L’agenzia che nutre solo se stessa (la Fao)

 Fao_conferenzaArticolo pubblicato su Il Giornale,
 9 dicembre 2004

di Livio Caputo

La Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta alla fame nel mondo, ha lanciato ieri una delle sue periodiche grida di allarme: cinque milioni di bambini muoiono ogni anno di fame, altri 20 milioni nascono sottopeso e rischiano di diventare handicappati, 852 milioni di persone (di cui 815 nei Paesi sottosviluppati ma anche 9 in quelli industrializzati) non ricevono una alimentazione sufficiente.

L’aspetto più allarmante di questa nuova statistica è che, quando il direttore Diouf dichiarò, in occasione del vertice mondiale di Roma del 2002, che «la lotta alla fame è un fallimento collettivo», gli affamati erano appena 820 milioni e coloro che morivano d’inedia 8.760.000, compresi tutti gli adulti.

Dato e non concesso che queste cifre corrispondano alla realtà, viene da chiedersi che cosa abbiano combinato, nel frattempo, non solo la Fao, ma anche i governi che affermano di interessarsi del problema e le innumerevoli Ong che essi finanziano. L’agenzia dell’Onu, in particolare, è considerata un carrozzone burocratico che spende più della metà delle sue entrate per le proprie esigenze.

Forse è venuto il momento di guardare in faccia la realtà in maniera meno «politicamente corretta» e di distribuire meglio le responsabilità. Potremmo partire dalle recenti dichiarazioni del cardinale nigeriano Francis Grinze sull’argomento.

Dopo avere attribuito la colpa di molte carestie africane alle tante guerre, «che distruggono le coltivazioni e tolgono braccia all’agricoltura», ha detto testualmente: «C’è una grande fuga dai campi: i giovani non hanno più voglia di coltivare i campi con i mezzi che si usavano cent’anni fa! Perciò si stancano e decidono di emigrare». Alla domanda su quali possano essere i rimedi, ha risposto: «Maggiore solidarietà internazionale e migliore governo dei Paesi del Sud».

Cominciamo dalla solidarietà internazionale. È vero che, quando si ha a che fare con una tragedia così grande, essa non basta mai, e che le barriere doganali e sanitarie erette dai Paesi industrializzati nei confronti di un certo numero di prodotti africani danneggiano gli agricoltori del continente nero. Ma bisogna anche ricordare che i tanto vituperati Stati Uniti d’America mantengono da soli 9 milioni di bambini in 40 Paesi del mondo, che gli aiuti alimentari degli Usa e dell’Unione Europea tengono in vita intere popolazioni, dall’Etiopia allo Zimbabwe al Sudan, e che non c’è emergenza cui non cerchino di far fronte.

C’è addirittura chi sostiene che questo continuo flusso di prodotti alimentari gratuiti verso il Terzo Mondo sia una delle ragioni per cui questo non è più, come un tempo, autosufficiente. Ricordo, in proposito, quanto mi raccontò anni fa il capo di una squadra di agronomi svedesi che si erano assunti il compito di insegnare a una tribù della Tanzania metodi di coltivazione più avanzati: quando riuscirono a raddoppiare il raccolto, il capo li chiamò per ringraziarli, perché così l’anno successivo «non avrebbero più avuto bisogno di seminare».

Gravissime sono invece le responsabilità della classe dirigente africana. Un esempio per tutti, lo Zimbabwe: quando era possedimento britannico, e ancor di più nei quattordici anni di indipendenza sotto un governo di coloni, era uno dei grandi esportatori di prodotti agricoli del continente e tutti avevano da mangiare a sufficienza. In venticinque anni il presidente Mugabe lo ha mandato in rovina e oggi vive della carità internazionale.

La ragione principale, se non unica, di questo drammatico declino è l’esproprio e la cacciata degli agricoltori bianchi e la consegna delle loro terre a sedicenti «combattenti per la libertà» che non avevano la più vaga idea di come si gestisce un’azienda.

Si ha un bel dire che bisogna aiutare le popolazioni africane a uscire dal sottosviluppo, ma è necessaria anche la loro collaborazione. Se i giovani decidono di tentare l’avventura in Europa piuttosto di lavorare la terra, come dice il cardinale Arinze, ci deve essere qualcosa di sbagliato. È assurdo che, pur con i suoi deserti, le sue foreste tropicali, le sue invasioni di locuste e le sue croniche siccità, un continente vasto come l’Africa non riesca a nutrire la sua popolazione.

Se i prodotti geneticamente modificati, che suscitano tante (e spesso assurde) polemiche in casa nostra, possono essere d’aiuto perché più resistenti e più redditizi, li si adotti ovunque senza ulteriori indugi. Se è l’imperizia dei coltivatori a impedire un aumento della produttività, si spenda almeno una parte dei miliardi che vanno a varie forme di cooperazione più o meno utili per far fare loro il balzo di secoli necessario a utilizzare metodi più moderni.

Si prema, soprattutto, sui governi che non hanno ancora riconosciuto legalmente i diritti di proprietà sulla terra, e perciò privano i coltivatori della possibilità di contrarre prestiti per l’acquisto di sementi e macchinari, perché adeguino le rispettive legislazioni alle esigenze del terzo millennio

La Fao fa bene a ricordarci, di tanto in tanto, la tragedia della fame nel mondo. Ma non culliamoci nell’illusione di poterla curare mandando 100 euro a una Ong, o anche aumentando la percentuale del Pil destinata agli aiuti. Questo può servire ad attenuare i nostri spesso ingiustificati sensi di colpa. Ma se vogliono uscire dalla loro condizione di miseria, i popoli del Terzo Mondo in generale, e dell’Africa in particolare, devono cambiare metodi, abitudini e atteggiamenti.