La “questione democristiana”

DCCristianità n.10 – 1975

Un mistero che pesa sul futuro dell’Italia

di Giovanni Cantoni

1. Quando la vita politico-sociale della nazione subisce qualche accelerazione, attraversa qualche passaggio obbligato o si trova in qualche vicolo cieco, ogni cittadino – sia egli credente oppure “uomo di buona volontà” – è necessariamente portato a rivolgere la propria attenzione e, quindi, a interessarsi alle forze politiche presenti sulla scena nazionale, con l’intento preventivo di farne l’inventario e poi di operare una scelta, che, di volta in volta, può tradursi in un suffragio elettorale o in un’altra manifestazione di consenso sociale.

Non diversamente in altri regimi, definiti da istituzioni diverse da quelle che ci reggono, l’uomo libero si volgeva – per esempio nei periodi di interregno o di vacanza di autorità – alle famiglie “note”, cioè nobili, o ai membri della Casa regnante, cercando a chi rinnovare la propria fedeltà o a chi tacitamente offrire il proprio consenso.

Nella nostra condizione istituzionale, l’interesse di ogni cittadino è attirato – o almeno dovrebbe essere attirato – dalle “famiglie ideologiche” costituite dai partiti politici, per coglierne la natura, cioè per indagarne e penetrarne la dottrina, e quindi per immaginarne il comportamento di fronte a improrogabili decisioni che si stagliano all’orizzonte della vita nazionale.

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2. Mentre le scelte degli “amici di famiglia”, cioè delle persone politicizzate, sono abbondantemente predeterminate e influenzate da ragioni di simpatia anche umana, i più sono disponibili per un esame accurato e sempre rinnovato delle possibilità offerte dal foro, dalla vita pubblica.

A costoro si rivolge la mia analisi, utile per oggi e per domani, rebus sic stantibus e ceteris paribus, e forse di interesse tutto particolare proprio perché vertente su un oggetto macroscopico come la Democrazia Cristiana, destinata – come ogni realtà tanto grande da parere naturale – a essere considerata, appunto, una “forza della natura”, creata da Dio come mari e fiumi, monti e valli, piuttosto che una “forza storica”, costituita dagli uomini nella storia sotto la loro responsabilità.

La gravità della situazione non solo nazionale ma mondiale – a misura di “crisi”, cioè di “giudizio universale” – rende pericoloso e gravido di conseguenze ogni errore, ogni comportamento non “all’altezza della situazione”; e iscrive di fatto nel novero degli atti caritatevoli ogni gesto che miri a fornire elementi di giudizio, che tale errore possano eventualmente permettere di evitare. Se esiste – come esiste – una “carità politica”, l’analisi che mi appresto a offrire al lettore intende esserne sentita, calorosa, fraterna espressione.

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3. Chiaro o no che sia, gradito o meno, il problema del nostro tempo è costituito dal rapporto con il comunismo e con la sua presenza statuale – come nell’Unione Sovietica, nella Cina Popolare e nei paesi satelliti – o partitica – come in moltissime nazioni non comuniste, tra cui ha una posizione di primissimo piano l’Italia. Il problema dell’Italia, dunque, è la “questione comunista”. E l’interesse di ogni italiano è racchiuso nel sapere se, ed eventualmente in che modo, il comunismo andrà al potere anche nel nostro paese.

Ma in Italia “regna” la “Casa democristiana” e questo fatto aggiunge problema a problema, questione a questione, sì che presenta un interesse tutt’altro che volgare la risposta ai quesiti: che cos’è la Democrazia Cristiana? Quale la sua dottrina, cioè la sua natura politica? La risposta a questi quesiti può, dunque, aiutare a impostare correttamente la “questione comunista” e quindi anche, ultimamente, la questione italiana, che, volenti o nolenti, tutti ci coinvolge.

In questa prospettiva, priva di alternative di rilievo, il tema che mi sono proposto di trattare non è, dunque, né esotico né peregrino, e non interessa solamente coloro che studiano o coltivano la storia della Chiesa e degli uomini in essa militanti, cioè dei cattolici, come a prima vista potrebbe parere, ma gli italiani tutti, indistintamente.

I fatti – come mi pare di avere messo in evidenza – dispongono proprio così e costringono pure chi eventualmente non volesse a meditare e a piegarsi con la massima attenzione sulla realtà e quindi anche – a maggiore titolo – su una parte macroscopica di essa, come è quella costituita dal partito democratico cristiano. E questo si impone non solo a coloro che si propongono di capire, come si dice, “il proprio tempo”, ma soprattutto a quanti considerano giustamente il capire, nella storia, e quindi il giudicare, presupposti indispensabili per agire, per essere presenti non soltanto fisicamente e passivamente, ma anche attivamente e consapevolmente.

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4. Le considerazioni che verrò facendo, e la storia che almeno nelle sue grandi linee – racconterò, solleveranno certo obiezioni, e non trascurabili. Qualcuno si chiederà certamente, e sarà tentato di chiedermi, che senso ha interessarsi della Democrazia Cristiana in momenti come quelli che stiamo vivendo, nei quali ogni sforzo dovrebbe essere teso a fare votare per questo partito in occasione di competizioni elettorali, a sostenerlo in ogni altro frangente, e non a metterlo in discussione.

Il discuterlo e l’esaminarlo criticamente non nascondono, forse, l’intento di fare il gioco se non dell’avversario, almeno di forze politiche concorrenti della Democrazia Cristiana stessa? Premesso di non avere la vocazione di arruolatore per nessun partito, confesso che la ragione principale del mio interessamento è costituito dalla presenza, nel nome di questo movimento politico, dell’aggettivo “cristiana” e dalla consapevolezza, di fatto e di esperienza, della ignoranza che, a suo proposito, caratterizza non solo chi lo privilegia con il suo suffragio, ma, spesso, anche chi vi milita – per tacere, per “carità di Chiesa”, di chi lo sostiene con l’autorità sociale che gli deriva dalla propria funzione anche spirituale! In questa prospettiva, una presentazione critica della “questione democristiana” è un contributo di informazione utile alla formulazione del giudizio di ciascuno e, quindi, alla sconfitta di ogni sconsiderato pre-giudizio.

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Che cos’è, dunque, il movimento democristiano? Quali sono le premesse storiche e ideali di questa realtà comparsa dopo l’ultimo conflitto mondiale sulla scena politica di molte nazioni di tradizione cattolica? Quali sono i connotati di questa enorme “quinta” del “paesaggio” politico nostrano, delimitante una scena che ci vede doverosamente attori, impegnati a recitare la parte che la coscienza ci detta e la situazione ci concede? La prima risposta a questa serie di quesiti, la più spontanea forse, suona così: ” Il partito democristiano è l’organizzazione politica dei cattolici, e, nel caso concreto, dei cattolici italiani”.

La risposta ha del vero, qualora si accetti di osservare il fenomeno nella sua complessità e come dato monolitico, ma un esame più attento non può non arrestare la nostra attenzione sulla presenza, nella sua denominazione, di un elemento non indispensabile alla definizione data, cioè quella di “organizzazione politica dei cattolici italiani”. Si parla, infatti, di partito o di movimento democratico-cristiano e questo aggettivo, democratico, non è per niente essenziale a ogni possibile “organizzazione politica dei cattolici italiani”. Cristiano è certo essenziale, ma democratico no, e questa considerazione basta a sollevare alcuni problemi, a porre e a fare porre alcuni quesiti.

Chiaramente si tratta di primi problemi e di primi quesiti, perché subito se ne vedono sorgere altri, a proposito della stessa nozione di “organizzazione politica dei cattolici italiani”, democratica o meno che sia. Non si può, infatti, non chiedersi, e non per pura petulanza, che senso ha parlare di organizzazione politica dei cattolici, soprattutto in uno Stato che organizza una nazione cattolica. Inoltre, all’orizzonte, si staglia anche il problema della esistenza di quelle organizzazioni politiche denominate partiti.

Solo la risposta a ognuno di questi quesiti, o almeno la loro corretta impostazione, può permettere di intendere le diverse componenti della realtà “partito o movimento democratico-cristiano”, e quindi di preparare i termini per un giudizio, presupposto, come dicevo, di ogni azione che non voglia essere semplicemente gesto, actus hominis, ma significativo actus humanus.

Vedrò di percorrere, sia pure rapidamente, le tappe di questo itinerario di comprensione, o che almeno mi auguro tale.

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5. Gli elementi necessari alla comprensione cui miro possono emergere soltanto da osservazioni di carattere storico-sociologico che, dal momento che lo studio verte sulla realtà politica, devono prendere le mosse da un fatto politico di portata tutt’altro che trascurabile nello svolgimento della vita della nostra civiltà.

Il fatto politico in questione è quello che va sotto il nome di Rivoluzione francese e si sintetizza nello sforzo di realizzare nella vita associata i tre principi denominati liberté, égalité, fraternité, che non traduco per non fare loro perdere il significato storicamente condizionato.

La Rivoluzione francese è il massimo attacco politico alla tradizione, così come il protestantesimo era stato il massimo attacco “religioso”. Dei molteplici aspetti della tradizione – cioè della trasmissione di qualcosa e di questo “qualcosa” trasmesso, della verità rivelata, di quella enucleata dalla ragione retta e illuminata, delle funzioni sociali e dei beni materiali – la funzione sociale è tra quelli principalmente presi di mira.

La liberté è condizione prima della égalité, e nei rapporti tra i due termini la fraternité pare avere la parte che ha lo Spirito Santo nella vita trinitaria, “procede dal Padre e dal Figlio” (1). La nozione che cade vittima del sussulto rivoluzionario è quella di ereditarietà delle funzioni sociali, e il trionfo storico va al carattere “anonimo e vagabondo” della “fortuna” borghese.

La gerarchia sociale non crolla immediatamente, ma nascono gruppi umani che presentano un loro progetto di società, non più semplicemente un modo di governare la società naturale che non è da inventare. Ognuno di questi gruppi umani presenta una alternativa di società, non più una alternativa di governo della società, e ai partiti “all’inglese”, che comportano una “opposizione di Sua Maestà”, subentrano i partiti moderni, club rivoluzionari, cui Lenin darà una organizzazione “industriale”.

Ognuno di essi propone un progetto di società, e quindi di Stato, e offre i suoi funzionari, gli uomini dell’apparato. Così come agli uomini preparati nelle corporazioni di arti e mestieri – dove si risolveva in concreto il problema della continuità tra studio e lavoro, cioè tra dottrina e vita – si sostituiscono quelli formati dall’École Polytechnique e forniti all’industria; così, in analogia, agli uomini preparati nelle famiglie “note”, cioè nobili, si offre la sostituzione con quelli preparati nei partiti, scuole private di politica – il partito unico sarà la scuola pubblica -, che, sostenuti dal suffragio sempre più universale, pongono la loro candidatura a organizzatori dello “stato” della società, dello “stato” della nazione.

Nato il pluralismo, da un punto di vista strutturale – in questa sede mi è impossibile seguire l’andamento cronologico e quindi storico del fenomeno – i sostenitori dell’Antico Regime, cioè di una realtà naturale formata dalla esperienza e dalla tradizione, si trovano a essere un partito, una delle tante fazioni, e il dato storico e razionale diventa uno dei tanti possibili “progetti” di società.

Poiché alla base del sussulto rivoluzionario sta il “dogma” della immacolata concezione dell’uomo, della sua bontà naturale, “dogma” che urta frontalmente quello cattolico della caduta e del peccato, il “partito” dei sostenitori dell’Antico Regime è, soprattutto, un partito di cattolici, il partito dei cattolici.

Fin da subito, però, il partito dei cattolici, cioè degli uomini tout court legati alla costituzione implicita dell’Antico Regime, si dipana secondo modalità di sempre. Come di fronte a qualsiasi realtà vi è chi dice , chi ni o so, chi no, così, di fronte all’Ordine Nuovo rivoluzionario si dispiegano, all’interno del mondo cattolico, una destra, una sinistra e un centro, come sempre ulteriormente variegato: “Avremo tre scuole cattoliche: quella che ripudia l’eredità [della Rivoluzione], quella che si rassegna e quella che l’accetta con entusiasmo: scuola intransigente di de Maistre, de Bonald e Veuillot; scuola liberale del secolo XIX; scuola della democrazia cristiana” (2).

Fin da subito, dunque, il movimento cattolico e tradizionale, divenuto di fatto e di necessità un partito, vede nascere una destra coerente, intransigente e oltranzista; poi un centro – sarà il liberalismo cattolico -, che accetta la liberté e cerca di interpretare pro bono égalité e fraternité; da ultimo, quindi, una sinistra – sarà il democristianismo -, che legge la Rivoluzione nei termini di positivo “segno dei tempi”, di ulteriore Rivelazione (3)

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6. Sia pure a grandi linee, sono finalmente giunto all’oggetto della mia ricerca, che emerge chiaro da un processo purtroppo dimenticato; eccoci, dunque, al partito democratico cristiano.

La sua storia lo vede crescere lentamente, sì che pare sviluppo del movimento cattolico, inevitabile e coerente sviluppo, frutto di dialettiche contrapposizioni. Ma, secondo la prospettiva che ho cercato di indicare, non è svolgimento di nulla, ma originaria presa di posizione di fronte a una situazione storica alternativa.

Questo non vuole dire che il movimento democristiano non abbia una storia – ogni realtà ha una vita -, ma semplicemente che emerge chiaro nelle scelte di fondo fin dall’inizio del “partito” cattolico: è costituito da coloro che accettano la Rivoluzione e che vogliono la instaurazione della liberté, della égalité e della fraternité. Costoro seguono la Rivoluzione nel suo svolgersi, sempre alla retroguardia, incaricati principalmente, nell’esercito rivoluzionario in marcia verso il “paradiso in terra”, di rappresentare soprattutto il momento fumoso, “mistico”, quello della fraternité.

Strada facendo verranno raggiunti dai liberali cattolici, quindi dagli intransigenti che non hanno tenuto. La loro predicazione sarà di pace con il mondo, il loro “cavallo di Troia” la democrazia come possibile forma di governo. La sostanza del movimento rimarrà, però, sempre la stessa, quella che ho prima enunciato, e cioè l’accettazione della Rivoluzione.

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7. Questa accettazione è bene espressa, felicemente espressa – lo dico, sia ben chiaro, solo quanto alla forma! -, dalla consonanza di due testi che ora citerò.

Il primo è dello storico liberale Luigi Salvatorelli, ed è tratto dal suo Chiesa e Stato dalla Rivoluzione Francese ad oggi. Eccolo: “La Rivoluzione francese condusse, per la prima volta nella storia dell’Europa cristiana, alla laicizzazione completa dello Stato e della vita pubblica; essa realizzò, per la prima volta dal tempo di Costantino, la separazione completa, integrale, della Chiesa e dello Stato. Dalla Rivoluzione in poi l’umanità – anche quella credente, cattolica – si è abituata a vivere la sua vita sociale e politica senza farci intervenire la Chiesa, senza far ricorso ai suoi poteri trascendenti, e ai suoi ministri ritenuti forniti di questi poteri. Fino allora, la nascita dei figli, la loro educazione, i matrimoni, la morte, l’organizzazione della vita collettiva, la costituzione e il funzionamento del potere politico, tutto questo insieme di fatti, era rimasto sotto il segnacolo della religione, e della religione confessionale, sacerdotale, gerarchica. La Religione era affare di Stato, e lo Stato era consacrato dalla Religione. Non soltanto non si pensava a separare la Chiesa dallo Stato, ma non se ne concepiva neppure l’idea, non si sapeva neppure che cosa ciò potesse significare. Si parla anzi raramente, prima della fine del secolo XVIII, di Chiesa e di Stato. Si diceva piuttosto: potere politico e potere religioso; governo e clero, re e vescovi, o papa. Queste autorità differenti si consideravano come parti diverse della stessa società cristiana” (4).

Il secondo testo cui facevo più sopra riferimento è tratto da un discorso di don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito Popolare Italiano, discorso pronunciato a Verona il 16 marzo 1919 e riportato dal Corriere d’Italia del 19 marzo dello stesso anno. Eccolo: “Il partito popolare italiano è stato promosso da coloro che vissero l’azione cattolica, ma è nato come un partito non cattolico, aconfessionale, come un partito a forte contenuto democratico, e che si ispira alla idealità cristiana, ma che non prende la religione come elemento di differenziazione politica” (5).

Come si può notare, la descrizione della Rivoluzione nelle parole di Salvatorelli diventa programma in quelle di don Sturzo.

8. La storia richiederebbe, per completezza di quadro che parlassi anche della prima dirigenza del movimento cattolico, del principe di Canosa, del primo padre Ventura, di monsignor Baraldi, del marchese Cesare d’Azeglio. Quindi sarebbe d’obbligo la citazione dei cattolici liberali, di Manzoni, Rosmini, Lambruschini, Capponi, Cesare Cantù, Carlo Troya, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Niccolò Tommaseo e Vincenzo Gioberti, per fare solo qualche nome, anche se non scelto a caso. Verrebbe, infine, la volta dei democristiani, di fatto e di nome: di Murri, anzitutto, e della Lega Democratica Nazionale; poi di don Sturzo e del Partito Popolare e da ultimo di De Gasperi e della Democrazia Cristiana in senso stretto.

Si tratta di una storia lunga, che necessiterebbe di un prologo in Francia e di riferimenti alle altre nazioni cattoliche, e che equivarrebbe, per qualche verso, a una stesura parallela, con diversi riferimenti storici e culturali, dell’opera di don Julio Meinvielle intitolata De Lamennais a Maritain, in uno scritto da intitolarsi Da Ventura a Sturzo, con Romolo Murri nella parte di Mare Sangnier (6). Poiché in questa occasione non mi è possibile dilungarmi più oltre, mi arresto, sperando di avere almeno impostato il tema e fornito le coordinate per ulteriori passaggi.

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9. Fino a questo punto ho parlato del movimento cattolico e di quello democristiano e forse ho fatto dimenticare che queste realtà non solo si situano a diversi livelli, ma anche in un preciso contesto che non esauriscono. Il contesto è quello costituito dal mondo cattolico, dalla Cristianità, che ha al suo vertice la Chiesa docente – gerarchia e magistero – e alla base il popolo discente, la grande presenza dei fedeli. E Chiesa e popolo hanno anch’essi, secondo modalità specifiche, preso posizione nei confronti della realtà Rivoluzione.

La presa di posizione della Chiesa – trascurando l’aspetto politico-diplomatico – passa da una fase reattiva e declaratoria – da Pio VI al Sillabo – a una fase costruttiva e normativa – dal corpus dottrinale di Leone XIII alla Mater et Magistra. E la dottrina che ne emerge, che si dipana in questa opera magisteriale e magistrale, va a costituire la cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, dottrina obbligatoria e vincolante, parte integrante della visione cristiana del mondo, autentica dottrina di restaurazione della società cristiana che, come ricordava san Pio X, non è da inventare, ma da instaurare e restaurare continuamente contro gli assalti della empietà e della Rivoluzione.

Questa dottrina parla della Chiesa e dello Stato, delle forme di governo, dei diritti e dei doveri del cittadino, della proprietà privata e delle corporazioni professionali, dei principi di sussidiarietà e di organicità, dei nemici dichiarati del nome cristiano e delle loro tenebrose organizzazioni. Questa dottrina è molto di più della idealità cristiana di cui parla don Sturzo e offre soluzioni precise, anche se, evidentemente, non tecniche, dei problemi aperti dalla Rivoluzione e dallo stato di “dissocietà” in cui sono immersi i popoli.

Qual è la sorte di questa dottrina? Quale la sua fine? Il popolo cattolico resiste passivamente alla Rivoluzione e qualche volta anche attivamente – la Vandea, il Tirolo, la Navarra, per esempio, insegnano – ma, lentamente o rapidamente, vengono meno i mediatori tra il Magistero e l’azione.

Il nome cristiano rimane, specchio per le allodole; l’idealità cristiana basta a sedurre, ma la pratica è tutt’altra. “Molti sono, infatti – lamenta Pio XI –, quelli che credono o dicono di tenere le dottrine cattoliche sull’autorità sociale, sul diritto di proprietà, sui rapporti fra capitale e lavoro, sui diritti degli operai, sulle relazioni fra Chiesa e Stato, fra religione e patria, fra classe e classe, fra nazione e nazione, sui diritti della Santa Sede e le prerogative del Romano Pontefice e dell’episcopato, sui diritti sociali di Gesù Cristo stesso, Creatore, Redentore, Signore degli individui e dei popoli. Ma poi parlano, scrivono e, quel che è peggio, operano come non fossero più da seguire, o non col rigore di prima, le dottrine e le prescrizioni solennemente ed invariabilmente richiamate ed inculcate in tanti documenti pontifici, nominatamente di Leone XIII, Pio X e Benedetto XV.“[…] questa specie di modernismo morale, giuridico, sociale, [è] non meno condannevole del noto modernismo dogmatico” (7).

Ecco elementi sufficienti per completare il quadro del movimento democristiano che, nel movimento cattolico, è tendenza che conserva il nome cristiano, ma, modernisticamente, trascura la dottrina, che sostituisce con un vago riferimento ideale, una vaga ispirazione, e nell’azione è “a forte contenuto democratico“, ovvero accetta la Rivoluzione, i suoi presupposti e i suoi fini, almeno implicitamente, diventandone “compagno di strada”.

E la disubbidienza dei democristiani non è senza influsso se non sulla dottrina della Chiesa, sulla pastorale, che si esprime all’ombra della considerazione del “male minore”. Così, purtroppo, l’accettazione di fatti compiuti fa talora perdere di vista i principi, si “dogmatizza” la situazione nella quale si è tragicamente caduti, e non è certo la maggioranza a tenere conto dell’ammonimento di Pio XII, che suona così: “Può darsi che su questo o quel particolare sia necessario cedere davanti alla superiorità delle forze politiche. Ma in questo caso si pazienta, non si capitola. E’ ancora necessario, in caso simile, che si salvi la dottrina, e si mettano in opera tutti i mezzi efficaci per avviare la cosa a poco a poco al fine cui non si rinuncia” (8).

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10. Chi mi ha seguito fino a questo punto non può non avere visto crescere in lui, lentamente ma con passo sicuro, un quesito: se è vero che la Democrazia Cristiana è una realtà politica cosiffatta, come è riposta la fiducia di quanti vedono in essa un baluardo contro il comunismo, che è la punta storicamente più avanzata della Rivoluzione?

Qualsiasi risposta personale sarebbe assolutamente insufficiente. Preferisco fare parlare i fatti, le situazioni oggettive, nella loro ovvietà quotidiana. Or non è molto, un lettore non anonimo scriveva alla direzione de la Discussione, il settimanale politico-culturale fondato da Alcide De Gasperi, e si complimentava con il segretario politico del partito democristiano per essersi “pronunciato più chiaramente del passato sul compromesso storico“.

Era ora di respingere energicamente ogni lusinga tattica fatta dal PCI“, commentava. E a lui testualmente la direzione rispondeva: “mettiamo in chiaro una volta per tutte che la linea del Partito […] è contro il cosiddetto compromesso storico. Che alcuni uomini della DC abbiano rilasciato dichiarazioni, concesso interviste (tra l’altro deformate) in cui non formulavano chiaramente questa linea del Partito è un conto, ma che la DC sia stata sempre chiara su questo punto è cosa da chiarire una volta per tutte. Per cambiare questa linea del Partito c’è bisogno d’un congresso: un Partito come il nostro va avanti a congressi e non a interviste. Se la maggioranza del prossimo congresso sarà per il compromesso, il partito cambierà linea, se invece non sarà per il compromesso la linea sarà quella di sempre” (9).

Dunque, è ormai tutto chiaro: non esistono preclusioni di principio al “compromesso storico” con il comunismo, ma è solo un problema di maggioranza all’interno del partito democristiano. Ma è mai possibile, si chiederà qualcuno, che non ci si possa appellare allo statuto, al programma, e bloccare anche una eventuale maggioranza capitolarda?

Leggo e rileggo lo statuto, e l’unico articolo “dottrinale” dell’ultima edizione che ho tra le mani è l’articolo 82 che recita così: “Il Congresso Nazionale delibera gli indirizzi generali della politica del Partito ed elegge il Consiglio nazionale” (10). Proprio così, e nient’altro. Se la Scrittura chiama stolto chi confida in un uomo, che cosa direbbe di chi confidasse nel nulla?

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11. In queste condizioni, che dire del silenzio dell’autorità ecclesiastica, che permette lo sfruttamento dell’aggettivo “cristiano”, sapendo che alla etichetta corrisponde un contenuto per dire il meno neutrale, ma di fatto costituito da ciò che piace ai vincitori di ogni battaglia storica? A loro parziale sgravio dirò che non hanno taciuto, ma non si sono fatti sentire!

Come ai documenti sul comunismo ha fatto seguito, nel 1949, una dichiarazione del Santo Offizio, così quelli sulla democrazia cristiana si sono trasformati in una dichiarazione riportata nell’Enchiridion Symbolorum al n. 3930 e di cui trascrivo, a conclusione, la traduzione offerta da L’Osservatore Romano del 13-14 aprile 1959: “E’ stato chiesto a questa Suprema Sacra Congregazione se, nella scelta dei rappresentanti del popolo, sia lecito ai cattolici dare il voto a quei partiti o a quei candidati, i quali, quantunque professino princìpi non in contrasto con la dottrina cattolica, o addirittura si attribuiscono la qualifica di cristiani, tuttavia di fatto si uniscono ai comunisti e con la loro azione li favoriscono. Nella adunanza di mercoledì 25 marzo 1959, gli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali, preposti alla difesa della fede e dei costumi, hanno decretato che sia risposto: Negativamente, a norma del Decreto del S. Offizio in data 11 luglio 1949, n. 1 (A.A.S. XLI (1949) 334). Riferita tale risoluzione degli Eminentissimi Padri al Sommo Pontefice [Papa Giovanni XXIII], nell’udienza accordata il 2 corr. all’E.mo Cardinale Pro-Segretario del S. Offizio, Sua Santità l’ha approvata ed ha disposto che sia pubblicata. Roma, dal Palazzo del S. Offizio, 4 aprile 1959“.

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12. La descrizione che ho offerto della Democrazia Cristiana comporta un giudizio assai negativo, che certamente dispiacerà a molti. Tra essi, alcuni tenteranno di argomentare in senso contrario, adducendo il caso di tante “brave persone” di loro conoscenza, e magari il loro caso personale. Come è assolutamente evidente, tutte queste brave persone cadono fuori dal mio cono di interesse, né la mia è una analisi sociologica e tanto meno morale dei democristiani italiani considerati singolarmente!

Questa riserva su fatti concreti, su persone viventi o vissute non toglie niente alla liceità di un giudizio di principio su una realtà politicamente identificabile e quindi pubblica, su una organizzazione con un passato ricostruibile, con un presente definito, tra l’altro, dal suo dettato statutario, e con un futuro gravido di conseguenze per tutti gli italiani.

L’anima di questa organizzazione politica, di questa “famiglia ideologica”, è costituita da una vaga ispirazione cristiana e dallo sforzo di farla concordare con la realtà rivoluzionaria di volta in volta presente sulla scena storica. Per potere “seguire” la sua dottrina, che è la Rivoluzione continuamente battezzata, non si dà una dottrina determinata – che si potrebbe passare al vaglio di altrettanto determinati princìpi -, ma si vuole momento di equilibrio sociale di una realtà in continuo movimento.

Perfetta trascrizione di quest'”anima morta” sul piano dell’agire politico è una frase di un noto democristiano francese. Di essa sono reperibili versioni nostrane, ma preferisco l’originale, perché veramente sintetico e in un certo senso insostituibile. La formula di Georges Bidault suona così: “gouverner au centre et faire, avec les moyens de la droite, la politique de la gauche“, “governare al centro, e fare, con i mezzi della destra, la politica della sinistra” (11).

E’ ancora il caso di chiedersi qual è l’indirizzo di questa organizzazione politica senza contenuti bene definiti? Oppure, ormai, i contenuti sono bene definiti? Non è possibile, a questo punto, tacere che Antonio Gramsci, “nel 1922 […] riteneva la fondazione della Democrazia cristiana un evento di tale importanza per l’Italia quale era stato per la Germania la Riforma protestante” (12), e non concludere con Plinio Corrêa de Oliveira che la Democrazia Cristiana “non è altro che un dispositivo ideologico e politico specificamente fatto per trascinare verso l’estrema sinistra uomini di destra e, soprattutto, centristi ingenui” (13).

Sine ira et studio, ad maiorem Dei gloriam“, “Senza animosità, per amore della verità, a maggior gloria di Dio“.

Note:

(1) Al tempo stesso della prima esplosione rivoluzionaria Babeuf coglierà l’impossibile convivenza della liberté e della égalité, ponendo quest’ultima, cioè l’égalité, a fondamento e a presupposto della prima, cioè della liberté, ma il suo comunismo esplicito e statalistico ritornerà ad essere implicito, in attesa di passare, con Marx e Engels, “dall’utopia alla scienza” e di trovare le sue formule operative in Che fare? e in Stato e rivoluzione di Lenin. Cfr. Albert Soboul, Feudalesimo e Stato rivoluzionario – problemi della Rivoluzione francese, trad. it., Guida Editori, Napoli 1973, pp. 36-38¸e Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, trad. it., Il Mulino, Bologna 1952, pp. 258-269.

(2) Robert Havard de la Montagne, Historia de la democracia cristiana, trad. spagnola, Editorial Tradicionalista, Madrid 1950, pp. 13-14.

(3) In questo senso è emblematica la frase di Ph.-Jos. Benjamin Buchez, secondo cui “la Rivoluzione francese è l’ultima conseguenza, e la più progredita, della civiltà moderna e la civiltà moderna deriva interamente dal Vangelo” (Histoire parlementaire de la Révolution française, cit. in Constant Van Gestel, La dottrina sociale della Chiesa, trad. it., Città Nuova, Roma 1966, p. 42). Con Buchez e con i suoi discepoli, scrive Maurice Vaussard, “abbiamo i più autentici precursori di ciò che […] avrebbe potuto essere una democrazia cristiana […]. Nato da una modesta famiglia di tradizioni repubblicane, temperamento molto combattivo, Buchez fu un autodidatta, mìlitò nelle file della Carboneria francese e frequentò gli ambienti imbevuti delle dottrine di Saint-Simon” (Storia della Democrazia Cristiana, trad. it., Cappelli, Bologna 1959, pp. 13-14).

(4) Luigi Salvatorelli, Chiesa e Stato dalla Rivoluzione Francese ad oggi, 3° ristampa, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 4.

(5) Il testo citato è in Pietro Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, 2° ed. riveduta, Studium, Roma 1963, pp. 133-134. Se il riferimento a don Sturzo dovesse parere a qualcuno provinciale e non, com’è, significativo per tutto il movimento democristiano, anche straniero, a fondazione della autorevolezza del politico siciliano riporto il giudizio dello storico democristiano francese Maurice Vaussard: “Non credo di essere accecato da un sentimento di amicizia che dura inalterato da quarant’anni affermando che [don Sturzo] è stato non solo il piú grande ma forse l’unico pensatore democratico cristiano che abbia avuto l’Occidente dall’inizio di questo secolo” (Storia della Democrazia Cristiana, cit., p. 289).

(6) Cfr. don Julio Meinvielle, De Lamennais a Maritain, 2° ed. riveduta e aumentata, Theoria, Buenos Aires 1967. A proposito di padre Ventura come punto di partenza del democristianismo italiano vale riportare il giudizio di don Sturzo in una lettera all’on. Gonella, in occasione del IV Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, svoltosi a Roma dal 21 al 26 novembre 1952: “[…] del passato democratico cristiano dal 1895 ad oggi sono ancora testimonio vivente, mentre mi sento legato allo spirito dei nostri precursori, da Gioacchino Ventura in poi […]” (Alberto Alessi, Meditazioni sul pensiero politico di padre Gioacchino Ventura, Cinque Lune, Roma 1970, p. 67).

(7) Pio XI, Enciclica Ubi arcano, del 23-12-1922, in Il laicato, insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1962, p. 276.

(8) Pio XII, Discorso ai padri di famiglia francesi, del 18-9-1951, in Discorsi e Radiomessaggi, vol. XIII, p. 243.

(9) La Discussione, anno XXIII, n. 1057, 10-2-1975, p. 3. La sottolineatura è mia.

(11) La frase è citata in Hans Mayer, Revolution und Kirche. Studien zur Frúhgeschichie der christlichen Demokratie (1789-1901), 2° ed. ampliata, Verlag Rombach, Friburgo i. B. 1965, p. 20.

(12) Maurice Vaussard, Storia della Democrazia Cristiana, cit., p. 292. Un giudizio di Gramsci sulla Democrazia Cristiana, meno generico e più articolato, ho riportato nella mia nota La funzione della Democrazia Cristiana nella strategia comunista, in Cristianità, anno II, n. 3, gennaio-febbraio 1974, cui rimando come a complemento di questo scritto.

(13) Plinio Corrêa de Oliveira, Prefazione a Fabio Vidigal Xavier da Silveira, Frei, il Kerensky cileno, trad. it., Cristianità, Piacenza 1973, p. 11.