armée, come orgogliosamente dicono i francesi. Non c’era però tanto da trame vanto.

Lasciamo di nuovo la parola allo storico Lefebvre, non sospetto di simpatie conservatrici o reazionarie. I soldati, egli dice, erano ormai diventati un esercito di mestiere, di sradicati; «erano restati sotto le armi perché amavano la guerra e le avventure o perché, lasciato il reggimento, non avrebbero saputo più che cosa fare» (1).

Quegli stessi uomini, al termine della prima fase dell’avventura napoleonica, sarebbero stati gli strumenti per il colpo di Stato di Fruttidoro (4 settembre 1797). Esso fu favorito dal mutato spirito animatore dell’esercito. Era, è ancora Lefebvre a notarlo, avvenuto il cosiddetto «amalgama» tra volontari, in parte ancora legati agli ideali della Rivoluzione, e soldati di leva fedeli ormai solo ai loro generali. Lontani dalla patria, erano legati solo alla fortuna dei capi. Con questo strumento la provocazione di Verona, l’ultima di una numerosa serie già in passato studiata da Agnoli, non poteva non riuscire pienamente.

C’è un aspetto non evidenziato in questa occasione dall’autore. È bene ricordarlo. È la cooperazione tra il soldataccio Augereau (sbolliti gli ardori  giovanili sarebbe poi diventato il «buon maresciallo») e Charles Killmaine, il regista dell’operazione, «un cavalleggero mancato, ma ladro di talento» con ottimi addentellati politici a Parigi: «Al suo arrivo la situazione si era ormai normalizzata, ma egli rinfocolò subito la guerra civile tra i nuovi sudditi, pretendendo dagli abitanti il versamento di un’ingente somma a titolo di risarcimento per le perdite subite dai francesi. La situazione degenerò; Augereau fu accusato di peculato nell’amministrazione della giustizia e si mise in gara come predatore con il generale Killmaine» (2).

Augereau non era affatto istruito; incapace di comprendere il valore di un’opera d’arte, riempiva i suoi carri di cornici d’oro e di gioielli. Così fece la soldataglia francese, allora e in seguito, scavandosi da sola la fossa nella ritirata rallentata dal peso del bottino (3). Qui, però, Augereau ci interessa per un aspetto legato alla caduta definitiva di Venezia e non sottolineato da Agnoli.

Dopo il colpo di Fruttidoro, il Direttorio si sbarazzò dell’ingombrante e rapace Augereau ponendolo al comando dell’Armata del Reno, ove si dedicò più alla spoliazione dei conventi che alle operazioni militari. Messo al corrente della cosa, Napoleone si scoraggiò. Ritenendolo incapace di condurre un’azione vigorosa contro l’Austria, il Corso cominciò a temere: «Allora tutte le forze austriache mi piomberanno addosso» (4).

Tutto conferma l’accorta analisi di Agnoli. La situazione era sfuggita di mano al Direttorio. Napoleone comprendeva, però, la voglia di rifarsi dei politici di Parigi. Aveva anche perfetta consapevolezza del carattere solo apparente del suo successo. Si era spinto troppo avanti in un territorio fedele all’Austria e in cui i suoi affamati e stanchi soldati avevano poco da razziare. Temendo di essere preceduto dal Direttorio affrettò le trattative di Campoformido.

Venezia fu sacrificata per un trattato che era solo una tregua e conteneva in sé il germe di tutte le guerre future, cosa compresa subito dai cinici uomini del Direttorio. Tutti o quasi si erano formati durante il non rimpianto Antico Regime, conoscevano i trucchi e le riserve della diplomazia meglio dell’ambizioso generale.

Altri due aspetti studiati da Agnoli vanno sottolineati. Il primo concerne l’animus, i fini e la consistenza dell’azione dei fiancheggiatori italiani dei francesi. Disprezzati, spesso umiliati anche pubblicamente, dai francesi essi avevano le loro radici (non salde né profondamente radicate) nel cosiddetto riformismo del 700, in special modo nella massoneria.

Con queste premesse è naturale che agli attenti agenti del governo veneto venisse facile denunciare al doge: «Nei nobili, nel militare vi sono dei frammassoni, vi sono chi servì, serve e servirà i francesi». Sapevano, e non era necessaria lunga indagine per apprenderlo, che «tutta la forza dei francesi consiste nella base dei loro princìpi, cioè nei Franchi Muratori; di questi se ne trovano in tutte le città, e fatalmente nei gabinetti, nella truppa e quasi in ogni ceto di qualche educazione; essi facilitano le aderenze, il Maneggio, il Tradimento».

Nobili, militari & massoni

Agnoli riporta questi documenti. Accortamente ne aggiunge un altro estremamente illuminante e non contraddetto dalla storiografia ufficiale, mai sospetta di un minimo di comprensione per le ragioni dei vinti. «Fra gli abitanti della Terra Ferma che hanno preso gusto al regime dei francesi si trovano molti grandi proprietari terrieri, ricchissimi, alcuni anche titolati».I documenti riportati dall’attento Agnoli sono confermati da storici recenti e certo non sospettabili, per la stessa tribuna sulla quale sono apparsi i loro scritti, di revisionismo ostile ai giacobini.

Più difficile riesce all’autore il districarsi nella complicata «nomenclatura» della diplomazia del Regno di Napoli. Qui, per citare un caso in cui si è imbattuto Agnoli, sono presenti al tempo stesso un Alvaro Ruffo, ministro a Parigi, e un Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala a Napoli, e tuttavia profondamente e direttamente invischiato nella politica estera e nelle faccende di Parigi.

Filippo Ronchi, non citato dall’autore, scrive sulla schieratissima Rassegna storica del Risorgimento, organo dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano domiciliato et pour cause al Vittoriano, confermando in pieno il giudizio e soprattutto la documentazione portata da Agnoli anche sulla scorta del datato ma preciso «pioniere» Carlo Zaghi anch’egli, si badi bene, e non sospetto di simpatie per l’Antico Regime: «La passione antitirannica – dei nobili/proprietari terrieri — nella rielaborazione compiuta dai giovani di questa parte della nobiltà locale, in opposizione al dominio  veneziano non intende intaccare, però, i rapporti sociali, di predominio sulle classi subalterne» (5).

Venezia, umana con gli umili che le erano devoti, non piaceva al notabilato di Brescia e delle altre città della Terra Ferma. Gli  oligarchi di Brescia, Bergamo, Crema avevano un solo sogno, scalzare il controllo della Serenissima e della sua ormai decrepita oligarchia lagunare. Questa, a sua volta, si era trasformata in una classe di proprietari terrieri.

Una scelta, a dire il vero, non proprio infelice. La famiglia Manin, dalla quale proveniva l’ultimo doge, quel Ludovico Manin dal «cor piccinin» come argutamente lo definì il popolo veneziano, era l’espressione del patriziato friulano.

Nella splendida villa di Passariano furono in realtà condotte le trattative di Campoformido. Era la dimora di campagna dell’ultimo doge. La Repubblica veneta cadde. Come riferisce Agnoli in sostanza si suicidò. Non vi fu resistenza vera sulla Terra Ferma; la flotta, ancora potente, non oppose resistenza nella laguna. Napoleone, apparentemente vincitore, trasse il suo primo grande bottino politico. Non fu certo un’impresa gloriosa. La migliore storiografia francese lo ammette con un senso dichiarato di vergogna. Pure la storiografia italiana resta ancorata al vecchio giudizio di Goethe. A detta di questi Napoleone «ce fut la Révolution consommée dans qu ‘elle avait de raisonnable, de légitime, d’Européen».

È valido questo giudizio? Nell’ultimo e più importante aspetto sempre presente nell’opera di Agnoli (ne è anzi il vero filo conduttore), questo merito non venne mai riconosciuto a Napoleone da nessuna delle popolazioni una volta felicemente devote a Venezia. Erano genti miti. Non vi era in esse la ferocia e la partecipazione alla mischia degli spagnoli. E nemmeno vi fu la corale partecipazione dei russi e dei popoli del Regno di Napoli.

Questi ultimi non cessarono mai di opporsi, a torto o a ragione, ai giacobini e ai francesi prima, ai napoleonidi poi, ai loro eredi e seguaci infine. È questa una storia molto complessa, su cui si è fatta molta retorica e si sono sollevate, non sempre in buona fede, molte nebbie.

Per fortuna il discreto Agnoli è fatto per riportare l’intima, sofferta, difficile resistenza degli umili. Lì è al meglio di sé. In particolare, quando, quasi a conclusione della sua fatica, cita un brano dalle memorie del debole, ma dignitoso Ludovico Manin, ultimo doge di Venezia. incontrata in «una corticella a S. Marcuolo» una donna del popolo e da questa riconosciuto, Ludovico Manin si sente dire: «Almeno venisse la peste, che così moriressimo noi altre, ma morirebbero anche questi ricchi, che ci hanno venduti e che sono cagione che moriamo di freddo e di fame».

Nobili le considerazioni, nonché il commento del Manin, riportato anch’esso da Agnoli; ne riscattano la figura e in qualche modo ne giustificano la resa ingloriosa. Per lo meno la vecchia oligarchia veneta non strumentalizzò i suoi popoli, la loro atavica devozione al vecchio ordine per salvare il potere, e poi abbandonarli e tornare a trescare con gli stessi uomini che l’avevano tradita, come nel Regno di Napoli durante la Restaurazione.

Manin prosegue nelle sue memorie: «Mi fece intirizzire e che non scorderò mai più… È vero che in siti frequentati delle piazze avrei delle riverenze esterne che niente m’indicherebbero la sincerità dell’interno; negli altri luoghi mi insultano, ma in confronto dell’affetto che esprimono per il governo che avevamo e che pesa che sia loro terminato, obliando volentieri le ingiurie a me fatte, resto pieno di consolazione, e mi ravviva l’affetto della mia patria».

Note

1) G. Lefebvre, La Rivoluzione francese, Einaudi, Torino 1987, p. 535.

2) J.R. Elting, «II superbo masnadiere Augereau», in I marescialli di Napoleone, a cura di D. G. Chandler, Bur, Milano 1999, pp. 66-67.

3) Ciò avvenne con puntualità nella successiva invasione del Regno di Napoli, tra le gole di Antrodoco, in tutta la campagna di Spagna e nel corso della drammatica ritirata dalla Russia.

4) J.R. Elting, op. cit., pp. 66-67. Questi attinge dalle memorie di A. M. de La Valette, aiutante di campo di Napoleone; che aveva seguito «il superbo masnadiere» Augerau per controllarlo. Lo definì: «fuori di sé».

5) Così F. Ronchi, «II Bresciano alla vigilia della invasione napoleonica», in Rassegna storica del Risorgimento, luglio-settembre 1999, p. 353.

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Francesco Maria Agnoli Napoleone e la fine di Venezia – Il Cerchio, 2006 Pp 210

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