Chi ha paura della scuola libera?

choicheTempi n.18 – 7 Maggio 2014

Charles Glenn, esperto mondiale di sistemi educativi: «Per arginare lo Stato serve un modello come le charter school statunitensi. I cattolici? Prima di combattere la secolarizzazione dovrebbero riflettere su cosa insegnano»

Mattia Ferraresi

Si fa presto a dire libertà di educazione, principio a tal punto intoccabile quando ci si muove nello spazio senza gravità delle pure idee che anche la burocrazia sopranazionale non manca di ammetterlo nella Dichiarazione universale dei diritti umani, nella Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali e in decine di incartamenti belli e fumosi. Si fanno più complicate le cose quando il principio deve tradursi nella pratica terragna delle decisioni politiche, degli ordinamenti, quando tocca contemperare diritti che confliggono, trovare compromessi e far precipitare concetti chiari e distinti come “autonomia”, “merito”, “responsabilità” e “qualità” nel complicato reame delle cose perfettibili.

Per tacere poi dei delicatissimi rapporti fra Stato, società civile e mercato quando si tratta di educazione. Come dev’essere la scuola? Pubblica, privata, parificata, charter, mista, unica, plurale, religiosa, secolare, obbligatoria, for profit, sindacalizzata? Bisogna virare verso l’homeschooling, dividere i maschi dalle femmine, abolire i voti, imporre il grembiule?

Su queste traduzioni del concetto di libertà di educazione il consenso diventa irrimediabile divisione, ma anche potenziale propulsore di soluzioni alternative. Liberiamo la scuola, il recente pamphlet in cui Andrea Ichino e Guido Tabellini propongono di affidare le scuole pubbliche alla gestione di soggetti della società civile, sottraendole all’inefficiente Stato centrale – sul modello delle charter school americane –, ha attirato molti complimenti teorici e molto silenzio pratico. Perché fra sindacati, graduatorie, reclutamento centralizzato degli insegnanti, burocrazia diffusa e l’immancabile retaggio moderno dello Stato che eroga servizi in modo esclusivo e con rigoroso spirito egalitario (e pazienza per la liberté), riformare l’immobile sistema scolastico, in Italia, è un’impresa che fa sembrare la soglia del 3 per cento nel rapporto fra deficit e Pil un obiettivo facilmente abbordabile.

Quando il privato è pubblico

Le idee ragionevoli e moderate di Ichino e Tabellini mettono il dito in una delle ruote principali del gigantesco ingranaggio scolastico, quella che riguarda i soggetti titolati a offrire un servizio educativo finanziato dal contribuente. Se nessuno è profeta in patria, i profeti bisogna cercarseli all’estero, e il modello delle charter school americane e delle grant maintained inglesi offre un’ipotesi esportabile, almeno a livello teorico.

Funziona così: un soggetto privato, di solito un’associazione di genitori, ma anche soggetti del terzo settore creati ad hoc, s’incarica della gestione di una scuola, dalla selezione degli insegnanti alla creazione dei programmi fino alla gestione tecnico-amministrativa. Non lo fanno però in un vuoto spazio di autonomia, ma attenendosi a rigorose linee guida fissate dallo Stato, il quale non esce di scena, ma gioca la sua funzione fondamentale nel ruolo di giudice e garante di questi istituti a gestione mista. Se una scuola supera gli standard statali riceve i finanziamenti pubblici che la tengono in vita, se non li supera chiude. L’autorità statale si occupa della concessione dello status di charter e della valutazione del servizio, ma non entra nel merito della proposta educativa né s’infila nella struttura organizzativa del singolo istituto.

Prendiamo ad esempio New York. Quando Michael Bloomberg è diventato sindaco, nel 2002, c’erano duemila studenti iscritti alle charter school della città, ora gli studenti sono 70 mila, con risultati di rendimento superiori alla media, specialmente nei quartieri più poveri, dove le charter non sono soltanto erogatori di conoscenze ma anche propulsori della valorizzazione di aree urbane difficili. Bloomberg probabilmente verrà ricordato più per i metodi spicci della sua polizia e per le paturnie paternaliste per salvaguardare la salute pubblica, ma il punto del programma su cui ha investito più tempo ed energie è quello scolastico, entrando in una guerra di logoramento con i sindacati degli insegnanti in una città che viene messa in ginocchio anche soltanto da un’agitazione sindacale dei guidatori di school bus.

Ora il suo successore, Bill de Blasio, animato da un senso dello Stato onnipresente e livellatore che non sfigurerebbe nell’Europa novecentesca, la guerra la sta facendo proprio alle charter school, che fra i benefici concessi dall’amministrazione cittadina avevano quello, nient’affatto secondario, specialmente a New York, dell’affitto gratuito dei locali. I sindacati gongolano, assai meno le famiglie che vedono nelle charter la possibilità di trovare un’offerta formativa adeguata alla loro visione del mondo, e ancora meno i gestori di un servizio cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni.

Chi vede nelle charter un modello positivo è Charles Glenn, professore di “Educational Leadership” alla Boston University, uno dei massimi esperti mondiali di sistemi educativi. Per vent’anni ha lavorato come funzionario scolastico nel Massachusetts, stato modello per il sistema scolastico, e ha condotto ricerche a livello internazionale sulla storia dell’educazione, la competizione fra modelli scolastici, il rapporto fra educazione e religione, la sociologia educativa e la giustizia sociale legata allo sviluppo del settore formativo.

La confidenza con certi termini della burocrazia scolastica italiana testimonia una profonda conoscenza del nostro sistema «messo in ginocchio dal modo rigido con cui vengono reclutati gli insegnanti». Con il libro Il mito della scuola unica (Marietti, 2004) ha smontato l’idea della scuola centralizzata e “one size fits all”, come dicono gli americani. In un recente articolo apparso sulla rivista Vita e Pensiero spiega che la libertà di educazione, per essere veramente tale, deve contemplare due diritti fondamentali, anche se non assoluti: il diritto dei genitori di scegliere «la forma di educazione che essi ritengono possa contribuire meglio alla crescita dei figli come esseri umani» e quello degli insegnanti di «lavorare in una scuola che riflette le loro convinzioni personali e professionali relative all’educazione».

In un’intervista con Tempi, Glenn spiega innanzitutto che le «scuole che funzionano sono come le famiglie che funzionano: non le puoi creare a tavolino, c’è un aspetto che sfugge al controllo dei politici, degli insegnanti e degli esperti di educazione» e contemporaneamente osserva che «l’Occidente sta vivendo una fase di creatività educativa».

Creatività? Dice sul serio?

Certo. Ci sono molte situazioni in cui chi è incaricato di scrivere le politiche scolastiche deve rispondere a genitori sempre più insoddisfatti dell’educazione dei propri figli. I dati Ocse testimoniano la generale debolezza dei sistemi educativi, e questo spinge verso il cambiamento, che non necessariamente coincide con un miglioramento, ma trovo che sperimentare forme diverse sia un bene, specialmente nei sistemi molto centralizzati.

In Italia tutta questa sperimentazione non si vede. Chi propone moderate interazioni fra pubblico e privato si trova, quando va bene, isolato dal dibattito.

Uno dei grandi problemi dell’Italia è che per qualche motivo le Regioni non si sono assunte le responsabilità della gestione del sistema scolastico, come previsto dalla Costituzione. Questo fa sì che le questioni fondamentali vengano decise a Roma, soprattutto per quanto riguarda il reclutamento degli insegnanti. Questo ha due conseguenze immediate: ostacola la crescita di scuole alternative a quelle statali, e fa un enorme favore ai sindacati, che non sto qui a ripetere quanto siano potenti. Trovo che questo vincolo centrale, che ha origini culturali antiche, costituisca la grande differenza fra il sistema italiano e quello anglosassone.

Quale dovrebbe essere il ruolo dello Stato nella scuola?

Voglio fare una precisazione: non sono un libertario, lo Stato non è il mio idolo polemico. Ho lavorato nel settore pubblico per vent’anni e credo fermamente che lo Stato abbia un ruolo importante e positivo. Ma deve essere un ruolo chiaramente circoscritto. Prendiamo l’esempio delle charter school: in quel caso lo Stato risponde al modello “tight-loose” (stretto-lasco, ndr), cioè è stretto nella valutazione ma lasco nella selezione del personale, dei programmi, dei metodi di gestione. In quel caso lo Stato trova il suo giusto posto, quello di garante e guardiano dell’efficienza di un istituto. Se una scuola non funziona deve chiudere, ma se funziona deve poter procedere in autonomia. Solo introducendo l’idea della responsabilità si possono ottenere questi risultati, e questo implica, ad esempio, un sistema pubblico che giudichi davvero le scuole.

Perché è così difficile esportare questo modello?

Due ragioni: una è quella sindacale cui accennavo prima. Gli insegnanti delle charter in America non sono obbligati a iscriversi a un sindacato, quindi si tratta di una minaccia per le Unions. E chiaramente i sindacati americani sono molto meno potenti di quelli europei. La seconda ragione è ideologica. Molti burocrati e politici sono contrari alla scelta fra varie alternative scolastiche, perché intacca il pensiero dominante, quindi ogni volta che si parla di rapporto fra pubblico e privato gridano alla svolta mercatista, alla mercificazione dell’educazione, al capitalismo selvaggio e ad altri spauracchi assai radicati fuori dal mondo anglosassone.

In America si parla molto di Common Core, i programmi scolastici standardizzati. Qualcuno trova questo modello, in cui un gruppo di tecnici decidono le linee guida, potenzialmente rischioso per la libertà di educazione. Cosa ne pensa?

Sono un sostenitore del Common Core, il che non significa che sia il migliore dei modelli possibili, ma dobbiamo renderci conto che ci muoviamo nell’ambito dei compromessi. La relazione fra gli standard e la libertà è il grande tema di riflessione in questo momento, e io trovo innanzitutto che avere linee guida uguali per tutti sia importante per chi è povero e per le scuole più disastrate, sarebbe un miglioramento decisivo per chi è ai margini. L’impatto sociale di una riforma non è mai trascurabile. Quello su cui insisto è che esista sempre la possibilità per le scuole di avere curriculum diversi ma equiparati allo standard, creando un sistema di eccezioni motivate, uno standard flessibile, che è praticamente un paradosso ma può funzionare.

Una schiera di professori cattolici vede annidarsi nel Common Core una certa idea dell’uomo e del mondo contraria a quella cristiana, secondo uno schema di “neutralizzazione” dell’educazione già visto altrove, dalla Francia della laïcité alla zapateriana “Educación para la Ciudadanía”. Le pare una preoccupazione reale e condivisibile?

L’ideologia può annidarsi ovunque, non c’è dubbio su questo. Ma l’idea, secondo me, è che i cattolici e tutti i gruppi religiosi, dovrebbero insegnare questi standard in un modo che riflette la loro “worldview”, hanno tutti gli strumenti per discernere e giudicare. Si può insegnare l’evoluzionismo senza aderire allo scientismo darwinista, come la legge olandese prevede con un escamotage che, secondo me, è un buon esempio di compromesso. In questo periodo sto studiano il modo in cui le scuole islamiche americane spiegano il concetto di cittadinanza, che è una grande sfida. Ma io non credo che il modo di risolverla sia eliminare la questione della cittadinanza dai programmi per non entrare in conflitto con l’identità religiosa della scuola. Le posso dire qual è la vera difficoltà delle scuole cattoliche, almeno in America?

Prego.

Uno studio importante, il Cardus Study, ha osservato che le scuole cattoliche hanno un enorme successo a livello accademico. L’incidenza degli studenti che una volta diplomati accedono alle università più importanti è altissima, così come il placement nel mondo del lavoro. Non dico che iscriversi a una scuola cattolica sia garanzia di successo, ma quasi. Il problema è che non hanno successo nell’educazione alla fede. Gli studenti tendono ad abbandonare la Chiesa in modo massiccio. Per gli evangelici è vero il contrario: le loro scuole sono peggiori, ma gli studenti rimangono legati alla Chiesa. Questo per dire che i cattolici devono fare un enorme lavoro sul contenuto della loro proposta educativa, sull’idea antropologica che comunicano. Sono pure d’accordo sulla battaglia contro la secolarizzazione forzata e i dettami del laicismo, ma forse bisognerebbe prima riflettere sul tipo di educazione che viene impartita negli spazi di libertà di cui attualmente le scuole cattoliche godono.