Non è cattivo, lo disegnano così

Robert Mugabe

Robert Mugabe

Articolo pubblicato su Tempi n.38 del 2002

Robert Mugabe, padre-padrone dello Zimbabwe, sta trascinando il suo paese nell’abisso. Ma i terzomondisti italiani danno la colpa al neo-liberismo e alle multinazionali. Con argomenti falsi

di Rodolfo Casadei

Ha trasformato quello che era il granaio dell’Africa australe in un paese dove 6 milioni di esseri umani sono sull’orlo della morte per fame. Ha organizzato una violenta campagna di occupazione delle terre dei grandi proprietari e decretato l’espulsione dei coltivatori bianchi, provocando negli ultimi due anni la perdita di 250 mila posti di lavoro neri nelle campagne e il crollo della produzione del mais, principale genere di consumo alimentare, da 1,5 milioni di tonnellate a 0,5.

Ha portato il tasso di disoccupazione nazionale al 60%. Ha regalato al paese una contrazione del 23% del Pil nel giro di tre anni, di cui un 11% previsto per la fine di quest’anno; ha spinto l’inflazione annua al 117%.In sei anni ha fatto perdere al paese il 40% delle sue esportazioni e accumulato arretrati di pagamenti esteri per 1,8 miliardi di euro.

Ha sprofondato i tre quarti della popolazione (nera) sotto la linea della povertà assoluta. Ha sbriciolato il reddito nominale pro capite, che ormai è la metà di quello che il paese poteva vantare il giorno della proclamazione dell’indipendenza (500 dollari circa contro i 900 del 1980).

Ha vinto le elezioni presidenziali del 13 marzo scorso grazie a brogli organizzati su larga scala, minacce, intimidazioni, aggressioni, torture, omicidi e tutto l’armamentario dello squadrismo politico. Dalle elezioni politiche del 2000 ad oggi le violenze politiche da lui sponsorizzate hanno causato più di 100 morti, dei quali solo 10 erano farmer bianchi, tutti gli altri essendo braccianti neri che non accettavano le invasioni delle terre dei proprietari bianchi per i quali lavoravano e militanti del Mdc (Movimento democratico per il cambiamento), il partito di opposizione.

Ha varato leggi che mettono la museruola alla stampa indipendente, mentre si è assicurato il controllo totale di Tv e radio (l’ultima radio libera, che con un escamotage tecnico riusciva ancora a trasmettere, è stata silenziata con una bomba).

Ha distribuito fra parenti e pretoriani del regime le fattorie più redditizie espropriate ai grandi coltivatori e mostrato la massima negligenza nei confronti delle migliaia di piccoli coltivatori neri cui ha assegnato gli altri terreni, ma senza fornire loro credito, assistenza, irrigazione e gli altri mezzi essenziali per mantenere i tassi di produzione a livelli almeno prossimi a quelli dei proprietari precedenti.

Ha definito i gay «membra infette da amputare», Gorbaciov «un imbecille che ha svenduto il comunismo» e quello di Tony Blair «un governo gay di gangster gay». Robert Mugabe, 78enne presidente dello Zimbabwe, sembra ogni giorno di più dare ragione all’arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu, che qualche anno fa lo definì «quasi una caricatura di tutto ciò che di male la gente pensa degli africani».

Eppure in Italia nessun gruppo terzomondista, nessuna Ong di solidarietà e volontariato internazionale, nessun militante dei diritti umani protesta contro il suo regime o promuove campagne di boicottaggio; anzi: cercano tutti di sminuire le sue responsabilità o addirittura di giustificarlo.

“E’ cattivello, ma sfida il sistema neocoloniale”

Quando l’affossatore dello Zimbabwe ha avuto la sfrontatezza di venire in Italia nel giugno scorso per partecipare al Summit della Fao sulla fame nel mondo, nessun No Global e nessun terzomondista si è sentito in dovere di manifestare contro di lui. Troppo impegnate ad accusare il “neoliberismo” e la “globalizzazione” per gli 800 milioni di affamati nel mondo e a polemizzare col presidente del Consiglio che aveva definito “irrealizzabili” alcune loro proposte, le Ong italiane si sono ben guardate da promuovere azioni, fossero pure simboliche, contro un affamatore acclarato.

A protestare sotto le finestre dell’ambasciata dello Zimbabwe a Roma, dove pareva Mugabe si fosse trasferito dall’Hotel Excelsior, sono state due persone appena: un attivista gay britannico e una militante nera del Mdc.

Molto indulgente con Mugabe è l’organizzazione Chiama l’Africa, che riunisce Ong, gruppi terzomondisti e anche istituti e centri missionari. In un articolo sul suo sito Internet dal titolo “Zimbabwe: non ci sarà pace sociale senza giustizia economica”, giustifica l’agire poco ortodosso del despota con la considerazione che «le intimidazioni e la violenza politica con cui ha condotto l’ultima campagna elettorale coincidono oggi con il rischio concreto di veder crollare il sistema economico neo-coloniale e di veder intaccati non solo gli interessi dei farmers bianchi, ma anche quelli di importanti multinazionali del settore agro-alimentare» e che «chi lo condanna per condannare implicitamente l’idea stessa della riforma agraria ridistributiva è responsabile almeno quanto lui della crisi devastante che attraversa il paese».

La rivista Solidarietà Internazionale, organo del Cipsi, una confederazione di Ong di sinistra, alcune di ispirazione cristiana, pubblica un lungo articolo sotto l’insinuante titolo “Ma è proprio così cattivo Mugabe?”.

L’autore, Francesco Pierri, è un conferenziere di Chiama l’Africa. La tesi del pezzo è che il disastro economico dello Zimbabwe non è responsabilità diretta del clientelismo e dell’incompetenza di Mugabe, ma delle politiche liberiste introdotte negli anni Novanta e dall’ostruzionismo dei proprietari bianchi e della comunità internazionale nei riguardi della redistribuzione delle terre ai neri.

Le cose sarebbero andate così: per dare la terra ai neri poveri il governo avrebbe «programmato su larga scala gli espropri, nei termini previsti dalla nuova legislazione, cercando di identificare i terreni su aree incolte. La Cfu, sindacato delle aziende agricole bianche, ha sempre opposto una strenua resistenza al dialogo e organizzato una potentissima campagna di stampa internazionale.

Nel 1999 il governo ha sospeso temporaneamente il programma “accelerato” di redistribuzione per ridiscutere con la Cfu e i donatori internazionali i termini e le procedure, ma quel tentativo come tutti gli altri è naufragato tra le reciproche recriminazioni».

Chi ha sabotato la riforma fondiaria

Tutto ciò che avete letto fra virgolette è falso. A non avere mai cercato di affrontare seriamente la questione della redistribuzione delle terre non sono stati i coloni bianchi o i donatori internazionali, ma Mugabe stesso e i suoi compagni. Se il presidente avesse voluto procedere veramente ad un programma serio, con prospettive di successo e appoggiato dalla comunità internazionale, già in due circostanze avrebbe potuto farlo: la prima nel settembre 1998, all’indomani della conferenza internazionale di Harare, e la seconda nel settembre 2002, sulla base del cosiddetto «accordo di Abuja».

Nel settembre 1998, dopo che Mugabe aveva già minacciato più volte di espropriare le fattorie commerciali senza indennizzo (sulla base del concetto che all’indennizzo doveva semmai provvedere la Gran Bretagna, ex potenza coloniale), la comunità internazionale indicò formalmente la sua disponibilità a sostenere un programma di redistribuzione delle terre ad una sola condizione: che si trattasse di un piano serio, diversamente da quelli del passato che erano naufragati nella corruzione e nella disorganizzazione.

A Mugabe che proponeva irrealisticamente l’insediamento di 150 mila famiglie su 12 milioni di acri di terra nel giro di cinque anni, venne risposto che un pool di donatori era pronto a finanziare un piano di acquisizione di 118 fattorie su 700 mila acri che i coloni erano già disposti a vendere. Il programma doveva essere realizzato in due anni, e se fosse riuscito bene sarebbe stato ampliato.

Per realizzarlo sarebbe stata costituita un’Unità tecnica di supporto finanziata dal Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo). Il governo dello Zimbabwe accettò. Due settimane dopo si riunì un meeting consultivo di donatori che comprendeva Pnud, Banca Mondiale, Fao, Unione Europea e rappresentanti di otto governi nazionali fra cui quelli di Usa e Regno Unito per gettare le basi del programma.

Ma il governo di Harare cessò improvvisamente di collaborare, l’Unità tecnica non venne costituita, e in novembre il ministro dell’agricoltura annunciò senza preavviso l’esproprio di 841 fattorie che non c’entravano nulla con gli accordi di settembre. Ancora più clamoroso il sabotaggio governativo dell’accordo di Abuja, concluso in sede di Commonwealth nel settembre dello scorso anno all’apice di una crisi drammatica iniziata nel febbraio del 2001 con l’invasione di centinaia di fattorie (circa 1.800) da parte di militanti dello Zanu-Pf e sedicenti ex-combattenti della guerra di liberazione.

Nella capitale nigeriana il Commonwealth aveva raggiunto un accordo che prevedeva il finanziamento del programma di redistribuzione delle terre da parte del Pnud e della Gran Bretagna in cambio di alcuni impegni da parte del governo dello Zimbabwe: l’impegno a non tollerare nuove occupazioni di terre, a cancellare dall’elenco delle fattorie da espropriare tutte quelle che non erano inseribili in un serio progetto di redistribuzione a breve termine (Mugabe era arrivato a inserire ben 5 mila delle 6 mila fattorie commerciali esistenti nella lista ufficiale), a trasferire gli occupanti delle terre dalle fattorie cancellate a quelle legalmente acquisite e a «ripristinare lo Stato di diritto all’intero processo del programma di riforma della terra».

Si trattava di una notevole inversione di rotta da parte di Mugabe, che fino a quel momento aveva apertamente giustificato le invasioni e dato ordine alla polizia di non intervenire (egli era stato in realtà il regista occulto dell’operazione, decisa ai massimi livelli dopo le elezioni legislative del 2000). Ma anche stavolta l’impegno non venne mantenuto: le occupazioni illegali di fattorie proseguirono e nel mese di novembre un decreto presidenziale decretò l’esproprio di tutte le fattorie dei coloni senza indennizzo e l’obbligo di abbandonare la proprietà entro 90 giorni, a prescindere da qualunque ricorso legale.

Questa è la vera ricostruzione degli avvenimenti. Ma i terzomondisti di casa nostra preferiscono mistificare o girare la testa dall’altra parte. Vadano a fare i girotondi, con gli altri 180mila ipocriti come loro.