Israele. Autorità palestinese: troppe le ferite ancora aperte

israele_palestinaArticolo pubblicato su Mondo e Missione
n° 10 anno 2001

Camille EidCarlo Remeny

Ad oltre un anno dall’inizio della sanguinosa sollevazione popolare palestinese contro l’occupazione israeliana, appare evidente che la soluzione ai problemi non potrà essere militare.  Israele non è in grado di domare con il terrore una rabbia diffusa nei suoi confronti. Come è altrettanto vero che nessuna lotta di liberazione può illudersi di conquistare il successo ricorrendo solo agli strumenti militari.

Ciò premesso, il rischio è che i territori occupati continuino a bruciare, provocando morti, distruzioni, tensioni a livello regionale e mondiale e si arrivi, da qui a pochi anni, a vedere contrapposti uno Stato d’Israele provato dal terrore per gli attacchi continui e un’Autorità palestinese priva persino di Yasser Arafat per semplici ragioni anagrafiche.

A seguito delle azioni terroristiche del settembre scorso, è emersa con forza la necessità di trovare una soluzione ragionevole al problema palestinese. Ne hanno parlato gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, lo stesso presidente del Consiglio italiano. Nessuno ha indicato però con chiarezza quale potrebbe essere il percorso e dove si dovrebbe approdare. Quali sono gli ostacoli?

Lo Stato ebraico è restio ad accettare qualsiasi piano di pace che vada a intaccare la situazione creata dalla sua politica di occupazione della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est. Gli accordi di pace di Oslo del 1993 rimandavano alla fase finale delle trattative ogni questione spinosa.

Fu così che di rinvio in rinvio si giunse al drammatico vertice di Camp David, nell’estate 2000, dove Bill Clinton, prima di congedarsi dalla Casa bianca, tentò il tutto per tutto per arrivare a un accordo veramente storico tra israeliani e palestinesi. Si è detto che in quel vertice, durato a lungo, il premier Ehud Barak sia giunto a fare offerte che mai un altro israeliano si sarebbe sognato di fare a un palestinese. Se fosse vero, dovremmo prepararci a una guerra senza fine tra Stato d’Israele e popolo palestinese.

Ma quali sono allora i punti che i palestinesi ritengono irrinunciabili per avviare un negoziato credibile? Sono il diritto al ritorno dei profughi in Palestina, sancito da una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu nel dicembre 1948, lo smantellamento degli insediamenti ebraici all’interno dei territori che verranno resi ai palestinesi, territori che non possono essere di molto inferiori a quelli occupati nel 1967, e la cui restituzione è prevista da risoluzioni Onu, quindi una continuità territoriale sotto l’egida del futuro governo palestinese in Cisgiordania, e la condivisione di Gerusalemme.

Israele, per quel che concerne i profughi, ha replicato finora con un secco no, perché il loro ritorno comprometterebbe gli equilibri etnici. Secco no anche allo smantellamento degli oltre 150 insediamenti, in cui risiedono circa 200 mila coloni, che si rivolterebbero contro lo Stato. La loro capillare presenza sul territorio palestinese è considerata come la migliore garanzia per la sicurezza dello Stato di Israele.

Ancora un no per quanto riguarda la restituzione dei territori occupati nel 1967 per ragioni militari e non solo, come la possibilità di conservare il controllo delle scarse risorse d’acqua, a cui Israele tiene in modo particolare. Infine, no alla condivisione di Gerusalemme, dichiarata capitale “eterna e indivisibile” dello Stato d’Israele, nella cui parte araba risiedono altri 200 mila ebrei.

Un anno abbondante d’intifada con un migliaio di morti, decine di migliaia di feriti anche gravissimi, danni economici incalcolabili da entrambe le parti (anche se è giusto sottolineare come l’80 per cento delle vittime e dei danni sia stata palestinese), ha creato un clima di intolleranza in Israele e nei Territori occupati come forse non si era mai visto prima. Decine di bambini sono stati assassinati, dei soldati israeliani sono stati linciati e dei feriti palestinesi sono stati finiti brutalmente da soldati israeliani inviperiti per la morte di un commilitone.

Una settantina di dirigenti politici palestinesi sono stati assassinati da parte israeliana in una sistematica campagna “di difesa attiva” che ha suscitato la condanna di tutta la comunità internazionale. È stato ucciso, per la prima volta nella storia dello Stato ebraico, anche un ministro israeliano, Rehavam Zeevi, responsabile per il turismo, noto per aver sostenuto nel corso della sua lunga carriera politica la necessità di trasferire nei Paesi arabi la popolazione palestinese di Gaza e Cisgiordania: una sorta di pulizia etnica.

Attentati in discoteche e pizzerie israeliane e massacri nei villaggi palestinesi, con rioccupazione delle città dell’Autorità palestinese, si sono susseguiti in questi mesi.

Ci si è aggrappati per mesi al cosiddetto “Piano Mitchell”, dal nome dell’ex senatore americano che ha guidato una commissione d’inchiesta internazionale nei Territori, per tentare di arginare la violenza. Ma è apparso evidente che priorità e obiettivi da parte israeliana e palestinese erano completamente differenti.

Sharon voleva e vuole tuttora la fine dell’intifada, l’arresto degli attivisti che l’hanno guidata, la punizione di quelli che hanno compiuto operazioni anti-israeliane; solo dopo sarebbe disposto a discutere del congelamento degli insediamenti, previsto dal Piano. Intanto, però ha fatto sapere, attraverso un’intervista a un quotidiano britannico, l’intenzione di portare un altro milione di ebrei della diaspora in Israele.

Si vocifera che il governo israeliano, in modo particolare il ministro degli Esteri Peres, potrebbe essere disposto a riconoscere uno staterello palestinese sull’area della striscia di Gaza, dove vivono circa 1 milione e 100 mila palestinesi e da dove 6.500 coloni potrebbero essere evacuati senza gravi rinunce.

A quest’area Arafat dovrebbe poter aggiungere le enclave palestinesi già amministrate in Cisgiordania. Da qui la voce insistente che vorrebbe imminente l’annuncio di uno Stato palestinese, smentito tuttavia dallo stesso Arafat. Un progetto di questo genere, se dovesse essere accettato dall’Autorità palestinese, porterebbe a una guerra civile.

Interrogato di recente dalla Bbc, Marwan Barghouti, uno dei leader che si sono affermati durante questa intifada, e che tra l’altro è anche il segretario del partito di Arafat in Cisgiordania, ha dichiarato che la rivolta durerà fino al raggiungimento del suo obiettivo: la liberazione dei Territori occupati e la nascita di uno Stato palestinese indipendente. Se ciò dovesse essere vero, Israele non rischia di essere sopraffatto militarmente, ma piuttosto corre il pericolo di diventare un problema grave sia per i suoi stessi cittadini che per la comunità internazionale, Stati Uniti compresi.

Un problema per i cittadini israeliani che già adesso non si sentono abbastanza protetti, chiedono il pugno di ferro e nei sondaggi rispondono a stragrande maggioranza di approvare la politica di assassinio dei dirigenti palestinesi.

Ma emerge anche il problema di quanta democrazia Israele sia disposto a concedere a quel 20 per cento della popolazione che è di origine araba e che viene già pesantemente discriminata da una serie di leggi. Ricordiamo, tra gli altri, il diritto di espropriare i terreni arabi, il divieto agli arabi di svolgere servizio militare e di conseguenza l’accesso agli studi superiori gratuiti.

Non vanno poi dimenticati altri episodi che hanno fatto alzare il tono dello scontro: la revoca dell’immunità a un deputato arabo eletto al Parlamento israeliano per aver espresso simpatia agli Hezbollah libanesi; la richiesta di togliere il documento di residenza israeliano alla palestinese (cristiana) Hanan Ashrawi, residente a Gerusalemme Est e portavoce della Lega Araba; la proposta di legge per impedire la partecipazione alle elezioni a partiti arabi che appoggiano la lotta contro Israele e infine il massacro di 13 arabo-israeliani compiuto nell’ottobre 2000 dai poliziotti israeliani.

Ci sono in ultimo le pesanti conseguenze internazionali della mancata soluzione alla controversia israelo-palestinese, con gli Osama Bin Laden di turno che hanno gioco facile a richiamare alla memoria che in Palestina da oltre 50 anni dura una situazione d’ingiustizia a cui sembra non si voglia porre rimedio.

Cronologia

2000

28 settembre. Visita provocatoria di Ariel Sharon sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme. Scoppia la seconda intifada.
16-17 ottobre. Per fermare la violenza, vertice a Sharm el-Sheikh, in Egitto e creazione di una commissione d’inchiesta guidata dal’ex senatore Usa Mitchell.
9 dicembre. Ehud Barak annuncia le sue dimissioni da premier.

2001

28 gennaio. Fallimento, dopo una settimana di trattative, dei negoziati di Taba (Egitto).
6 febbraio. Vittoria elettorale di Sharon. Porterà alla formazione di un governo di unità nazionale in Israele.
27 marzo. Veto americano al dispiegamento di un forza di protezione dei palestinesi nei Territori.

4 maggio. Il “Piano Mitchell” preconizza la fine della violenza e il blocco delle colonie per la ripresa dei negoziati.
1 giugno. Un kamikaze provoca 20 morti in una discoteca di Tel Aviv.
13 giugno. Entra in vigore il cessate il fuoco ottenuto da George Tenet, capo della Cia.
9 agosto. Attentato contro una pizzeria di Gerusalemme: 17 morti .
28 agosto. Incursione israeliana all’interno dei Territori autonomi palestinesi.
12 settembre. All’indomani degli attentati terroristici in America, l’esercito israeliano sospende tutte le “operazioni offensive” contro i palestinesi, mentre Arafat proclama il cessate il fuoco.
26 settembre. Primo incontro Arafat-Peres in tre mesi. Il premier Sharon chiede il blocco totale della violenza per dare il suo assenso alla riunione.