“Chi sono io per giudicare?” Approfondimenti sul tema del “giudizio” secondo la fede cattolica.

giudizioOsservatorio Internazionale

Cardinale Van Thuân

Newsletter n.525 del 29 luglio 2014

Silvio Brachetta

Sembra quasi che, sulla questione del giudizio, dalla Sacra Scrittura provengano due richieste di Dio all’uomo, opposte tra loro. Nel Discorso della montagna, Gesù Cristo dissuade dall’appropriasi di un giudizio che appartiene solo a lui: «Non giudicate per non essere giudicati» (Mt 7, 1). E spiega anche il perché: poiché voi uomini – dice il Signore – «col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7, 2).

Che il giudizio espresso nel Discorso della montagna appartenga solo a Dio, lo dice ancora Gesù, come riporta l’Evangelista San Giovanni: «Io sono venuto in questo mondo per un giudizio, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (Gv 9, 39). Anche San Paolo, nella lettera ai Romani (2, 1), ripete il medesimo concetto che Gesù espresse sulla montagna: «Perciò chiunque tu sia, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose».

Altrove, però, la Scrittura esorta l’uomo al giudizio. È il Signore stesso a richiederlo: «Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!» (Gv 7, 24). Non solo, ma rimproverando i farisei, domanda loro: «Come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12, 56-57). Pure San Paolo, rivolto ai cristiani di Corinto, li ammonisce: «Non sapete voi che giudicheremo gli angeli? Quanto più possiamo giudicare delle cose di questa vita!» (1 Corinzi 6, 3). Come allora interpretare ciò che sembra un paradosso?

Se giudicare sia lecito all’uomo

San Tommaso d’Aquino affronta il tema del giudizio, in generale, nella seconda sezione della seconda parte della Summa Theologiae (quaestio n. 60). Il santo Dottore ricorda che il termine «giudice» deriva dal latino «ius dicens», intendendo colui che «dichiara il diritto». E da «giudice» derivò «giudizio». Però il giudizio – precisa San Tommaso – non si restringe all’ambito forense, ma investe ogni categoria morale, così che esso diviene la «determinazione retta di qualsiasi cosa, sia nell’ordine speculativo che nell’ordine pratico». Giudice è quindi il magistrato, ma anche ogni persona che giudica qualcosa o qualcuno. Molto importante, inoltre, è la disposizione di chi giudica, poiché il giudizio è giusto nella misura in cui una persona ha la virtù della carità e i doni soprannaturali della sapienza e della prudenza.

Il problema non è dunque il giudizio in sé stesso, ma se esso sia «un atto di giustizia» o non piuttosto un’ingiustizia. Per questo motivo, affinché il giudizio sia vera giustizia, si richiedono all’uomo tre cose: che il giudizio «derivi dall’abito della giustizia, che derivi dall’autorità di uno che comanda e che sia emanato secondo la retta norma della prudenza». San Tommaso, pertanto, ammette che sia lecito giudicare, ma lega la validità del giudizio a queste tre condizioni, che solo di rado sono rispettate. Quando, infatti, un peccatore giudica un altro peccatore, non lo fa come qualcuno che ha un’autorità sul peccato. Egli non è un giusto tra i peccatori, ma è un peccatore tra molti. In tal modo annulla la seconda condizione e il suo non è più un atto di giustizia, bensì è un «giudizio usurpato». Usurpato a Dio.

Quando invece abbiamo autorità in un certo ambito e siamo animati dalle virtù e dai doni dello Spirito Santo, non solo è lecito, ma è doveroso giudicare. È il caso dei genitori nei confronti dei figli, dell’esperto nei confronti dell’inesperto, del religioso nei confronti del laico, del principe nei confronti del popolo, del soggetto nei confronti della realtà oggettiva conosciuta, della creatura spirituale nei confronti delle creature temporali. Così l’uomo (e in particolare il cristiano) è chiamato a scrutare i segni dei tempi, ad ammonire i peccatori circa il peccato e a valutare ogni situazione della vita propria e altrui.

I cinque significati del giudizio

Sono dunque rintracciabili, in San Tommaso, cinque significati del giudizio. Primariamente c’è il giudizio che proviene dall’odio, ad esempio del peccatore che si reputa giusto, «come quando uno giudica di cose dubbie od occulte basandosi su delle semplici supposizioni». In questo caso il giudizio è «sospettoso» o «temerario», poiché l’uomo non può leggere nel cuore di un’altra persona, né darsi una ragione completa dei moventi dietro le azioni altrui.

È importante non giudicare, a questo proposito, specialmente quando si tratta di un peccato pubblico, «poiché ne nascerebbe uno scandalo nella mente altrui». Il secondo senso del giudizio, simile al primo, è quello usurpativo, che l’uomo esercita su cose di cui non ha competenza: è di colui che si sostituisce a Dio o di chi giudica prima di avere un quadro completo delle circostanze. Perciò San Paolo afferma: «Non giudicate prima del tempo» (1 Cor 4, 5), ovvero prima di avere esaminato ogni aspetto della situazione.

C’è un terzo senso del giudizio, su cui l’uomo non si può e non si deve esprimere. Potremmo chiamarlo giudizio d’incompetenza ed è tipico di chi non ha l’autorità nei confronti del superiore. Sbaglia dunque il ragazzo che si ribella ai genitori, o l’imputato che disprezza il giudice, o l’ignorante che mette a tacere il sapiente, o il penitente che mortifica il confessore, o il popolo che rovescia un potere costituito. Ma il giudizio è invece legittimo in ordine a due significati ulteriori, già accennati in precedenza: nel caso il giudicante abbia l’autorità necessaria – ma anche legale e consentita – sugli uomini (quarto senso) e l’abbia sulla realtà oggettiva (quinto senso).

Giudizio della coscienza e giudizio magisteriale

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che, sebbene il Padre abbia «rimesso ogni giudizio al Figlio», questi «non è venuto per giudicare, ma per salvare» il mondo (n. 679). Così vi sarà un giudizio, per i vivi e per i morti, dove però sarà compiuta anche la misericordia verso il peccatore penitente. Quanto all’uomo, ogni sua azione morale deriva da un proprio «giudizio di coscienza», che può essere buono o cattivo. Questo è un giudizio legittimo, che precede ogni atto umano consapevole e che dipende dall’oggetto dell’azione, dall’intenzione soggettiva e dalle circostanze esterne (nn. 1749, 1750). È dunque chiaro che l’uomo esercita il giudizio senza interruzione, per tutto il corso della propria vita, relativamente alle azioni da compiere e alle scelte da effettuare. Vi è addirittura una salutare «sentenza del giudizio di coscienza» (n. 1781), mediante la quale possiamo individuare il nostro peccato, pentirci e salvarci. Certamente il giudizio umano può essere «retto», se in accordo alla ragione e alla legge divina, o «erroneo», se ostinato nella colpa. In ogni caso è un giudizio effettivo, personale

Anche la Chiesa, sulla base del Magistero, contempla l’esercizio del giudizio: «È compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime» (Codice di Diritto canonico, can. 747).