Che Guevara. Tra mito e realtà

COMUNE DI PISA Circoscrizione 1 – Marina di Pisa – Tirrenia – Calambrone

Venerdì 7 maggio 2004, ore 21,15

Cinema-Teatro Don Bosco Marina di Pisa

Incontro con Valerio RIVA Giornalista e scrittore

Che Guevara

Organizzazione a cura del Centro cattolico di documentazione
Col contributo della Cassa di Risparmio di Pisa Gruppo Bipielle

Valerio Riva

Presentazione dell’incontro preparata dal dott. Valerio Riva. E’ un curioso fenomeno. Da qualche tempo di libri su Che Guevara se ne pubblicano sempre meno; e negli ultimi due o tre anni, addirittura quasi niente. Comunque niente di veramente importante, sia del punto di vista storico che politico. Anche le occasionali ristampe di vecchi opuscoli proposte da qualche zelante propagandista alla Gianni Minà, non contano veramente nulla. Del resto un serio interesse per il “guerrillero heroico” morto in un angolo sperduto di Bolivia 37 anni fa, si è, a ben vedere manifestato solo in due momenti.

Nel 1967, cioè nell’immediatezza della morte: resoconti giornalistici, raccolte di scritti, libelli apologetici.Le cose di qualche valore furono allora: 1) il ripescaggio di ricordi (gli “episodes”) della lotta contro Batista che lo stesso Guevara aveva scritto alla fine del conflitto per un giornale dell’Avana; 2) il cosiddetto Diario del Che in Bolivia pubblicato da Feltrinelli in anteprima mondiale, insieme con 3) due grossi volumi di scritti teorici; 4) gli Speeches and writings raccolti e pubblicati negli USA da un famoso giornalista americano liberal, John Gerassi. Poi per trent’anni più niente. Finchè in prossimità, appunto del trentennale della morte, 1997, c’è una improvvisa fioritura di opere, alcune di grande interesse sia politico che storiografico.

Inizia nel 1996, a Parigi, un vecchio compagno d’armi del Che, “Benigno”, che apre il suo libro con questa significativa frase: “Scrivo questo libro per testimoniare della mia rottura con il castrismo”. E’ dunque un libro contro. Al libro di “Benigno”, seguono due ponderosissime biografie del Che scritte da autori capaci di usare contemporaneamente sia l’indagine giornalistica che la puntigliosità dello storico.

Di un americano, Jon Lee Anderson, A Revolutionary Life, un volume di ben 814 pagine. Di un messicano, Jorge Castaneda, La vida en rojo, non meno voluminoso. Anderson, meno critico. Castaneda, molto critico. A chiudere la serie, vengono la scoperta di appunti di un viaggio (segreto ma deludente) di Guevara in Congo, e il capitolo di un libro autocritico di Regis Débray, che era stato a suo tempo l’inventore proprio del “guevarismo”.

Ancora più curioso il fatto che di tutta questa produzione bibliografica, in Italia passano sostanzialmente briciole. Il Diario del Che in Bolivia, sì; Gerassi, no. Il libro di “Benigno”, edito da noi in maniera tale da stravolgerne il significato. Castaneda, mai tradotto. Anderson, pubblicato con grande risalto, ma poi rimasto quasi interamente nei magazzini dell’editore. Del capitolo del libro di Débray, viene fatta in Italia dalla Bietti una edizione a sé. Ma sfiora l’insuccesso, come l’edizione italiana del viaggio in Congo.

Eppure ancor oggi su tutte le bandiere dei no-global, dei “dissidenti”, di Rifondazione comunista, dei DS o dei sindacati campeggia l’immagine del Che. Ma se si chiede a un frequentatore di cortei, se sa chi era veramente Ernesto Che Guevara, si scopre che la maggioranza ne sa poco o niente. O ne ha un’idea del tutto ambigua se non equivocata. Ciononostante, quell’immagine è sempre lì. Ridotta a cosa? A un emblema? A un “santino”? Esiste forse un culto quasi religioso del Che, slegato da ogni connessione terrena? O è solo una gigantesca truffa politica?

Valerio Riva, 25/04/04

VALERIO RIVA: Vi ringrazio di avermi invitato in una serata così fredda, ma speriamo di scaldarla poco a poco con le parole. Il dottor Paolo Cognetti (Presidente della Circoscrizione 1) ha detto una cosa giusta introducendo il tema: non si capisce più bene se questo Che Guevara è stato o non è stato una persona viva, umana o se è una specie di marchio di fabbrica, una figurina che non appartiene più alla storia per diventare un simbolo e una cosa eterea, immateriale. Io credo sia diventato una cosa immateriale, un emblema e non si sa più bene di che cosa.

Ho provato qualche volta a chiedere a qualcuno di quei ragazzi che vanno in giro con la bandierina del “Che” a chiedere chi fosse questo personaggio e non mi hanno saputo dire assolutamente niente. Non sanno dire chi era, quando è vissuto; insomma non sanno assolutamente niente. Ma questo non è dovuto semplicemente all’ignoranza di una generazione.Purtroppo chi ha una certa età sa che in un momento della nostra storia più recente c’è stata una sorta di saracinesca, per cui le cose che si sapevano prima sono scomparse e c’è ora tutta una parte dell’umanità che va avanti senza sapere cosa è avvenuto.

Disgraziatamente si fanno grandi discussioni sul revisionismo storico, sulla necessità di ricercare quello che è veramente avvenuto e in realtà si scopre che la maggior parte della gente non solo fa nessun revisionismo ma non sa neppure cos’è la storia. Nei licei non si insegna più ed è diventata un fenomeno di cui parlare in certe trasmissioni televisive in onda alle tre di notte. Il caso di “Che” Guevara, che da essere umano è diventato una specie di simbolo quasi di culto, è però una storia molto crudele e allo stesso tempo istruttiva.

“Che” Guevara è vissuto pochissimo e la sua carriera politica si svolge entro un periodo estremamente ristretto: dal 1956 al 1967, poco meno di undici anni, che è più o meno il periodo in cui è vissuto Hitler, e rappresenta un balzo immediato da un periodo all’altro. Il 1956 è infatti l’inizio della rivoluzione cubana, mentre il 1967 è in realtà l’anno in cui essa finisce per diventare un’altra cosa.

La vera politica del “Che” comincia però nel 1959, ed è quindi ancora più breve. Di questi otto anni alcuni sono trascorsi nel silenzio e nel mistero. Quindi un’esistenza in pratica quasi nulla e tutto sommato quasi sprecata, perché non è servita a niente; è stato un esperimento fallito. Fallito fin dal principio, e vedremo perché. Come mai da questo grande fiasco, durato come dicono i francesi lo spazio di un mattino, è arrivato questo mito che dura da oltre quarant’anni?

Secondo me si tratta di una grande lezione della storia; non tanto perché questa si vendica di quelli che pretendono di dominarla ma perché la storia delle rivoluzioni è la storia del nulla. Bisogna ricordarsi con grande lucidità che tutto ciò che sembra la creazione di un mondo nuovo in realtà non avviene. “Che” Guevara è una di queste cose che “non avviene”.

Come sapete il “Che” era figlio di una famiglia medio borghese argentina: suo padre era un peronista, la madre, come spesso succede nelle famiglie della sinistra, era una fanatica e impulsiva, senza tante conoscenze politiche. Vivevano in una nazione in grande crisi economica e politica, quando ormai era tramontato il sogno peronista e si viveva soltanto nel ricordo del trascorso momento di splendore della politica argentina.

In queste famiglie peroniste del dopo-Peron c’era lo stesso sentimento che troviamo spesso nelle famiglie del post-fascismo, ovvero l’anelare ad un momento di gloria che non si è ripetuto e che non si ripeterà mai più. Sapete che il post-peronismo in Argentina ha rappresentato uno dei più grandi guai, perché ha impedito la modernizzazione del paese, incastrato in una ripetizione di schemi sindacali, che in realtà hanno portato solo alla corruzione.

La famiglia del “Che” Guevara rimane chiusa in questa nostalgia; il figlio studia medicina senza grande passione e dedicandosi più che atro allo sport e all’avventura; fino a che con un po’ più di soldi in tasca e un compagno un po’ più ricco di lui decide di andare a fare un viaggio dal sud al nord dell’America Latina in motocicletta. Un viaggio di piacere più che politico, anche se in seguito verrà ammantato dell’alone mitico del giovane medico generoso che parte dall’Argentina per andare a curare i lebbrosi lungo la strada verso il nord.

Questo in realtà non è mai avvenuto e se si sono fermati in una colonia di lebbrosi lo hanno fatto per sbaglio o per curiosità, senza vero interesse. Il loro interesse era di arrivare almeno fino al Messico e, come sognavano tutti i giovani latino-americani di quel tempo, trovare il modo di andare a Parigi con minima spesa. A Parigi a far che non si sa ma era quello il luogo verso cui era attratta la gioventù.

Guevara arrivò fino al Messico passando per il Guatemala, che in quel momento era in una fase rivoluzionaria, e i due ragazzi – che rivoluzionari non erano affatto – entrano in questa avventura guatemalteca, l’ennesima rivoluzione fallita dell’America latina. Qui hanno il loro esploit militare e quando la rivoluzione finisce malamente sono costretti a scappare dal Guatemala e a rifugiarsi in Messico, paese capace di accogliere tutti quanti.

Quando qualcuno arriva in Messico sa che quella è la sua patria perché chiunque, qualsiasi sia il colore della sua pelle, la religione, l’ideologia politica, in questa civiltà antica e contraddittoria può vivere tranquillamente. I due arrivano dunque in Messico senza una lira ma con dietro la piccola fama di aver fatto la rivoluzione in Guatemala, che cercano di sfruttare. Entrambi, in particolare Guevara, sono bei ragazzi con un’aria romantica e una signora molto più anziana del “Che” si innamora di lui, mantenendolo per un certo tempo.

In cambio lui offre un affetto un po’ dubbio, perché Guevara nei confronti della donna non ha alcuna passione e cerca di sfruttarla più che può: va in giro, fa altre cose, ha altre fidanzate. Lei, gelosissima, cerca di tenerlo ma si tratta di un affaire sentimentale molto spento. Questa atmosfera a metà tra bohemienne, avventuriera e anche un po’ cinica dura fino quando Guevara incontra un gruppo di persone mantenute da un produttore cinematografico, il quale pensa di fare un film politico con un gruppo di ragazzi della stessa età, tra i quali c’è anche uno strano personaggio, molto più alto di statura di tutti quanti; quasi un marziano: Fidel Castro.

Castro ha l’aria del capo, anche perché supera in altezza di dieci-quindici centimetri tutti gli altri, è sempre sicuro di sé stesso e sa sempre quello che deve fare. Guevara, quasi indistintamente, se ne innamora.

Anche Fidel Castro è figlio di una famiglia benestante, cubana; isola in cui l’attività rivoluzionaria dura praticamente da quasi un secolo. Anche lui è un rivoluzionario costretto a rifugiarsi in Messico dopo aver tentato di organizzare un fallito golpe a Santiago di Cuba con un gruppo male armato composto da quasi tutti amici di infanzia e di scuola coi quali assalta una caserma dell’esercito batistiano.

Durante questo assalto vengono decimati facendo qualche perdita tra i militari, che arrestano quasi tutti tranne Castro. Ci sono anche delle scene molto violente, perché alcuni sono uccisi dopo l’arresto e a una ragazza, fidanzata di uno dei rivoluzionari, vengono mostrati i testicoli a dimostrazione che il suo amato è morto. Lei subisce un trauma terrificante, anche perché si tratta di figli della buona borghesia cubana che si scontrano per la prima volta con la morte.

Fidel Castro riesce a scappare nascondendosi in un luogo metà foresta e metà palude, dove viene arrestato. Rimane dietro le sbarre qualche mese e subisce un processo in cui viene condannato. Durante il giudizio legge un famoso discorso, che non aveva neppure scritto lui ma una giornalista cubana, che verrà intitolato con una famosa frase del Main Kampf: “la storia mi assolverà”.

Essendo parte di una famiglia benestante, imparentata con Batista, viene poi liberato e mandato in Messico, dove arriva con l’aureola di martire. Qui si ripromette di tornare in patria entro una certa data, per la quale dovrà armare una piccola flotta; e in effetti sarà in seguito armata a spese del produttore cinematografico. Tra le altre persone che incontra sulla sua strada – perché Fidel ha bisogno di compagni, non tanti; poche decine di persone – c’è anche il giovane argentino “Che”.

“Che” è una parola che gli argentini usano per dire “tu” e questi cubani e messicani che sentono questo argentino dire sempre “che” finiscono per chiamarlo “Che”, e basta. Guevara si presenta come medico e Castro lo nomina medico della spedizione. Un pessimo medico, tanto che stando per un po’ con tutti gli altri nasce la battuta che è meglio morire sotto il fuoco del nemico che farsi suturare una ferita da Ernesto Guevara.

Finalmente tentano lo sbarco a Cuba, durante una tempesta, e si arenano al largo della costa. Sono allora costretti a disperdersi e fuggire inseguiti dall’esercito di Batista. E’ l’ennesima sconfitta. Alcuni sono catturati ma Castro con altri dodici, anche se questa è un po’ una leggenda, riesce a fuggire all’arresto. E’ adesso che nasce il primo mito: i dodici di Castro, tra cui c’è anche Guevara.

Ricordo questo perché quando facevo l’editore sono stato proprio quello che pubblicato per la prima volta il libro “I dodici di Castro” diventando in un certo senso l’iniziatore del primo mito di “Che” Guevara. Da quel momento i fuggiaschi si nascondono per tre anni nella Sierra Maestra, una modesta montagna nella parte orientale di Cuba inospitale e piena di difficoltà geologiche su cui vivono soltanto dei pastori e dei briganti. Da lì comincia l’epopea della rivoluzione cubana, fino alla discesa verso l’Avana.

E’ in realtà una epopea molto modesta, perché rimangono chiusi dentro il loro rifugio semi alpino per tutto il tempo in cui l’esercito batista ha una reale forza politica e militare. Poi a poco a poco, dopo tutto ciò che succede nel paese e sopratutto all’Avana e nelle grandi città, convince gli Stati Uniti ad abbandonare Fulgenzio Batista, diventato un dittatore semi fascista ma anche semi comunista, perché non si deve dimenticare che il suo capo della polizia era un uomo del Kgb.

Anche Batista se ne va e così il piccolo gruppo rifugiato in cima alla Sierra Mastra scese a valle moltiplicandosi finché, all’inizio del 1959, arrivò all’Avana compiendo una rivoluzione senza colpo ferire, almeno sul piano militare. Nella capitale invece la polizia di Batista fu capace di colpire gli oppositori in modo drammatico e violento ma tutto finì e tra quelli scesi all’Avana c’era anche il giovane Guevara, che venne subito cooptato nella sfera del potere.

All’inizio la rivoluzione aveva un carattere democratico, proponendosi di abbattere la dittatura e una volta realizzato ciò ricreare le condizioni per una vita civile e democratica. Il presidente della Corte di Assise dell’Avana venne nominato Presidente della Repubblica, ci furono una serie di ministri più o meno borghesi mentre Fidel Castro, l’uomo del potere militare, si ritirò come corrucciato da una parte, senza veri poteri, come garanzia che la rivoluzione non sarebbe stata tradita.

Ciò fino a quando Castro “perse la pazienza”, diciamo così; ma in realtà capirà che il rifiuto del potere non serve a niente e abolirà con violenza il governo democratico per sostituirlo con uno dittatoriale. Questo governo dittatoriale, sarà accompagnato da una quantità enorme di sevizie e violenze, una vera e propria strage, e Castro assumerà tutti i poteri facendo diventare “Che” Guevara suo ministro.

Guevara diventò ministro per sbaglio, perché un po’ per scherzo, un po’ sul serio si racconta che al momento di dividere le cariche Castro disse: “Chi si intende di economia?”; Guevara alzò la mano dicendo: “Io” e Fidel: “Allora tu diventerai ministro dell’economia”; Guevara, di rimando: “Ma io ho capito ‘ chi è comunista?’” e Castro: “Non importa, tu diventerai ministro dell’economia”.

Questo è il primo equivoco della vita di Guevara, che non solo non sa di economia ma non sa niente di niente, e al quale viene affidata la banca centrale dello stato e da lì comincia la lunga storia di disperazione, di degrado e di dissoluzione sociale che è stata la storia di tutta la cosiddetta rivoluzione castrista. Questo è per inquadrare la storia di questo personaggio che in realtà dura pochi anni sulla scena della storia mondiale e che è un continuo di errori, equivoci, malintendimenti e che anche per questo ha una dimensione tragica, vista anche la fine che farà, come del resto è la tragedia moderna: sempre in bilico tra la comicità e la tragicità.

La tragedia antica, a cominciare da Edipo, è in qualche modo lineare, mentre quella moderna è sempre un qualcosa di molto ambiguo, in cui non si sa mai quando si deve piangere e quando vale la pena riderci sopra. Dopo questa inquadratura bisogna però scendere un po’ nel particolare. Spesso vengo presentato come colui che ha conosciuto Guevara di persona, il che è vero ma ormai i miei capelli bianchi dicono che è passato tanto tempo da allora.

Il mio primo incontro avvenne infatti il 2 gennaio del 1964 e fu un incontro già abbastanza curioso. Allora ero direttore editoriale della casa editrice Feltrinelli e due anni prima avevo incontrato a Firenze in una conferenza indetta da La Pira un giornalista cubano: Carlos Franqui. Si trattava di un personaggio molto strano e interessante, un intellettuale di grande livello che nella sua vita fu tra i fondatori del partito comunista cubano dal quale venne cacciato con l’accusa di essere trotzkista.

In realtà era semplicemente uno che aveva cominciato a dubitare non soltanto della consistenza del comunismo ma anche dell’integrità morale dei comunisti e aveva creato una serie di incidenti all’interno del partito, peraltro piccolissimo; parliamo del periodo della seconda guerra mondiale.

Una volta espulso, dopo varie esitazioni, aveva finito per avvicinarsi al partito di Fidel Castro, che si chiamerà “Movimento 26 luglio” pur avendo un’età superiore a quella dei ragazzi che lo componevano. Franqui era stato un personaggio importante della resistenza anti batistiana all’Avana. Nella storia di Cuba ci sono state due grandi correnti, oggi perse: la corrente della montagna e la corrente del piano.

Per i sostenitori della prima la rivoluzione era stata fatta sulla Sierra Maestra, mentre per i sostenitori della seconda – a maggior ragione devo dire – se c’era stata resistenza contro la dittatura di Batista questa si era svolta in città e non in montagna, dove si stava ad aspettare l’ora x mentre nei centri abitati si veniva arrestati e torturati.

E in effetti ci furono episodi anche sanguinosi, come il tentativo del dirigente dell’organizzazione studentesca cubana Chevarria che aveva cercato di dare l’assalto al palazzo presidenziale in uno dei tanti episodi falliti di rivolta cittadina e che era stato sterminato assieme a tutti gli altri. Lo stesso Franqui era stato arrestato, rilasciato e poi ripreso fino a quando, non riuscendo più a vivere in città, venne mandato in montagna, dove aveva proposto a Castro di impiantare una radio, chiamata Radio Cuba Libre, e trasmettere programmi di informazione e soprattutto di propaganda. Fu una tipica idea da giornalista americano.

Impiantata la radio, che ebbe subito grande successo perché fece sentire la voce di quelli della montagna a tutta l’isola e anche oltre, Castro nominò Franqui, anche perché erano quattro gatti, direttore dell’informazione del movimento. Scesi a valle in seguito alla rivoluzione diventò poi direttore del giornale del movimento: Revolucion. Un giornale molto interessante anche dal punto di vista grafico, con trovate molto moderne rispetto al resto dei giornali latino americani, che erano molto classici, e anche rispetto a quelli statunitensi che erano fatti con caratteri molto puliti.

Revolucion aveva invece caratteri neri, grandi, moderni; un po’ tra il futurista e il surrealista e difatti Franqui si vantava di essere un surrealista sudamericano. Chi tra voi è molto anziano come me si ricorderà che questo tipo di giornale in Italia, subito dopo il 25 aprile del 1945, lo fece Vittorini a Milano.

E’ molto curioso vedere come le stesse esperienze grafico-politiche accompagnano tentativi che si scontreranno entrambi con la resistenza conservatrice del partito comunista, che già aveva espulso Franqui a Cuba ed espellerà ben presto Vittorini in Italia con la famosa frase di Togliatti: “Vittorini se n’è iuto e soli ci ha lasciati”; frase di grande cinismo e allo stesso tempo di disprezzo intellettuale. Mentre però il giornale di Vittorini durò poco, per diventare poi un settimanale, una rivista e infine scomparire, il giornale di Franqui durerà molti anni, fino alla morte di Guevara e con un successo molto più grande, tanto da essere sempre il giornale del movimento.

Dopo qualche mese dalla calata dei barbudos all’Avana Franqui andò da “Che” Guevara chiedendogli di scrivere le sue memorie da guerrigliero. Ma Guevara nicchiò, dicendo che scrivere non era il suo mestiere ma dopo un po’ di tira e molla, anche con l’aiuto di un dattilografo molto intelligente, che ho conosciuto, il quale più che un dattilografo era un vero e proprio redattore editoriale, tirò giù dei brevi racconti che Franqui pubblicò in un libro col titolo: Pasaches de guerra e de guerrilla, dove “pasaches” in spagnolo significa “raccontini”.

Questi brevi testi, nei quali Guevara cercò di raccontare cosa gli era successo, vennero pubblicati e sono il primo tentativo di raccontare dall’interno della guerriglia cubana cosa successe in quei mesi della rivoluzione. Ebbero molto successo, sia a Cuba che all’estero e da quel momento Guevara diventò suo malgrado anche scrittore.

Dopo iniziò una diversa storia: Guevara ministro, Guevara uomo che spinge Castro su posizioni estreme, che promuove la riforma agraria; la quale consistette semplicemente nel tentativo di sequestrare e collettivizzare la terra dei contadini e che susciterà delle rivolte e una lunga guerra civile di cui non si sa niente, perché è stato nascosto tutto, ma che durò anni procurando enormi danni all’esercito regolare cubano. Si trattò infatti di una guerriglia forte e guidata da capi molto bravi dal punto di vista militare e politico, naturalmente sostenuta anche dagli Stati Uniti.

Guevara sarà l’uomo della repressione, sia nei confronti dei contadini che degli oppositori interni. E’ lui che spinge Castro sulla strada delle condanne a morte, dei grandi processi che finiscono sempre drammaticamente ed è anche l’uomo dell’intransigenza. Questa intransigenza diventerà poi scomoda per il potere di Castro, che è un grande mediatore e un personaggio capace di svolgere quaranta politiche in un solo momento.

Avere al fianco questa specie di pungolo che lo spinge verso l’estremismo finirà per stancarlo e a poco a poco relega il “Che” in ruoli sempre più marginali; anche perché dopo averlo casualmente nominato ministro dell’economia, ma in realtà presidente della banca di Stato, i risultati della gestione Guevara sono assolutamente disastrosi. Diventò quindi necessario rimuoverlo anche di lì e sostituirlo con dei, più o meno, tecnici, i quali sesso erano indicati dai sovietici con una mentalità sovietica.

A questo punto sorse una certa difficoltà di rapporti tra Guevara e Castro ma non bisogna credere che questa difficoltà si traducesse in scontro aperto, come è stato spesso falsamente raccontato dagli analisti nordamericani. Non c’è mai stato uno scontro aperto; piuttosto c’è stata l’impossibilità di mettere assieme le esistenze di due persone che sul piano intimo erano invece molto amiche tra di loro.

Ciò spinse Guevara a scegliere la via della fuga, non per scappare da Cuba, come si è detto, ma per cercare delle alternative. Guevara comincia così ad andare a combattere, per modo di dire, in Algeria durante la guerra per l’indipendenza dalla Francia, poi più avanti parteciperà al tentativo di costruire in Algeria uno stato socialista, assecondando il tentativo dei sovietici di mettere sotto controllo il paese – del resto la rivolta l’avevano pagata loro – con le sue riserve petrolifere e di gas naturali.

Dopo fece un lungo giro in Africa, pensando fosse il continente delle future rivoluzioni. Qui si trovò di fronte situazioni insopportabili per il suo punto di vista di argentino; ovvero reputava gli africani una schiatta umana arretrata e incapace di potersi sviluppare, dimostrando un fondo razzista nei loro confronti. Se ne andò anche da qui e come estremo tentativo di esportate la rivoluzione cubana, i suoi simboli e i suoi miti tornò in America Latina, ma era ormai troppo tardi.

Secondo la tradizione storiografica e politica latino-americana – di tipo bolivariano – il Sud America è una sola entità politica e sociale spezzettata in tante repubbliche diverse che mirano soltanto all’unità. Una nuova rivoluzione doveva fare del continente latino-americano un tutto unico che potesse essere un’alternativa agli Stati Uniti. Si trattava di un sogno ricorrente fin dagli inizi dell’Ottocento ma che non si era mai avverato.

Secondo la nuova ideologia, misto di castrismo e guevarismo, codificata dallo scrittore francese Regis Debray nel volumetto Rivoluzione nella rivoluzione, c’era una maniera nuova di concepire il marxismo e la rivoluzione marxista. Secondo questa nuova teoria del cosiddetto “Fuoco guerrillero”, elaborata a Parigi, la rivoluzione non si fa quando la classe operaia è arrivata alla maturità o quando un partito, come quello bolscevico, prende le redini del movimento rivoluzionario ma quando un piccolissimo gruppo di persone accende un fuoco in un punto del mondo che a poco a poco si allarga come un cerchio.

Come si vede è una teoria ancora più astratta di quella del colpo di stato leninista e del partito guida della classe operaia ma è quella che viene esportata come ultima notizia in campo rivoluzionario. Guevara decide così di partire alla volta della Bolivia, dove resta in attesa del momento buono e che si formino le condizioni oggettive per la rivoluzione.

Secondo me in realtà Guevara era in attesa di un’altra cosa: che avvenga a La Paz una trasformazione politico-militare molto simile a quella che un paio di anni prima era avvenuta in Perù; dove i generali e gli alti ufficiali dell’esercito peruviano si erano convinti che l’unico modo per sopravvivere e prendere il potere era di marxisteggiare e vestirsi di una ideologia rivoluzionaria per diventare in realtà un potere militare, come avvenuto anche nel caso di Castro all’Avana. I militari peruviani presero così il potere ma non riuscirono a resistere a lungo perché era molto difficile durare con simili idee in un continente dalla vita economica, sociale e politica assai diversa.

L’idea che circolava nella classe militare dell’America Latina, secondo la quale bisogna darsi una ideologia per conquistare il potere e che questa ideologia è marxista o comunista, finisce per frullare a lungo nelle teste dei militari degli atri paesi. In Bolivia, per esempio; ma anche in Brasile. Non bisogna poi dimenticare che anche i generali torturatori e oppressori della libertà in Argentina saranno imbevuti di questa idea.

Si presenteranno come generali di estrema destra ma avranno rapporti molto cordiali con l’Unione sovietica e con i servizi segreti sovietici. La mia impressione è che anche Guevara, nelle capanne di legno che gli furono messe a disposizione dai trafficanti di cocaina, stesse aspettando che anche a La Paz avvenga qualcosa del genere. Naturalmente dopo la cattura, l’uccisione di Guevara e la dispersione della sua banda, ci si affrettò a cancellare questa teoria però non va dimenticato che morto il “Che” il ministro degli interni del governo boliviano fuggì all’estero, presentandosi da Fidel Castro cui consegnò le mani del Guevara sotto formalina a dimostrazione che lui era stato dalla sua parte.

Il viaggio continuerà da l’Avana a Washington dove porterà la testa di “Che” Guevara alla Cia. In realtà non solo la fine di Guevara non fu eroica, fu infelice e triste come può esserlo quella di un uomo preso in trappola; ma fu il risultato di uno scontro interno nelle forze armate boliviane, una parte delle quali si comportava come il ministro degli interni: in gioco su diversi tavoli.

L’altra era composta da ufficiali superiori più giovani che misero insieme una force de frappe, come direbbe De Grulle; una unità di combattimento molto abile e addestrata nelle scuole americane, che scoprì il rifugio di Guevara, lo inseguì e in pochi giorni lo catturò e lo uccise. Questo procurò in qualche modo un danno psicologico, storico, militare e politico a quel Castro che era rimasto chiuso a l’Avana, impossibilitato ad aiutare l’amico Guevara perché i giovani ufficiali boliviani e naturalmente gli americani avevano tagliato le vie di comunicazione.

Castro era incerto su cosa fare, non potendo intervenire trattenuto com’era per la giacca dai sovietici, che non avevano nessuna intenzione di salvare Guevara, ma spinto dalla voglia di fare qualcosa nel discorso funebre che scrisse per la morte del “Che”, con il tipico stile oratorio che ripete in continuazione la stessa frase come una giaculatoria, espresse da una parte il suo senso di colpa e dall’altra un dubbio sulla propria efficacia.

In realtà la morte di Guevara è anche la morte di Castro. A quel punto il sogno della rivoluzione latino americana che Castro ha portato avanti dal 1963 fin al 1967 fallisce e avviene, come ha scritto un autore americano, “La domazione di Castro”; titolo del libro che parafrasa Shakhespeare che scrisse “La bisbetica domata”. Sovietici e Stati Uniti si misero d’accordo per ridurre ai minimi termini Fidel Castro.

Già una volta fu salvato da un accordo tra Krusciov e Kennedy, quando per evitare lo scoppio della guerra atomica nel ’62 gli Usa si impegnarono per oltre cinquant’anni a non attaccare Cuba in cambio della sua emarginazione. Questo è uno dei fondamenti della politica degli Stati Uniti che dura ancora adesso e a cui gli Stati Uniti hanno mai contravvenuto.

Da quel momento Castro non sarà più un soggetto attivo della storia internazionale, come avrebbe voluto, ma a poco a poco e soprattutto dopo la grande sconfitta del tentativo di Guevara diventa quello che è stato chiaro per tanti anni: un mercenario. C’è la canzone di un cubano in esilio che dice che Castro ha venduto il sangue dei suoi soldati per un barile di petrolio. In realtà è proprio così.

Ha mandato le truppe cubane a combattere prima in Etiopia e poi in Angola dissanguando il suo esercito in guerre che non toccavano affatto gli interessi e la politica cubana per ricavarne in cambio forniture di petrolio, di generi alimentari e quattrini dall’Unione Sovietica. Non bisogna dimenticare che in Angola le truppe cubane facevano anche la guardia ai pozzi di petrolio delle grandi società americane.

Con la perestroika Gorbaciov gli dirà che tutto è finito e che bisogna mettersi d’accordo con gli americani e con l’Occidente, così come dirà a Honeker che non ci saranno più due germanie. Honeker lo capirà perfettamente e se ne andrà mentre Castro si impunta e a partire da quel momento inizia il periodo più tragico e drammatico della storia cubana, con i cubani ridotti senza cibo, senza luce, senza petrolio e abbandonati a sé stessi; fino a che, poco per volta, Stati Uniti e Unione Europea trovano un sistema per far stare in piedi questo personaggio e il suo potere.

Chiunque di voi ha compiuto un viaggio di piacere a Cuba sa che là si vive in una atmosfera irreale e in una doppia realtà, con un aspetto ufficiale pieno di lustrini e di grandi parole e una società sottostante che fa affari più o meno sporchi e che vive in modo da costituire – quando Castro morirà – un potere molto somigliante ad una mafia di gangster.

Cognetti. In una America Latina controllata dagli Stati Uniti dal punto di vista economico, politico e – dagli anni ’60 e ’70 – anche militare, attraverso feroci dittature, possiamo considerare il “Che” Guevara, pur con le sue contraddizioni, il tentativo di realizzare un socialismo alternativo al Nord America e al comunismo castrista?

RIVA: No, non ci fu alcuna alternativa e che Guevara abbia rappresentato un’alternativa alla politica castrista e in realtà alla politica sovietica è un’altra delle illusioni. Guevara non era portatore di un socialismo avanzato; semmai era portatore di un socialismo più chiuso e arretrato, più dittatoriale e lontano dalle possibilità dello sviluppo di una economia non dico borghese ma neppure come quella che sarebbe potuta venir fuori dalla terza via dell’eurocomunismo, se ci fosse stata effettivamente una terza via.

Alla fine l’idea di Guevara era diventato un misto confuso di marxismo algerino, praticamente militare, e di ideologia cinese. I cinesi, quando lui andò a Pechino ad esporre le sue teorie, lo rifiutarono e lo cacciarono immediatamente dicendo che non avevano niente a che fare con lui e poi Guevara un progetto politico non lo ha mai avuto, tranne quello dell’accesso al potere manu militari. In tutti gli scritti che passano per scritti economici e filosofici di Guevara, e che in realtà sono gli scritti di un gruppo di suoi amici che si riunivano di notte nel ministero dell’economia per cercare di spiegargli cosa era l’economia, si esprimevano idee non corrette.

Insomma non c’era niente di tutto questo ma solo idee autoritarie e una grande confusione. Ciò rappresenta un altro dei fallimenti di Guevara. Che cosa è rimasto in realtà del “Che”? E’ rimasto il ricordo del sacrificio di un uomo che è finito tragicamente. Il libro più vicino alla figura di Guevara che ci è rimasto è quello intitolato Diario del Che in Bolivia, che racconta quasi giorno per giorno una esperienza disperata e che si è svolta in condizioni superiori alle sue forze e che poco a poco si disperde in una serie di scaramucce sempre più fallimentari e violente.

Quest’uomo vi rimane doppiamente sconfitto ma questa specie di Calvario è rimasto quasi un simbolo; il simbolo del sacrificio. In realtà è la perdita di una vita che poteva essere spesa in maniera migliore ma che lì si inchioda nella morte e nella sconfitta. Ciò è molto curioso, perché di tipici eroi così negativi nella storia non ce ne sono tantissimi.

Guevara rappresenta un caso estremo di totale negatività. Lui muore nella maniera che sappiamo: ferito, con i suoi dispersi, in fuga o morti; è catturato e messo in una scuoletta in attesa che venga l’ordine di ammazzarlo o processarlo. Ma di fare un processo a Guevara nessuno aveva l’interesse. Non l’avevano gli americani, non l’avevano i sovietici e neppure Fidel Castro, perché avrebbe messo in luce la mancanza da parte di Cuba di tentativi concreti di soccorso, l’ostilità dei russi e l’incertezza degli Stati Uniti.

Alla fine, quasi non ci fosse stata altra soluzione accettabile, il “Che” viene ucciso in maniera brutale e quasi burocratica. A suo modo un dramma moderno. Ma a partire da quel momento cosa succede? Che questo personaggio sconfitto esce dalla sua dimensione concreta e si avvia verso una strada surreale che lo porta a diventare quella immaginetta che vediamo oggi sulle bandiere sventolate dai ragazzi.

Mi sono appuntato una serie di avvenimenti che portano a questo esito curioso: da uomo a mito; ma un mito, direi, di carattere televisivo. Ci sono tre momenti, da quando Guevara appare sulla scena della politica internazionale, che sono molto ben caratterizzati. All’inizio, subito dopo che è diventato uno degli eroi positivi della vittoria della rivoluzione cubana, intorno a lui si scatena un interesse di carattere giornalistico, che nasce dalla decisione di un giornalista di fargli raccontare le sue esperienze.

E’ il momento iniziale in cui diviene membro del nuovo governo e viene intervistato dai giornalisti che arrivano da tutto il mondo. Chi ha un’età veneranda ricorderà un numero de L’Espresso del 1963 con un paginone dedicato all’intervista di Gianni Corbi a Guevara con una fotografia in cui il “Che” a torso nudo su un divano fuma una specie di pipa; una immagine quasi holliwoodiana.

Nell’articolo Gianni Corbi domanda: “Quali possono essere i vostri rapporti con gli Stati Uniti?”, e Guevara risponde: “Uccidere tutti gli americani al di sopra dei quindici anni”. E’ una frase che lasciò sconvolto Corbi e che ancora oggi risuona molto drammatica, se non fosse che qualcuno più di recente l’ha ripetuta in Medio Oriente. Questo è il primo impatto del Guevara.

In quello stesso periodo si cominciarono a pubblicare i suoi discorsi e brani della sua esperienza. Soprattutto un giornalista americano, John Gerassi, scrive un libro intitolato Vecchi scritti di Guevara, che ha raccolto qua e là e che miete negli Stati Uniti un notevole successo. Poi per trent’anni non se ne parla più. Soltanto allo scadere del trentennale della morte di Guevara, nel 1997, escono dei libri che cercano di capirne la figura storica.

Il primo è un volume molto coraggioso ma anche molto crudele di uno dei suoi luogotenenti, il cui nome di battaglia è “Benigno”. Questi pubblica a Parigi un libro di ricordi che si apre con la frase: “Scrivo questo libro per denunciare il mio distacco definitivo dall’ideologia castrista” ed è un testo con rivelazioni spesso scottanti sulla realtà umana di Guevara durante l’epopea boliviana, in cui è stato descritto come un comandante coraggioso che guida le sue truppe in modo da risparmiarle il più possibile dal fuoco nemico e allo stesso tempo come comandante severo che non esita a fucilare un ragazzetto per una lieve disobbedienza.

Ma anche un uomo confuso, che non sa bene dove andare e che spesso sbaglia strada. Insomma un libro dissacrante ma anche condito da un affetto cameratesco, in cui un commilitone descrive l’uomo in tutte le sue pieghe dopo aver condiviso una esperienza drammatica nella quale si poteva anche morire.

Questo libro apre la strada ad una serie di studi molto più approfonditi che sono stati preparati per alcuni anni nelle grandi case editrici nordamericane. Gli editori, pensando allo scadere del trentesimo anno dalla morte, hanno ordinato ai loro autori, per lo più giornalisti di grande qualità, per la prima volta una biografia di Guevara.

Alla fine escono solo due libri, uno di Handerson, giornalista americano molto bravo, e l’altro di Castañeda, un messicano pubblicato negli Stati Uniti. Allora c’era il gusto di scrivere biografie di sei-settecento pagine in cui raccontare fin nei minimi particolari la vita, interpellare tutti i testimoni e leggere tutti i documenti; dunque estremamente puntigliose dal punto di vista storico. Mentre il libro di Handerson tutto sommato cerca di dare una immagine positiva di Guevara, Castañeda dà una immagine molto più ombreggiata, sfaccettata e in qualche caso addirittura negativa.

I volumi hanno molto successo e diventano a loro modo “libri scandalo” poiché rivelano particolari che non si sapevano ma alla fine chiudono il cerchio e la possibilità di raccontare di questo personaggio sfuggente. Nessuno dei due tra l’altro riesce a caratterizzarlo in modo completo, perché Guevara è un personaggio che nella sua complessità e negatività sfugge continuamente.

Dopo il ’97 escono altri libri, soprattutto dopo il crollo del comunismo, più apertamente critici.Vorrei citare soprattutto un capitolo del libro di Regis Debray, filosofo althusseriano francese che cerca di dare una sistemazione filosofica al guevarismo. Debray molti anni dopo il precedente Rivoluzione nella rivoluzione, all’inizio del 2000, scrive un libro più generale sulla propria esperienza politica e giornalistica in cui dedica un capitolo a raccontare come la sua idea su Guevara e il guevarismo era sbagliata.

E’ un’autocritica molto feroce in cui Debray si mette in gioco fino in fondo, che io poi ho pubblicato in Italia per i tipi di una piccola casa editrice che allora dirigevo, la Vietti. Basta raccontare cosa successe dopo la pubblicazione di questo piccolo volume, che era un capitolo di un libro molto più grande tutto dedicato al rapporto tra Guevara e Castro e all’autocritica di Debray.

Ebbene, il libro lo pubblicai a Milano e cercai di fargli pubblicità ma fu resa vana dal fatto che dopo la pubblicazione Debray si prese paura e non venne in Italia, dicendo che se lo avesse fatto probabilmente qualcuno lo avrebbe fato fuori. Era esagerato ma dà l’idea del conflitto interno di questo scrittore, peraltro molto fecondo e prolifico. Di quel capitolo, dentro un libro più grande, poteva ancora assumersene la responsabilità ma tirato fuori dal contesto e pubblicato a sé gli face paura.

A partire da quel momento i libri su Guevara non hanno avuto successo, perché la gente non se ne occupa più. Non se ne occupa più perché egli diventa un personaggio dell’immaginario collettivo, che però evita di fare i conti con la storia e la verità. Da allora in poi non emerge più il vero Guevara, la sua storia e tutto quello che Handerson e Castañeda avevano cercato di tirare fuori da una vicenda complessa, ma diventa invece un figurino in cima ad una bandiera.

Da quello che ho detto faccio capire che non ho una simpatia sfrenata per Guevara se non dal punto di vista del tragico destino di un uomo, ma in qualche modo sono arrivato a lui perché quella “immaginino” che si vede sulle bandiere è una immaginino che io stesso ho scelto nel 1967. Prima ancora che Guevara morisse in quell’anno – che ricordo come uno dei più tragici della mia vita – andai per tre volte a Cuba insieme con l’editore Giangiacomo Feltrinelli, che ancora non aveva deciso di darsi alla guerriglia lui stesso.

Feltrinelli era tornato da un lungo viaggio negli Stati Uniti, in California, dove aveva conosciuto il movimento studentesco nord-americano scoprendo che una delle sue armi di propaganda erano dei grandi manifesti con le immagini dei rivoluzionari: Marx, Lenin, Stalin, Mao Tze Dong. Per questo andando a Cuba disse che avremmo potuto fare un manifesto su Guevara che era scomparso nel niente.

Andammo così a casa di un fotografo che prima della rivoluzione era stato un fotografo di Life, molto famoso per esser stato capace di fornire a quella rivista le più belle immagini di attrici e di modelle non solo cubane. Insomma un fotografo di moda; ma siccome dopo la rivoluzione un fotografo di moda di Life all’Avana non poteva sopravvivere, si era acconciato di malavoglia a fare anche il fotografo di cronaca e siccome era molto amico di Castro e di altri personaggi della nomenklatura lo portavano da tutte le parti, anche perché era quello che gli procurava le ragazze.

Andammo dunque a casa di questo fotografo, che era diventato mio amico, e gli chiesi se tra le sue cose ci fosse anche una fotografia di Guevara, perché volevamo farne un manifesto. Lui si spaventò e disse che avrebbe anche potuto rimetterci la testa e che occorreva un permesso di Fidel Castro. Io insistetti e cominciammo a vedere nei assetti, da cui uscirono fotografie “sovietiche”, con Guevara impomatato, con la divisa, la cravatta e così via.

Tutte cose che se messe su un manifesto che avrebbero dovuto potare in giro i ragazzi del movimento studentesco in Italia avrebbero fatto ridere. Ci voleva qualcosa di più vivace e la scoprimmo in una foto di gruppo che mi pare fu scattata in occasione di una esplosione avvenuta a bordo di una nave carica di esplosivi proveniente dal Belgio e attraccata all’Avana nel 1960, che fece una infinità di morti. Tra le autorità che accorsero c’era anche un gruppo di personaggi della nomenklatura cubana, dietro ai quali – in un angolino della fotografia – c’era anche Guevara.

Dissi a Corda, così si chiamava il fotografo, di ingrandire quel particolare e venne fuori l’immagine che oggi tutti guardano. Fece ancora molta resistenza e ricordo che Feltrinelli gli lasciò duecento dollari, perché il fotografo non potesse dire che l’avevamo rubata. Anche la storia di questa immagine è simbolica, perché ritrae un Guevara preso alla sprovvista, quasi fosse rubata.

Dopo questa fotografia divenne una immagine per tutti i movimenti dal ’68 in poi ma fu aspramente osteggiata dalle autorità cubane che non ne volevano sentir parlare. Per loro il Guevara vero era quello con la cravatta, i capelli con la brillantina e la divisa a posto; quello in mostra in cima ad uno dei palazzi della Piazza della Rivoluzione all’Avana. Questa nostra invece per dieci o quindici anni non è mai stata permessa a Cuba.

Col crollo dei rapporti tra Castro e l’Unione sovietica Fidel sente improvvisamente di dover tornare a Guevara come immagine di indipendenza e si mette in testa di costruire un mausoleo a Santa Clara, adoperando questa immagine per proporne un nuovo mito, quasi un culto religioso. Tanto più è svuotata di realtà tanto più questa immagine diventa oggetto di culto e ci sono discorsi di Castro, in quel momento così drammatico per lui e per il suo potere, abbandonato com’è da tutti, in cui viene fuori la parte più antica e nascosta della sua mentalità.

Ho già detto che il discorso con il quale si presenta in tribunale nel 1956 che lo condannerà per l’assalto alla caserma Moncada di Santiago si intitola La storia mi assolverà. Nell’ultima parte della sua vita Castro torna al mito del sangue e della terra, che viene utilizzato come immagine della resistenza al di là del sacrificio della rivoluzione cubana; peraltro il sacrificio dei disgraziati che vivono a Cuba e non certo di Fidel Castro.

La trascrizione non è stata rivista dal relatore che è scomparso il 24 maggio 2004.

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