Schio, la strage dimenticata

schio_lapideRadici cristiane n.94 maggio 2014

La notte del 6 luglio 1945 un gruppo di ex partigiani e di membri della “polizia ausiliaria” affamati di “giustizia proletaria”, fece irruzione nel carcere di Schio con l’intento di passare per le armi i “fascisti” detenuti. In realtà, già s’era accertato come molti fossero stati arrestati per errore. Ma questo non fermò le armi: il bilancio fu agghiacciante, 54 morti e 17 feriti, di cui 11 gravi. Gli autori dell’eccidio sostanzialmente sfuggirono alla Giustizia o pagarono un conto eccezionalmente basso. Mentre le vittime sono oggi ricordate solo da una generica lapide “immemore” dell’accaduto.

di Paolo Deotto

II 6 luglio del 1945 la guerra era già finita da oltre due mesi. Ma non per tutti. Non era finita per chi ancora conservasse le armi e si considerasse a tutti gli effetti in grado di amministrare la “giustizia”. E la guerra non era finita neppure per tutti quelli che non fossero stati abbastanza pronti a saltare il fosso oppure semplicemente fossero sfiorati dal sospetto di “essere stati fascisti”. Erano giorni in cui la pelle valeva due soldi. Non è mai stato compilato un esatto elenco dei morti ammazzati nella sbrigativa “giustizia partigiana” o con gli improvvisati “tribunali del popolo” o con le azioni dirette di chi ammazzasse senza neanche la preoccupazione di darsi la giustificazione formale di un “processo” fasullo. Le stime variano da 5.000 a 20.000 uccisioni, per la quasi totalità nel Nord Italia, nel periodo che va dal 25 aprile 1945 alla fine dell’anno, ma con code significative che si prolungheranno fino al 1949. Gli Alleati stimarono allora in “circa 10.000” il numero degli omicidi.

SCHIO, PROVINCIA DI VICENZA

Schio, provincia di Vìcenza. Nel carcere locale si trovavano 99 detenuti, 8 di questi imprigionati per reati comuni. Gli altri 91 sono “politici”: persone arrestate, perché accusate di collusione col regime fascista. Erano in corso gli accertamenti delle responsabilità individuali e per alcuni di essi era già stata riconosciuta l’illegittimità dell’arresto: non erano ancora stati scarcerati solo perché la burocrazia, già lenta in tempi di normalità, era lentissima in quelle giornate di confusione.

Schio era governata ufficialmente da un sindaco comunista, Domenico Baron, eletto, come tutto il consiglio comunale, dal CLN. Il potere militare era esercitato dagli Alleati, rappresentati dal capitano inglese Stephen Chambers. Questi dovette scontrarsi subito con un problema comune a tutte le zone in cui avevano operato formazioni partigiane comuniste (le “Brigate Garibaldi”): l’ordine di smobilitazione e la conseguente consegna delle armi agli Alleati vennero rispettati solo in parte. Fu concessa la costituzione di una limitata forza armata, la “Polizia ausiliaria partigiana”, che dovette contribuire al mantenimento dell’ordine insieme ai militari alleati e ai pochi carabinieri in forza presso la locale stazione. Quale potesse essere l’affidabilità di una tale “polizia”, costituita da ex partigiani comunisti (seppur scelti tra quelli, che sembravano i meno estremisti), è facile immaginare.

La situazione tra gli Alleati e i partigiani ancora in armi fu quindi tutt’altro che di leale collaborazione. Si aggiunga a ciò il ritorno in miserevoli condizioni di cittadini scledensi detenuti in campi di concentramento tedeschi, che suscitò desideri di vendetta, nonché l’annuncio, da parte del capitano Chambers, dell’imminente scarcerazione dei detenuti per i quali non fossero state formulate accuse precise entro pochi giorni: da qui, si ha il quadro di una situazione esplosiva, sulla quale i comunisti, già appartenenti alla formazione garibaldina (ossia comunista) “Divisione Ateo Garemi”, speculavano per continuare la “loro” guerra, che non consideravano certo terminata al 25 aprile, perché c’erano ancora i conti da regolare con i “borghesi”, per instaurare l’immancabile paradiso comunista.

LA STRAGE

In questo clima avvelenato dall’odio maturò uno degli episodi più vergognosi della guerra civile. Dovremmo dire del dopoguerra, benché la guerra civile, per i motivi sopra descritti, non fosse ancora conclusa.

La notte del 6 luglio 1945 un gruppo di ex partigiani e di membri della “polizia ausiliaria”, desiderosi di fare una spiccia “giustizia proletaria” prima che il capitano Chambers ordinasse eventuali scarcerazioni, fece irruzione nel carcere mandamentale di Schio con l’intento di passare per le armi i “fascisti” detenuti. Qui si pose il primo problema: non esisteva un elenco di “fascisti”; l’unica certezza erano gli 8 detenuti per reati comuni. Gli altri erano indicati genericamente come “politici”, ma senza una specifica dei reati precisi loro ascritti; alcuni — come fu riconosciuto – furono arrestati per errore.

Tra i due comandanti la spedizione — Igino Piva (“Romero”) e Valentino Bortoloso (“Teppa”) -e gli altri partigiani sorse una discussione sul criterio con cui scegliere chi uccidere. Alcuni proponevano di risparmiare le donne, altri preferirono allontanarsi dal carcere per non compromettersi. Dopo una confusa cernita, la gran parte dei detenuti, uomini e donne, furono ammassati in uno stanzone al primo piano del carcere e falciati a raffiche di mitra.

Il risultato fu agghiacciante: 54 morti e 17 feriti, di cui 11 gravi. Alcuni si salvarono solo perché trovarono riparo sotto il mucchio delle vittime. Fu un sacerdote, Don Mario Brun, il primo ad accorrere sul luogo dell’eccidio: il sangue colava addirittura per le scale, lo stanzone era sporco di sangue fin nel soffitto. I primi soccorritori furono costretti dai partigiani, armi alla mano, a gettare le barelle. Poi i “giustizieri” si allontanarono e si potè iniziare la dolorosa opera di soccorso dei feriti e di conta dei morti. La strage suscitò un’eco enorme, non solo in Italia ma nel mondo. Il generale Dunlop, comandante delle forze Alleate del Veneto, il mattino dell’8 luglio dichiarò al consiglio municipale di Schio: «E’ mio dovere dirvi che mai prima d’ ora il nome dell’Italia è caduto tanto in basso nella mia stima».

Le autorità alleate aprirono un’inchiesta, affidata agli investigatori John Valentino e Therton Snyder. In due mesi di indagini questi identificarono quindici dei presunti autori della strage; otto di questi ripararono in Jugoslavia prima dell’arresto, sette vennero arrestati. Il processo istituito dalle autorità militari alleate si svolse nell’autunno del 1945. La Corte militare alleata, presieduta dal colonnello americano Beherens, assolse due degli imputati presenti e condannò gli altri cinque; tre di essi furono condannati a morte, due furono condannati all’ergastolo, altri tre imputati furono condannati in contumacia a ventiquattro e a dodici anni di reclusione (le condanne a morte verranno commutate nel carcere a vita dal capo del governo militare alleato, il contrammiraglio Ellery Stone).

SOLO UNA TARGA GENERICA

Il Partito Comunista e la Camera del Lavoro condannarono subito la strage, sostenendo che era stata compiuta da “provocatori trotzkisti”. Una formula, quella dei “provocatori”, sempre efficace quando i comunisti dovevano salvare la faccia al Partito. Però, come ci ricorda nelle sue Memorie Massimo Caprara, quando tre degli assassini di Schio si presentarono al Ministero della Giustizia, allora presieduto da Palmiro Togliatti, per chiedere aiuto, questi non pensò assolutamente a farli arrestare. Si seccò solo perché i tre erano venuti al Ministero («Qui, nel tempio della cosiddetta giustizia borghese»), poi ordinò al suo segretario Caprara di organizzare la fuga degli assassini a Praga. Altri avevano già trovato rifugio in Jugoslavia.

Il 25 luglio 1999 Silvio Bertoldi, in un articolo sul Corriere della Sera, ricordando la strage di Schio, faceva notare come fosse uno degli innumerevoli episodi di violenza comunista sui quali era stato “obbligatorio” far calare il silenzio. Nel suo articolo Bertoldi forniva l’elenco completo dei partecipanti alla criminale spedizione: Valentino Bortoloso, Gaetano Caneva, Antonio Fochesato, Renzo Franceschini, Aldo Santacaterina, Ermenegildo De Rizzo, Narciso Manca, Giovanni Broccardo, Italo Ciscato, Bruno Micheletti, Bruno Scortegagna, Ruggero Maltauro, Igino Piva, Gaetano Pegoraro, gli ultimi tre ideatori e organizzatori del massacro. Per precisione, è bene specificare che il Maltauro era stato addirittura membro della polizia ausiliaria di Salò, rapinatore e nel contempo partigiano della divisione “Garemi”. Insomma, il più emblematico nel gruppo di quel tipo umano, fondamentalmente ammalato di violenza, e che nel clima di guerra trova modo di sfogare i peggiori istinti.

Bertoldi nella chiusa del suo articolo auspicava che finalmente a Schio fosse posta almeno una targa commemorativa di quelle povere vittime innocenti (ancora pochi anni prima il rappresentante in consiglio comunale del Partito di Rifondazione Comunista si era opposto).

Ci vollero però altri dieci anni: solo il 17 maggio del 2009 fu apposta la targa commemorativa, fatta però in modo quanto mai farisaico: un elenco dei nomi delle vittime, senza alcun riferimento all’eccidio, ma con la scritta «A suggello del patto di concordia dell’anno 2005». E “Patto di concordia” era stato voluto dall’ANPI (l’associazione dei partigiani comunisti), che graziosamente consentiva l’apposizione della targa, specificando però che «La strage di Schio non deve essere il pretesto per manifestazioni fasciste». Fuori dal linguaggio retorico e ipocrita, ciò voleva dire che i comunisti non si opponevano alla targa, purché si impedissero le cerimonie commemorative, in cui magari si ricordasse la responsabilità comunista nel crimine… insomma, l’immagine oleografica del partigiano comunista buono, bravo, giusto e valoroso, non si poteva intaccare, nemmeno a decenni di distanza, nemmeno in un paese in cui tutta la popo­lazione sapeva quanto fosse accaduto.

Vale solo la pena aggiungere che la strage di Schio fu oggetto di altri due processi, dopo quello del tribunale militare alleato. Il secondo processo si tenne nel 1952 a Milano e il terzo nel 1956 a Vicenza. Quest’ultimo processo peraltro fu celebrato solo per accertare le responsabilità in merito ai ritardi nella trasmissione degli ordini di scarcerazione, di cui parlavamo all’inizio.

Tra rifugiati in Cecoslovacchia, rifugiati in Jugoslavia e beneficiari dell’amnistia Togliatti, promulgata con decreto presidenziale 22 giugno 1946, quasi nessuno pagò realmente per l’orribile strage. Solo a Ruggero Maltauro, restituito dalla Jugoslavia dopo la rottura col Comintern, non fu applicata l’amnistia e venne condannato all’ergastolo, ma restò in prigione solo per pochi anni.

Ora la strage di Schio non è più “top secret” a tutela della verginità del partito comunista. Se ne parla, se ne scrive. Ma l’unico documento pubblico “ufficiale” è quella surreale targa: un elenco di 54 nomi. Uccisi da chi? Quando? Per quali ragioni? Mah! Meglio non parlarne…

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