Cristiani nei paesi islamici

cristiani nei paesi islamici cittadini di serie BAbstract: Cristiani nei paesi islamici, come vivono, a quali discriminazioni sono sottoposti, il regime della dhimma e l’erosione del cristianesimo in Medio Oriente, dove erano presenti ben prima dell’invasione mussulmana. Segue l’intervista a Youssef Sidhom è direttore del settimanale “Watani” sulla condizione dei cristiani in Egitto

per gentile autorizzazione della rivista, un ampio estratto dell’articolo,  uscito su “La Civiltà Cattolica n. 3680 del 18 ottobre 2003

I cristiani nei paesi islamici

 di Giuseppe De Rosa S.J.

Come vivono i cristiani nei paesi a maggioranza islamica? […] Si deve rilevare anzitutto un fatto in apparenza assai curioso: in tutti i paesi dell’Africa del Nord (Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco), prima dell’invasione musulmana e nonostante l’invasione dei vandali, c’erano fiorenti comunità cristiane, che avevano dato alla Chiesa universale grandi personalità, come Tertulliano, san Cipriano, vescovo di Cartagine, morto martire nel 258, sant’Agostino, vescovo di Ippona e san Fulgenzio, vescovo di Ruspe. Ma dopo la conquista araba, il cristianesimo fu assorbito a tal punto dall’Islam che oggi esso è presente con un significativo numero di fedeli soltanto in Egitto con i copti ortodossi e con altre piccole minoranze cristiane, che rappresentano in tutto il 7-10 per cento della popolazione egiziana.

Lo stesso si deve dire del Medio Oriente (Libano, Siria, Palestina, Giordania, Mesopotamia), nel quale c’erano fiorenti terre cristiane prima dell’invasione islamica e in cui oggi sono presenti solamente piccole comunità cristiane, a eccezione del Libano dove i cristiani costituiscono una significativa parte della popolazione.

Per quanto riguarda l’attuale Turchia, essa era stata nei primi secoli cristiani la terra in cui il cristianesimo aveva dato i suoi frutti migliori nel campo sia della liturgia e della teologia, sia della vita monastica. L’invasione dei turchi selgiuchidi e la conquista di Costantinopoli da parte di Mehmet II (1453) condussero alla costituzione dell’impero ottomano e alla pratica distruzione del cristianesimo nella penisola anatolica. Così oggi in Turchia i cristiani si aggirano intorno ai 100.000, tra i quali un piccolo numero di ortodossi, che vivono attorno al Phanar, sede del patriarca ecumenico di Costantinopoli, il quale ha il primato di onore sul mondo ortodosso e col quale sono in comunione ecclesiastica otto patriarcati e molte Chiese autocefale in Oriente e in Occidente, con circa 180 milioni di fedeli.

In conclusione, possiamo storicamente constatare che in tutti i luoghi in cui si è imposto l’islam con la sua azione militare, che per la sua rapidità e la sua estensione ha pochi esempi nella storia, il cristianesimo, che vi era straordinariamente fiorente e radicato da secoli, è praticamente scomparso oppure si è ridotto a piccole isole in uno sterminato mare islamico. Come ciò sia potuto accadere non è facile spiegarlo. […]

In realtà, la riduzione del cristianesimo a piccola minoranza non fu dovuta a forme di persecuzione religiosa violenta, ma alla condizione in cui i cristiani, nell’organizzazione dello Stato islamico, erano costretti a vivere. […]

IL VOLTO GUERRIERO DELL’ISLAM: IL “JIHAD”

Secondo il diritto musulmano, il mondo è diviso in tre parti: dar al-harb (casa della guerra), dar al-islam (casa dell’islam) e dar al-‘ahd (casa del patto), cioè i paesi con i quali è stato stipulato un patto. […]

Quanto ai paesi appartenenti alla “casa della guerra”, la legge canonica islamica non riconosce altre relazioni con essi se non quelle proprie della “guerra santa” (jihad), che significa “sforzo” nella via di Allah e che ha due significati, i quali sono ugualmente essenziali e che non devono essere dissociati, quasi che l’uno possa sussistere senza l’altro. Nel primo significato, il jihad indica lo “sforzo” che il musulmano deve compiere per essere fedele ai precetti del Corano e in tal modo migliorare la propria “sottomissione” (islam) ad Allah; nel secondo, indica lo “sforzo” che il musulmano deve compiere per “combattere sulla via di Allah”, cioè per lottare contro gli infedeli e diffondere l’islam in tutto il mondo. Il jihad è un precetto della massima importanza, tanto che talvolta viene annoverato tra i precetti fondamentali – come sesto “pilastro” – dell’islam.

L’obbedienza al precetto della “guerra santa” spiega il fatto che quella dell’islàm sia una storia di guerre senza fine per la conquista dei territori degli infedeli. […] In particolare, tutta la storia islamica fu dominata dall’idea della conquista delle terre cristiane dell’Europa occidentale e dell’impero romano d’Oriente, la cui capitale era Costantinopoli. Così, durante lunghi secoli, l’islam e la cristianità si affrontarono in terribili battaglie, che da un lato condussero alla conquista di Costantinopoli (1453), della Bulgaria, della Grecia e, dall’altro, alla sconfitta dell’impero ottomano nella battaglia navale di Lepanto (1571).

Ma lo spirito di conquista dell’islam dopo Lepanto non cessò. L’avanzata islamica in Europa fu definitivamente fermata soltanto nel 1683, quando Vienna fu liberata dall’assedio ottomano dalle armate cristiane al comando di Giovanni III Sobieski, re di Polonia. […] In realtà, per quasi mille anni l’Europa è stata sotto la costante minaccia dell’islam, che per ben due volte ne ha messo in serio pericolo la sopravvivenza.

Così, in tutta la sua storia, l’islam ha mostrato un volto guerriero e uno spirito conquistatore a gloria di Allah, […] contro gli “idolatri” che devono essere posti nell’alternativa: convertirsi all’islam o essere uccisi. […] Quanto alla “gente del Libro” (cristiani, ebrei e sabei), i musulmani devono “combatterla finché i suoi membri non paghino il tributo, a uno a uno, umiliati” (s. 9, 29). […]

IL REGIME DELLA “DHIMMA”

Secondo il diritto musulmano, i cristiani, gli ebrei e i seguaci di altre religioni assimilate al cristianesimo e all’ebraismo (i “sabei”) che abitano in uno stato musulmano appartengono a un ordine sociale inferiore, nonostante la loro eventuale appartenenza alla stessa razza, alla stessa lingua e alla stessa discendenza. La legge islamica non conosce i concetti di nazione e di cittadinanza, ma solamente l’umma, l’unica comunità islamica, per cui il musulmano, in quanto fa parte dell’umma, può vivere in qualsiasi paese islamico come nella sua patria: egli è soggetto alle stesse leggi, trova le stesse usanze e gode della stessa considerazione.

Invece gli appartenenti alla “gente del Libro” sono soggetti alla dhimma, che è una specie di patto bilaterale, consistente nel fatto che lo stato islamico autorizza la “gente del Libro” a risiedere sul proprio territorio, ne tollera la religione, le garantisce la “protezione” delle persone e dei beni e la difesa contro i nemici esterni. Così la “gente del Libro” (Ahl al-Kitab) diviene “gente protetta” (Ahl al-dhimma). In cambio di tale “protezione”, la “gente del Libro” si impegna a pagare allo stato islamico un’imposta (jizya), che grava soltanto sugli uomini abili, di condizione libera, escludendo donne, bambini, infermi e vecchi, e a pagare un tributo, detto haram, sulle terre possedute.

Per quanto riguarda la libertà di culto, ai dhimmi sono proibite soltanto le manifestazioni esterne di culto, come il suono delle campane, le processioni con croci, i funerali solenni, la vendita pubblica di oggetti di culto o di altri articoli proibiti per i musulmani. Un musulmano che sposa una cristiana o un’ebrea dovrà lasciarla libera nell’esercizio della sua religione e anche nell’uso dei cibi permessi dalla sua religione, anche se proibiti a un musulmano, come la carne di maiale e il vino. I dhimmi possono conservare o riparare le chiese o sinagoghe che già posseggono; ma, se non c’è stato un patto che permetta ad essi il possesso di terre proprie, non possono costruire nuovi luoghi di culto, perché per fare questo dovrebbero occupare una terra musulmana, che non può essere ceduta a nessuno, essendo divenuta, con la conquista musulmana, terra “sacra” ad Allah.

Nella sura 9, 29 il Corano afferma che la “gente del Libro”, oltre ad essere costretta a pagare le due tasse di cui si è detto sopra, va sottoposta ad alcune restrizioni, come il vestire in modo speciale, la proibizione di portare armi e di montare a cavallo. Inoltre i dhimmi non possono far parte dell’esercito, essere funzionari dello stato, essere testimoni in giudizi tra i musulmani, prendere in moglie le figlie di questi, essere tutori di minori musulmani o tenere schiavi musulmani. Non possono ereditare da musulmani, né questi da essi; sono però permessi i legati.

Lo scioglimento della dhimma sopravviene, anzitutto, con la conversione della “gente del Libro” all’islam; ma i musulmani, specialmente nei primi secoli, non hanno visto con favore tali conversioni, perché significavano una grave perdita per l’erario, che era tanto più florido quanto più numerosi erano i dhimmi, che pagavano la tassa personale e l’imposta fondiaria. Lo scioglimento della dhimma poteva avvenire, inoltre, per il mancato adempimento del “patto”, nel caso cioè che i dhimmi prendessero le armi contro i musulmani; nel caso che rifiutassero di stare sottomessi o di pagare i tributi; nel caso che rapissero una musulmana, bestemmiassero o oltraggiassero in qualche maniera il profeta Muhammad e la religione islamica; nel caso, infine, che facessero allontanare un musulmano dall’islam, cercando di convertirlo alla propria religione. Secondo la gravità di ciascun caso, la pena poteva essere la confisca dei beni, la riduzione in schiavitù o la pena di morte; salvo che chi avesse commesso tali delitti non si convertisse all’islam. In tal caso, ogni pena era abolita.

CONSEGUENZA: L’EROSIONE DEL CRISTIANESIMO

È evidente che la condizione di dhimmi, prolungandosi nei secoli, ha portato lentamente, ma inesorabilmente, alla quasi sparizione del cristianesimo nelle terre musulmane: la condizione di inferiorità civile, che impediva ai cristiani di accedere alle cariche pubbliche, e la condizione d’inferiorità religiosa, che li chiudeva in una vita e una pratica religiosa asfittica e senza nessuna possibilità di sviluppo, poneva i cristiani o nella necessità di emigrare o, più frequentemente, nella tentazione di passare all’islam. Tanto più che un cristiano non poteva sposare una donna musulmana se non si convertiva all’islam, anche perché i suoi figli dovevano essere educati nell’islamismo. C’era inoltre per un cristiano passato all’islam la possibilità di divorziare con estrema facilità, mentre il cristianesimo proibiva il divorzio. D’altra parte, i cristiani che si trovavano nei territori musulmani erano fortemente divisi tra loro – e spesso anche nemici – poiché appartenevano a Chiese diverse per confessione (Chiese calcedonesi e non-calcedonesi) e per riti (siro-orientale, antiocheno, maronita, copto-alessandrino, armeno, bizantino): cosicché ogni mutuo aiuto era praticamente quasi impossibile.

Il regime della dhimma è durato per oltre un millennio, sia pure non sempre e dappertutto nella forma dura datagli dalle “condizioni di ‘Umar”, secondo le quali non soltanto i cristiani non hanno diritto a costruire nuove chiese e a restaurare quelle esistenti, anche se cadono in rovina (e, se hanno il permesso di costruire dalla benignità del governatore musulmano, le chiese non devono essere di grandi dimensioni: l’edificio dev’essere più modesto di tutti gli edifici religiosi dei dintorni); ma le chiese più grandi e più belle devono essere trasformate in moschee. Tale trasformazione faceva sì che le chiese-moschee non potessero più essere rese alla comunità cristiana, perché un luogo divenuto moschea non può essere destinato ad altro uso.

La conseguenza del regime della dhimma è stata l’”erosione” delle comunità cristiane e il passaggio di molti cristiani all’islam per motivi economici, sociali e politici: per trovare un lavoro migliore, per godere di maggiore considerazione sociale, per partecipare alla vita amministrativa, politica e militare, e non vivere in una condizione di perpetua discriminazione.

Negli ultimi secoli, il sistema della dhimma ha subìto alcune attenuazioni, anche perché pure nei paesi musulmani hanno preso piede la nozione di cittadinanza e quella di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo stato. In pratica, tuttavia, la concezione tradizionale resta presente. […] Il cristiano, che lo voglia o no, è ricondotto suo malgrado al concetto di dhimmi, anche se il termine non ricorre più nel diritto attuale di buona parte dei paesi a maggioranza islamica.

Per comprendere la condizione attuale di questi cristiani, bisogna rifarsi alla storia dei secoli XIX e XX. Nel secolo XIX, nell’impero ottomano, in cui vigeva il sistema del millet, furono introdotte le tanzimat, “regolamentazioni” di impronta liberale. […] Dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla fine della prima guerra mondiale ci fu nel mondo arabo un movimento di “Risveglio” (Nahda), sotto l’influsso occidentale, nel campo della letteratura, della lingua e del pensiero. Molti intellettuali furono conquistati dalle idee liberali

D’altra parte, i cristiani strinsero forti legami con le potenze occidentali – in particolare con la Francia e la Gran Bretagna – che, dopo la dissoluzione dell’impero ottomano, ottennero il protettorato sui paesi che facevano parte di esso. Questo fatto permise ai cristiani sia una maggiore libertà civile e religiosa, sia una crescita del loro livello culturale. Inoltre, nella prima metà del secolo XX, nacquero vari partiti politici d’intonazione nazionalista e socialista, e dunque laici, come il Ba‘th, Partito socialista della risurrezione araba, fondato alla fine degli anni trenta a Damasco dall’insegnante siriano Michel ‘Aflaz, di religione greco-ortodossa, che nel 1953 si fuse col Partito popolare siriano, fondato nel 1932 dal libanese greco-ortodosso Antun Sa‘ada. Infine, in vari paesi islamici sorsero regimi politici ispirati ai princìpi liberali e laici dell’Occidente europeo.

NASCITA DELL’ISLAMISMO RADICALE

Questi fatti suscitarono nel mondo islamico una forte reazione, dovuta al timore che le idee laiche e i costumi “corrotti” del mondo occidentale, identificato con il cristianesimo, nuocessero alla purezza dell’islam e costituissero un pericolo mortale per la sua stessa esistenza. Questa reazione era alimentata da un forte risentimento contro le potenze occidentali, che avevano osato imporre il loro dominio politico all’islam, “la migliore nazione mai suscitata da Allah tra gli uomini” (Corano, s. 3, 110), e i loro costumi “depravati” alla “nazione (umma) che invita al bene, promuove la giustizia e impedisce l’iniquità” (ivi, s. 3, 104).

Nacque così “l’islamismo radicale” che si fece interprete delle frustrazioni delle masse musulmane. Hasan al Banna, Sayyd Qutb, Abd al-Qadir ‘Uda in Egitto con i fratelli Musulmani; Abu l-A‘li al-Mawdudi in Pakistan e l’ayatollah Khomeini in Iran ne sono i testimoni più significativi e i loro seguaci, da Dakar e Kuala Lumpur, si sono moltiplicati . […]

CONDIZIONE ATTUALE DEI CRISTIANI NEL MONDO ISLAMICO

L’islamismo radicale, il quale propone che in ogni stato islamico sia instaurata la shari‘a, sta prendendo piede in molti paesi islamici, in cui sono presenti gruppi di cristiani. È evidente che l’instaurazione della shari‘a renderebbe assai difficile la vita ai cristiani e la loro stessa esistenza sarebbe in continuo pericolo. Di qui l’emigrazione massiccia dei cristiani dai paesi islamici verso i paesi occidentali: Europa, Stati Uniti, Canada e Australia. […] Le stime degli arabi cristiani che sono emigrati negli ultimi decenni da Egitto, Iraq, Giordania, Siria, Libano, Palestina e Israele si aggirano intorno ai tre milioni, cioè fra il 34,1 e 26,5 per cento del numero stimato di cristiani attualmente presenti nel Medio Oriente.

Inoltre non bisogna sottovalutare fatti gravi avvenuti di recente a danno dei cristiani in alcuni paesi a maggioranza islamica. In Algeria, il vescovo di Orano, P. Claverie (1996), sette trappisti di Tibehirini (1999), quattro Padri Bianchi (1994) e sei suore di diverse congregazioni religiose sono stati barbaramente uccisi dai fondamentalisti islamici, anche se l’assassinio è stato condannato da numerosi responsabili musulmani. Nel Pakistan, che conta 3.800.000 cristiani su una popolazione per il 96 per cento islamica di 156.000.000 di abitanti, il 28 ottobre 2001 alcuni islamici entrarono nella chiesa san Domenico a Bahawalpur e uccisero a fucilate 18 cristiani. Il 6 maggio 1998, il vescovo cattolico John Joseph si era tolto la vita per protestare contro la legge sulla bestemmia, che punisce con la morte chi è accusato di offendere Maometto anche solo “pronunciando parole, o con gesti e mediante allusioni, direttamente o indirettamente”. Dicendo, per esempio, che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, si offende Maometto, il quale afferma che Gesù non è Figlio di Dio, ma suo “servo”. Perciò con tale legge la vita dei cristiani è in continuo pericolo di morte.

In Nigeria – dove 13 stati hanno introdotto la shari‘a come legge dello stato –, parecchie migliaia di cristiani sono state vittime di incidenti. Stanno avvenendo fatti gravi nel Sud delle Filippine e nell’Indonesia, che con i suoi 212 milioni di abitanti è il paese musulmano più popoloso del mondo, a danno dei cristiani di Giava, di Timor Est e delle Molucche. Ma la situazione più tragica – e purtroppo dimenticata dal mondo occidentale! – è quella del Sudan, dove il Nord è arabo e musulmano, e il Sud è nero e cristiano e, in parte, animista. Dai tempi del presidente G. M. Nimeiry c’è uno stato di guerra civile tra il Nord, che ha proclamato la shari‘a e intende imporla con feroce violenza a tutto il paese, e il Sud che intende conservare e difendere la propria identità cristiana.

Il Nord si serve di tutta la sua potenza militare – finanziata dalle esportazioni di petrolio in Occidente – per distruggere i villaggi cristiani, impedire l’arrivo di sussidi umanitari, uccidere il bestiame, fonte di sostentamento per molti sudanesi del Sud, fare razzie, in particolare di ragazze cristiane, che vengono portate al Nord, stuprate e vendute come schiave o concubine di anziani ricchi sudanesi. Secondo il rapporto 2001 di Amnesty International, “alla fine del 2000, la guerra civile, ripresa nel 1983, era costata la vita a quasi due milioni di persone ed era stata la causa dello sfollamento forzato di altri 4.500.000. Decine di migliaia di persone sono state spinte dal terrore a lasciare le proprie case nell’area del Nilo superiore, ricca di petrolio, in seguito a bombardamenti aerei, esecuzioni di massa e torture”.

Si deve infine ricordare un fatto che spesso si dimentica perché l’Arabia Saudita è la maggiore fornitrice di petrolio del mondo occidentale, e quest’ultimo ha quindi interesse a non guastare i suoi rapporti con quel paese. In realtà, nell’Arabia Saudita, dove vige il wahhabismo, non solo non è possibile costruire una chiesa o anche un piccolissimo luogo di culto cristiano, ma è severamente proibito con pene durissime ogni atto di culto cristiano e anche ogni segno di fede cristiana. Così circa un milione di cristiani e cristiane, che lavorano in Arabia Saudita, sono privati, con la violenza, di ogni pratica e di ogni segno cristiano.

Essi possono partecipare alla messa o ad altre pratiche cristiane – e anche allora con grave pericolo di perdere il lavoro – soltanto nei locali delle imprese petrolifere estere. Eppure, l’Arabia Saudita spende miliardi di petrodollari, non a beneficio dei suoi cittadini poveri o dei musulmani poveri di altri paesi musulmani, ma per costruire in Europa moschee e madrasa e finanziare gli imam delle moschee in tutti i paesi occidentali. Si può ricordare che la moschea romana di Monte Antenne, costruita su un suolo donato gratuitamente dal governo italiano, è stata finanziata principalmente dall’Arabia Saudita ed è stata costruita per essere la moschea più grande d’Europa nel cuore stesso della cristianità.

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Quella che segue è un’intervista uscita sull’ultimo numero di “Il Regno”, quindicinale dei religiosi dehoniani di Bologna. L’intervistato è un cristiano copto-ortodosso, direttore di un settimanale del Cairo. Il ritratto che dà della condizione dei cristiani in Egitto – abitualmente classificato tra i paesi arabi “moderati” – conferma in pieno quanto scritto più in generale da “La Civiltà Cattolica”:

Cristiani in Egitto. L’umiliazione continua

 Intervista con Youssef Sidhom, direttore di “Watani”

(Intervista a cura di Camillo Ballin e Francesco Strazzari)

IL CAIRO – Youssef Sidhom è direttore del settimanale “Watani”, la mia patria. Fondato nel 1958 da suo padre, Antoun Sidhom, s’è sempre prefisso di pubblicare notizie e commenti sulla Chiesa e sul cristianesimo, temi completamente trascurati in tutti gli altri giornali egiziani. Molti pensano che sia un giornale della Chiesa copto-ortodossa, ma non è così. È indipendente e non ha relazioni particolari con tale Chiesa, né tanto meno riceve da essa sussidi. […]

Quali sono i principali problemi dei cristiani in Egitto?

Il problema che più ci colpisce è la difficoltà estrema ad avere il permesso di costruire una chiesa. La legislazione attuale offre tutte le facilitazioni per la costruzione di moschee, mentre frappone ostacoli quasi invalicabili per la costruzione di chiese. Nel 1934 il sottosegretario al Ministero degli interni, Muhammad al-‘Azabi, pose dieci condizioni per dare il permesso di costruire una chiesa e tali condizioni sono tuttora valide. Ne citiamo alcune: una chiesa non deve essere costruita su un terreno agricolo; non deve essere vicina a una moschea né a monumenti; se viene costruita in una zona abitata anche da musulmani, occorre avere prima il loro permesso; ci deve essere in quella zona un numero sufficiente di cristiani; non devono esserci altre chiese vicine; occorre il permesso della polizia se si è vicino a ponti sul Nilo o a suoi canali o alla ferrovia; è necessaria la firma del presidente della repubblica. Tutte queste condizioni causano difficoltà insormontabili. Infatti, prima che si arrivi ad avere il permesso della polizia, possono passare anche più di dieci anni e nel frattempo sorgono in fretta moschee vicine al terreno dove si voleva costruire la chiesa, per cui si cade in un altro divieto. Inoltre, non è specificato quanti devono essere i cristiani per avere diritto alla chiesa. Se, per esempio, ce ne sono 1.500, il governo può dire che non è un numero sufficiente, quando ne basterebbero cento per riempire una nostra chiesa”.

Ma il presidente Mubarak non ha facilitato i rilasci di questi permessi delegandoli ai prefetti delle province?

“Sì, ha consentito che i permessi siano dati dai prefetti delle province e un anno più tardi ha stabilito che possono essere dati anche dall’autorità locale del paese. Ma questa delega riguarda solo i permessi per riparazioni e ristrutturazioni delle chiese. Il permesso di costruire una chiesa nuova è ancora prerogativa del solo presidente della repubblica. […] Questa discriminazione nella costruzione delle chiese porta i cristiani all’amara convinzione che lo stato li considera cittadini di seconda categoria. Per lo stato un cristiano è un kafir, un infedele, non conosce la vera religione né ha la vera fede, quindi non vale la pena che sia ascoltato. In Egitto viviamo un’umiliante discriminazione su base religiosa”. […]

La discriminazione riguarda solo la costruzione di chiese o anche altri aspetti della vita sociale dei cristiani in Egitto?

“Riguarda tutta la nostra vita. C’è discriminazione nelle cariche dello stato. Per costituzione il presidente deve essere musulmano. La religione islamica è il fondamento della legislazione egiziana. Oggi nessun cristiano può essere primo ministro, benché ce ne siano stati in passato. Dei trentadue ministri solo due sono cristiani, il ministro dell’economia e il ministro dell’ambiente. Nessun sindaco di città né di villaggio può essere cristiano. Le alte cariche dell’esercito, della polizia, della guardia presidenziale sono coperte solo da musulmani. Il corpo diplomatico conta centinaia di persone, ma i cristiani sono solo due o tre. Nessun cristiano può avere un’alta carica nei tribunali. Secondo la legge occorrono due testimoni per motivare una sentenza, ma se uno dei due è cristiano, il giudice può rifiutare la sua testimonianza perché viene da un infedele. I rettori di università devono essere musulmani. […] In qualsiasi ufficio un musulmano arrivato da poco sopravanza nella carriera un cristiano che si trova in quel posto da anni. Nelle elezioni del 2000 il partito al-Watani che domina la politica del paese ha messo in lista solo 3 cristiani su 888 candidati. Un cristiano non può insegnare arabo perché questa materia è collegata all’insegnamento della religione islamica. La discriminazione è in atto anche sulla nostra carta d’identità, dove è segnata la religione del padre”.

E in caso di divorzio?

“La legge prevede che i bambini restino con la mamma. Ma se il papà vuole divorziare perché è diventato musulmano, cosa che succede spesso, il giudice stabilisce che i bambini restino con la parte che ha la vera fede, cioè con il papà. Quindi, i figli nati cristiani crescono in una famiglia completamente musulmana”.

È consentito cambiare religione?

“Uno che si fa musulmano è accolto con grandi feste. Gli si cambia molto in fretta la carta d’identità, è facilitato nel lavoro, nella casa, eccetera. Ma se un musulmano vuol farsi cristiano non solo cercheranno con tutti i mezzi di dissuaderlo, ma la sua stessa vita sarà in pericolo. Credo che ogni giorno ci siano egiziani che cambiano religione, ma è impossibile sapere quanti siano. Al-Azhar pubblicherebbe volentieri le sue statistiche, che sarebbero un segno di vittoria e di gloria, ma la Chiesa non potrà mai fare una scelta di questo tipo, perché comporterebbe moltissime tragedie. Tuttavia, c’è una sentenza di tribunale che stabilisce che se un egiziano nasce non musulmano e poi diventa musulmano e poi ancora vuole ritornare alla sua fede originaria, lo può fare. La consideriamo una grande vittoria per i cristiani. Ma uno che è musulmano di nascita non potrà mai cambiare religione, pena l’esclusione dall’eredità e dalla società di appartenenza, con pericolo per la sua stessa incolumità”.

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Cristiani nei paesi islamici, per approfondire:

Arabi cristiani, come convivere con l’Islam

Viaggio in Africa dove i cristiani restano nel mirino degli integralisti