San Giovanni Paolo II, un uomo forte perché servo solo della Verità. Il racconto dell’amico filosofo Stanislaw Grygiel

GPIITempi n.17 – 30 aprile 2014

«Mi disse: “No, non sono solo, con me ci sono i laici”. Un uomo vero. E forte, perché incatenato alla verità. Viaggiava troppo e sbagliò nomine in Curia? Valutazioni miopi e nichiliste». Parla Stanislaw Gryegiel, filosofo e amico di Giovanni Paolo II

di Annalia Guglielmi

 

 

Incontriamo il professor Stanislaw Grygiel, filosofo ed amico personale di Karol Wojtyla, venerdì 11 aprile a Varsavia, in margine alla conferenza di presentazione dell’edizione polacca del suo libro Dialogando con Giovanni Paolo II, pubblicato in Italia da Cantagalli 

Il 27 aprile papa Wojtyla sarà fatto santo. Quando e come lo ha conosciuto?

L’ho conosciuto nel 1958, qualche settimana dopo la sua nomina a vescovo ausiliare di Cracovia. Gli chiesi di ammettermi al suo seminario di dottorato in filosofia. Dopo un breve colloquio molto amichevole mi accettò e così mentre ancora studiavo filologia polacca all’università Jaghellonica iniziai il dottorato filosofico all’università di Lublino. Il tema era Sartre e la sua “promessa” di un’etica che non ha mai elaborato.

Karol Wojtyla si dedicò fin dall’inizio ai giovani, soprattutto studenti universitari.  Come era il suo metodo? Cos’era la comunità “L’ambiente”, o la “Famigliola”, come veniva da voi definita?

L’idea di occuparsi pastoralmente dei giovani viene dal cardinale Sapieha, che chiese al giovane sacerdote Jan Pietraszko, che poi divenne vescovo ausiliare di Cracovia, di occuparsi degli universitari, e lo nominò rettore della chiesa di Sant’Anna, che era la chiesa della pastorale universitaria di Cracovia. Fu lui a trovare il modo per svolgere un’opera con i giovani e per i giovani. Wojtyla ha seguito le sue orme. Pietraszko è stato veramente il suo maestro, come scrisse Giovanni Paolo II nel telegramma inviato dopo la sua morte. Pietraszko è Servo di Dio, perché è in corso il processo di beatificazione. Una volta, in presenza di mia moglie Ludmila e mia, il Papa disse al vescovo Jan: «Io imparo la teologia da te».

Il loro metodo era molto semplice: essere presente nelle gioie, nelle difficoltà, in tutti i problemi dei giovani. Per questo la loro pastorale non si limitava alla predicazione. Ovviamente c’erano le prediche, i ritiri spirituali, c’era il confessionale che aveva un posto molto importante. Però la “magna pars” consisteva proprio nell’essere presente. E la presenza di questi due grandi sacerdoti e pastori univa i giovani. Non solo. Univa anche tutti i partecipanti a questo lavoro. Così nasceva già una piccola società, il nucleo di una società nuova. Molto importanti erano anche le vacanze insieme, i ritiri, il mangiare insieme, pregare insieme e insieme lavorare. Tutto qui. Noi imparavamo da loro. Loro imparavano da noi.

Che cos’era per lui la cultura? Come ha educato generazioni di giovani ad avere una libertà di giudizio dentro un regime come quello comunista che opprimeva le coscienze e imponeva la “propria” verità sull’uomo, la storia, la nazione?

Per loro, per lui, la cultura era come il lavoro del contadino che coltiva la terra sperando nei frutti futuri, nel raccolto. Coltivavano la terra che era dentro le loro persone. Il vescovo Wojtyla arava la terra in se stesso e arava con noi la terra che era in noi, dentro le nostre persone. Arava, e dopo aver arato seminava la Parola di Dio, cioè Gesù Cristo. E da questo seme che è Gesù Cristo lui e noi speravamo di poter avere qualche buon raccolto. Questa è la cultura che si opponeva a ciò che io chiamo “produttura” che a quei tempi cominciava a dominare in Polonia, cioè una mentalità che dice “tutto dipende da me, io posso fare tutto ciò che voglio, posso produrre tutto ciò che voglio”. E quindi si può produrre perfino la salvezza. A questa pretesa consegue la laicizzazione. Perché la laicizzazione consiste nell’eliminare la cultura. Cioè nell’abbandonare il lavoro del seminare e nello smettere di aspettare i frutti. Tutto deve essere immediato.

Oggi mi pare che anche il lavoro pastorale pecchi di questa “produttura”, perché invece di essere cultura, cioè arare, arare e seminare, c’è questo attivismo che cerca di produrre perfino la salvezza. Tutti devono sentirsi bene, tutti devono essere felici, e così si produce un disastro. Basta leggere ad esempio la conferenza del cardinal Kasper: c’è un secondo matrimonio, sono felici, hanno dei bei bambini, e allora perché impedire loro la gioia del legame con l’Eucarestia? Questo io penso sia proprio un sintomo della “produttura” che irrompe nel lavoro pastorale della Chiesa e lo distrugge. Questo è puro marxismo, perché la praxis decide del logos, della verità. Il mio arare decide di tutto. Io invece penso che l’uomo di cultura attacchi il suo aratro alle stelle e per questo sia veramente uomo di cultura. È uomo di cultura se non solo attacca l’aratro ai buoi, ma al cielo, altrimenti rimane solo la “produttura”.

Perché lei nel suo libro Dialogando con Giovanni Paolo II lo definisce “Vir fortis”?

L’uomo da solo è debole, non ha le forze necessarie per resistere, ad esempio, alla laicizzazione che irrompe oggi nella società e nella Chiesa. L’uomo è forte solo quando si appoggia a ciò che è forte. E forte è la verità, cioè il fatto, i fatti. Ecco perché definisco Wojtyla “Vir fortis”, perché lui era legato alla verità, era servo della verità, non servo di se stesso. In questo senso era libero da se stesso, e gli uomini che sono liberi da se stessi sono veramente forti, non hanno paura di niente e di nessuno, perché è la verità che li difende. Da questo punto di vista uomini come il vescovo Pietraszko o il vescovo Wojtyla e tanti altri, anche molti di noi studenti, erano forti. Perché erano amanti della verità e si sentivano amati dalla verità, cercandola incessantemente. Questo amore e questo essere amati erano la loro forza, li rendevano “Vires fortes”.

Cos’era per lui la bellezza?

La sua visione della bellezza era profondamente metafisica. La bellezza per lui è il pulchrum trascendentale in cui si rivelano insieme verum e bonum, la verità e il bene. La verità e il bene non appaiono come verità e bene in sé. Si rivelano a noi nella forma del bello. Ci chiamano attraverso il bello. Io sono attratto dal bello. È un’evidenza. È quello che afferma Norwid quando dice che il bello ci chiama al lavoro. E quando lavoro per la verità e per il bene che sono belli, io risorgo nella Bellezza che mi ha chiamato.

Qui torniamo alla presenza di Karol Wojtyla tra i giovani: presenza significa porsi in modo da far vedere attraverso di sé la verità dell’uomo. È ciò che dice il nostro poeta Krasinski: la Bellezza scorre attraverso di noi, è il torrente della Bellezza, ma noi non siamo la Bellezza, noi siamo il riflesso della Bellezza. La bellezza non è l’estetica delle forme vuote, perché la bellezza delle forme vuote serve solo come orpello. Invece, la Bellezza che proviene da Dio è una casa, una dimora per l’uomo.

Qual è stato il ruolo della cerchia di intellettuali raccolti nei Klub dell’Intellighencja Cattolica, nelle riviste Znak e Tygodnik Powszechny, con cui Wojtyla collaborò molto da vicino?

Wojtyla collaborava con tutti gli intellettuali cattolici in Polonia, ma soprattutto con quelli di Cracovia. Non so come sia accaduto che dopo la guerra siano venuti a Cracovia molti intellettuali da Vilnius, da Lwów, e da Varsavia. Fu una cosa provvidenziale. Nel 1945, ancora prima della fine della Seconda Guerra mondiale, l’arcivescovo cardinal Sapieha fondò la rivistaTygodnik Powszechny che all’inizio era proprietà della Curia di Cracovia. Che cosa voleva l’arcivescovo Sapieha? Voleva che nel futuro, di cui non si sapeva niente perché era oscurato dal comunismo, salvassimo soprattutto la cultura, perché non avremmo potuto lottare militarmente, sarebbe stata una tragedia. E quindi, la cultura. Per questo ha dato al vescovo Pietraszko il compito di organizzare la pastorale degli universitari, cioè la futura élite intellettuale polacca.

Wojtyla aveva capito che l’unica via percorribile in quei tempi era creare la cultura, cioè insegnare ai giovani ad arare la loro terra con un aratro attaccato al cielo, alle stelle, ai «valori non negoziabili», come ha detto Benedetto XVI. In quella situazione noi sapevamo molto bene cosa significasse “valori non negoziabili”. Oggi molti, anche nella Chiesa, non lo sanno più e li mettono in dubbio. Perché? Penso che il benessere ci abbia resi troppo borghesi. Noi adesso stiamo navigando, ma non vediamo nessun faro e per questo non sappiamo dove andare. Tutto è negoziabile. Dunque, si può fare tutto quello che si vuole. Pur dicendo che siamo cristiani, viviamo come se Dio non ci fosse.

Così la libertà è divenuta tolleranza, l’amore è divenuto istinto che approfitta degli istinti altrui, non siamo più capaci di affidarci per sempre, facciamo solo società a responsabilità limitata. E quando abbiamo ricavato gli utili ci separiamo per entrare in altre società a termine per produrre altre cose più comode e più piacevoli. Tutto per noi è diventato negoziabile, l’altro e noi stessi compresi. Questo è il nichilismo. Quello che ha talmente spaventato Nietzsche da farlo impazzire. Nietzsche si è spaventato proprio di ciò che noi oggi stiamo vivendo. E che comincia a prendere piede anche nella Chiesa.

Che cosa ha voluto dire per voi suoi amici la sua elezione a Pontefice? Avete temuto che potesse non essere compreso in Occidente, dove, a parte poche eccezioni come don Giussani, don Francesco Ricci e la casa editrice Cseo da lui fondata e innervata in Comunione e Liberazione, sostanzialmente non si conoscevano né il cardinal Wojtyla, né la situazione dei paesi dell’Est?

A costo di sembrare superbo, devo dire che noi non abbiamo avuto paura di non essere compresi, perché questa incomprensione noi l’avevamo già vissuta prima dell’elezione del Papa. Parlando con gli intellettuali occidentali, anche con quelli cristiani, cattolici, ci rendevamo conto che loro non ci comprendevano. Per loro il marxismo era un gioco intellettuale. Mentre per noi era un problema di essere o non essere. Questo faceva una differenza enorme. Loro potevano giocare perché erano protetti dagli Stati Uniti. Noi, invece, non eravamo protetti da nessuno, tranne che dalla verità. Quindi ci siamo attaccati, incatenati alla verità. E questo attaccamento alla verità ci liberava da qualsiasi paura.

Noi non avevamo paura degli intellettuali occidentali. Noi avevamo paura di crollare, di perdere la fiducia in Dio, di commettere qualche errore per cui poi avremmo potuto essere ricattabili dai servizi segreti. Ricordo che una volta ho letto un articolo di un teologo tedesco che diceva che siccome la Chiesa tedesca sosteneva economicamente in misura maggiore la Chiesa universale, allora la Chiesa tedesca avrebbe dovuto avere un maggior peso nella Chiesa universale e le decisioni più importanti avrebbero dovuto essere prese in Germania. Scosso da questa lettura andai dal cardinal Wojtyla e gli dissi: «Legga qua, come è possibile una cosa del genere?». Lui mi rispose: «Sì, sì me lo aspettavo, però verrà un tempo in cui loro verranno da noi a chiedere aiuto».

Una figura come don Francesco Ricci è molto significativa, perché lui era uno dei pochi che ci ha compresi, era uno di noi, non solo di noi di Cracovia, ma di tutta la Polonia, dell’Ungheria, della Cecoslovacchia e di tutto l’Est europeo dove la gente, se non era attaccata alla verità, viveva in una continua paura. Credo che don Ricci avesse capito molto bene le parole “Lux ex Oriente”, cioè credo che da questa gente dell’Est sarebbe potuto venire un aiuto per la Chiesa e per tutto il mondo. Don Ricci conosceva il cardinal Wojtyla credo già dal 1964 o dal 1965. Quando veniva a Cracovia dormiva da noi su un lettino da campo russo, a cui dovevamo aggiungere due sedie per allungarlo. Ricordo che una volta il cardinal Wojtyla era venuto da noi alla sera tardi e poco dopo arrivò don Francesco, che, vedendo la mia famiglia seduta a tavola con il cardinale a mangiare qualcosa, disse a chi era con lui: «Guarda, questo qui dovrebbe essere papa».

Mi sembra che don Francesco avesse un fiuto profetico. Era molto apprezzato, addirittura molto amato dal cardinale prima e poi Papa. Tre anni dopo la morte di don Francesco, durante una cena e senza che nessuno glielo avesse chiesto, il Papa ci disse: «Io ogni giorno durante la Messa prego per don Ricci». Don Ricci e alcuni come lui, poi, hanno aiutato la parola di Giovanni Paolo II a entrare nel mondo.

C’è una cosa interessante: due o tre anni dopo la sua elezione dissi al Papa: «Padre, adesso lei è così solo nella Chiesa, perché molti teologi sono contro, addirittura molti vescovi la criticano. Sembra di essere tornati un po’ come ai tempi dell’arianesimo, quando praticamente tutti i vescovi si erano staccati dal Papa e lui era rimasto solo». Giovanni Paolo II mi guardò e mi disse: «No, io non sono solo, con me ci sono i laici nella Chiesa». E questo era vero, non so perché, ma i laici hanno capito meglio, immediatamente meglio Giovanni Paolo II, rispetto agli altri. Ma, ripeto, lui non aveva paura di essere incompreso. Un giorno gli dissi: «Lei dice tante cose durante le udienze, però pochi ascoltano, non so che effetto abbiano queste sue parole». Mi rispose: «Non ha nessuna importanza, alcune cose devono essere dette, poi quando porteranno frutto non dipende da me, non è un mio problema».

Ci dice qualcosa del rapporto di Giovanni Paolo II con i movimenti ecclesiali?

Per lui la Chiesa dovrebbe essere un movimento, perché parte dall’atto della creazione, allora questo scorrere della Chiesa, negli uomini e attraverso gli uomini, come bellezza, è un movimento. Un torrente divino che diventa anche umano, perché scorre attraverso gli uomini. Nella Chiesa noi viviamo ogni giorno una incarnazione della Bellezza divina che si rende umana. Come nel torrente l’acqua sorgiva cambia, ma è sempre sorgiva, perché viene dalla sorgente.

Come ricorda il primo pellegrinaggio in Polonia di Giovanni Paolo II, nel 1979?

In un certo modo ero preparato da mesi al pellegrinaggio e poi l’ho vissuto in Polonia insieme a don Francesco Ricci. Abbiamo partecipato insieme, soprattutto a Cracovia, agli incontri con la gente e alla liturgia, e insieme ascoltavamo le parole di Giovanni Paolo II e ricordo che una volta don Francesco ha scritto in un articolo che io gli avevo detto mentre guardavamo quella immensa folla di persone libere, unite, che avevano recuperato la fiducia gli uni negli altri: «Vedi quello che sta succedendo? Se adesso lui dicesse di fare una rivolta, lo seguirebbero tutti. Ma non lo dirà, perché questo Papa non fa politica e non farà mai politica. Lui senza fare la politica, la cambierà. È come la Croce che non è un fatto politico, però nessun fatto, nessun evento nella storia, ha cambiato, cambia e cambierà la politica, così come lo fa la Croce». In questo senso Giovanni Paolo II ha cominciato a cambiare il mondo, prima in Polonia, poi nei paesi intorno alla Polonia, quindi in Europa.

Noi eravamo sicuri che un novum cominciava a tralucere nel buio in cui vivevamo a quel tempo. Però questo tralucere non ci diceva ancora quale sarebbe stato il futuro. Quale sarebbe stata la realtà verso la quale stavamo cominciando a camminare. In cuor mio pensavo che nel giro di qualche anno ci saremmo staccati dal blocco sovietico, ma non era questa la cosa più importante. La cosa più importante era la conversione accaduta negli uomini che avevano smesso di aver paura l’uno dell’altro e cominciavano ad avere fiducia l’uno nell’altro. Se il sistema comunista si reggeva perché era costruito sulla paura, sulla nostra paura, se quella paura spariva, era logico che sarebbe sparito anche il sistema, perché veniva meno il pilastro principale su cui poggiava.

Poco dopo l’elezione lei mi disse: «È un mistico, è veramente un santo». Rimasi stupita, perché all’inizio del pontificato non si aveva la percezione che fosse un mistico. Perché disse quelle parole?

Non ho certamente pensato alla sua canonizzazione, ma ho pensato che se in tutto ciò che fa e in tutto ciò che è, un uomo afferma la verità, questi è un vero uomo. Cioè, un uomo libero. E per me la libertà è sinonimo di santità. E Wojtyla era un uomo libero. E mistico perché era legato alla verità e al bene che non sono di questo mondo. Se Dio non c’è non si può parlare della verità e del bene: tanti uomini, tante verità, tanti beni. Ma chi convive con la verità, convive con una realtà che si trova al di là del mondo, anche se è presente nel mondo.

Per questo il Trittico romano (raccolta di dodici liriche che Karol Wojtyla ha redatto da papa e pubblicato nel 2003, ndr) per me è veramente un punto definitivo che lui ha messo alla fine della sua vita. Quando Giovanni Paolo II grida: «Dove sei sorgente? Dove sei sorgente?», egli leva il grido del mistico. Ma questa sorgente lui l’ha sempre cercata: quando era studente laico, e poi giovane seminarista clandestino, prete, vescovo, cardinale, papa. Chi contempla il torrente contempla la sorgente pur senza vederla. Chi ascolta come il poeta il mormorio del torrente sente la voce della sorgente. Questo era Wojtyla.

Cosa pensa delle parole del cardinal Martini che troviamo nella sua testimonianza al processo di beatificazione di Giovanni Paolo II, riportate nel libro di Andrea Riccardi La santità di papa Wojtyla, secondo cui furono «non sempre felici le nomine e la scelta dei collaboratori, soprattutto negli ultimi tempi», fu eccessivo l’appoggio dato ai movimenti «trascurando di fatto le Chiese locali» e fu forse imprudente nel porsi «al centro dell’attenzione – specie nei viaggi – con il risultato che la gente lo percepiva un po’ come il vescovo del mondo e ne usciva oscurato il ruolo della Chiesa locale e del vescovo», per cui l’allora cardinale di Milano non ne riteneva necessaria la beatificazione?

Non so se il cardinal Martini ha detto queste parole riportate da Andrea Riccardi, ma supponiamo che l’abbia fatto. Giovanni Paolo II aveva capito che se si fosse lasciato intrappolare nelle riforme della Curia non avrebbe fatto niente per la Chiesa, allora ha riposto la propria fiducia nei collaboratori e ha cominciato a camminare per il mondo. Un giorno all’inizio del pontificato ho parlato con il famoso filosofo padre Cornelio Fabro, che mi ha detto: «Ho capito perfettamente ciò che sta facendo questo Papa: nei suoi pellegrinaggi lui sta costruendo gli argini contro l’ateismo, perché l’ateismo potrebbe straripare come un fiume. È una scelta profetica». Penso che padre Cornelio Fabro su questo punto sia più autorevole di chi critica i pellegrinaggi di Giovanni Paolo II.

Non ho seguito questa discussione provocata dall’articolo del Corriere della Sera, però da quello che mi dici posso dire solo questo: non conosco nessun Papa che avrebbe nominato solo le persone più idonee secondo i nostri criteri. Le nomine possono sempre essere criticate. Ogni anno le nomine sono tantissime e quindi è impossibile non “sbagliare”. Ma nella Chiesa penso ci sia anche la presenza dello Spirito Santo e credo che in questa ottica anche le nomine “sbagliate” entrino nel piano salvifico di Dio. È vero: c’erano, ci sono e ci saranno nomine “sbagliate”, nessun Papa ne é esente, ma non so se questi “errori” non sono necessari per farci vedere che la Chiesa è edificata non sugli uomini, ma su Cristo e sulla Sua forza. Se così non fosse io avrei dei dubbi, e la Chiesa sarebbe il luogo non tanto della cultura, quanto della “produttura”, forse addirittura del nichilismo.

Infine, l’appoggio dato ai movimenti. Se i movimenti sono a immagine e somiglianza della Chiesa, chi appoggia i movimenti appoggia anche la Chiesa. Giovanni Paolo II non ha appoggiato i movimenti per se stessi, ma per la Chiesa. Perciò non capisco molto questa critica. Forse il cardinal Martini ha avuto un’esperienza non troppo felice dei movimenti, ma credo che sarebbe dovuto andare un pochino al di là della propria esperienza e vedere oltre, vedere un po’ più lontano. Nella Chiesa chi non guarda più lontano, chi è miope, cioè non è mistico ma miope, può anche recare danno con le sue battute.

Giovanni Paolo II disse: «L’Europa sarà cristiana o non sarà» e soffrì molto perché nel testo della Costituzione europea non si volle inserire il riferimento alle radici greco-giudaico-cristiane del continente. Alla luce della crisi dell’Europa come giudica questa “profezia”?

Torniamo di nuovo al tema della sorgente. Quali sono le sorgenti dell’Europa? Dove è nata l’Europa? L’Europa è nata su due piccole alture: il Golgota e l’Areopago. Atene e Gerusalemme. E poi ciò che è nato lì è passato a noi filtrato dalla cultura di Roma. È così che si è costituita l’Europa. L’Europa è un fatto. Se l’Europa vuole rimanere Europa così come è questo fatto non può prescindere dalle sorgenti. Il torrente che si stacca dalla sorgente diventa secco, non è più torrente. Resteranno gli uomini, ma vivranno come vivono gli uomini nelle altre culture.

Possiamo immaginare l’Europa come un Giappone, sarà su questa terra europea, ma sarà un Giappone, non l’Europa. Questo è possibile. Ma è possibile anche che la sorgente del Golgota e dell’Aeropago si rivolga verso gli altri continenti. Nell’Africa settentrionale c’era una grande Chiesa, e oggi non c’è più. E lo stesso può accadere con l’Europa. Sarà un’altra realtà umana, perché non sarà più divinamente umana o umanamente divina. Se non sarà cristiana, non sarà Europa.

Penso che se ne rendano conto anche quelli che hanno scritto la Costituzione europea. Per esempio Giscard d’Estaing. Il Papa gli chiese perché nella Costituzione non avevano menzionato i valori cristiani. Rispose che lui avrebbe voluto inserirli, ma “loro” glielo avevano proibito. Loro chi? Poi in un’altra occasione ammise di avere scritto lui stesso il testo. Quindi aveva mentito. Penso che ci sia chi vuole cambiare l’Europa, perché odia l’Europa così come essa è. C’è chi vuole un’altra Europa. Chi? Forse chi si è annoiato: non essendo più cristiani si sono annoiati del cristianesimo, della fede, ma gli uomini annoiati sono pericolosissimi, perché vogliono distruggere ciò che provoca in loro la noia.

Davanti a noi c’è un buio, un futuro incerto. Adesso si vede bene che, poiché in Europa non poggiamo più sui valori non negoziabili, la società è crollata, è debolissima, non ha alcun ideale per cui lottare, non resiste alle ideologie. Di conseguenza è debole anche militarmente. La politica non c’è più perché il pensiero politico è stato sostituito dall’economia. Se arriva qualcuno con un’idea per lui non negoziabile, l’Europa non sa come rispondere, ha paura, e cede.

Possiamo finire con una battuta. All’inizio del 1800 i cosacchi dell’esercito russo sono entrati a Parigi e bevendo vino gridavano ai camerieri «In fretta! In fretta!», che in russo si dice «Bistro! Bistro!». E la parola bistrot è rimasta. Penso che tra qualche tempo anche altre parole entreranno nel vocabolario europeo.