Storia di Carmelo Porcu

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Carmelo Porcu

Il Foglio 1 giugno 2005

L’onorevole disabile che rivivrebbe tutta la sua vita così com’è. Affetto da tetraparesi spastica, ha scelto il “partito più handicappato in assoluto”, ha iniziato la carriera nell’MSI. Doveva fare il bandito

di Pietro Piccinini

Il maestro della scuola elementare di Orune portava i suoi alunni in aperta campagna e li faceva giocare a calcio. Così, in pantaloncini di velluto e scarponi corazzati da pastore, i piccoli indemoniati potevano sfogare sul pallone la loro furia e tornare in classe con un po’ di attenzione da dedicare alla lezione.

Quella volta, però, poco prima di cominciare a sollevare tutt’intorno il consueto polverone, i ragazzini di Orune dovettero fermarsi per considerare un problema inedito, quel loro nuovo compagno tutto storto e un po’ deboluccio che il maestro aveva buttato in mezzo alla mischia: “E a Carmelo cosa gli facciamo fare? Dove lo mettiamo Carmelo?”.

Carmelo stava in piedi per miracolo, scomposto com’era, e se si provava anche solo di parlare il suo corpicino gracile si agitava tutto, convulsamente. Figurarsi se riusciva a calciare diritto un pallone. Ma quelli erano gli anni Sessanta, gli anni in cui il Mago Helenio Herrera faceva faville con l’Inter di Moratti (Angelo), e a qualcuno dei bambini di Orune venne subito l’idea: Carmelo doveva fare l’allenatore. Doveva fare Herrera, Carmelo.

“Ecco come ho potuto addirittura giocare a calcio, io: facevo l’allenatore, e organizzavo contemporaneamente l’una e l’altra squadra”. Oggi, 2005, il Mago Herrera della Barbagia non fa più l’allenatore, è un deputato del Parlamento della repubblica. Come sempre, quando parla, il suo corpo freme incontrollato, perché la tetraparesi spastica che lo affligge è irreversibile, ma con quel fisico deformato l’onorevole Carmelo Porcu ora ha imparato a convivere.

E a scherzare: “Io sono un sardo della Barbagia, nel mio Dna c’è scritto che avrei dovuto fare il bandito o il sequestratore. Perciò, visto che mi manca la forza fisica, ho scelto di intraprendere la carriera politica”.

La carriera politica Carmelo Porcu ha scelto di cominciarla nell’Msi. Scelta paradossale per uno che i nazisti probabilmente avrebbero infilato vivo in un forno crematorio. “Ma io che potevo fare? Da handicappato ho scelto il partito più handicappato in assoluto”. E gli è andata di lusso, visto che oggi Porcu è coordinatore regionale di Alleanza nazionale per la Sardegna: “In effetti in politica mi sono trovato bene, e posso garantire che da handicappato a Montecitorio non ho mai sofferto la solitudine”.

L’onorevole ride volentieri del suo corpo traballante, ma il caso Carmelo Porcu farebbe rabbrividire tutti gli illustri dottori referendari alla Umberto Veronesi, i quali vanno dicendo che la legge 40 condanna i disabili alla vita, e alla vita da disabile. Ed è proprio per questo che oggi l’onorevole Porcu al suo brutto corpo è affezionato più che mai, e ha deciso di raccontarne la storia drammatica – “ma in punta di piedi, con discrezione, perché mi dà fastidio mettere in piazza queste cose” – “per difendere la legge 40, perché mi sto rendendo conto che tutto il grande progresso culturale e di costume che abbiamo compiuto in tanti anni riguardo al problema della disabilità viene ora rimesso in discussione.

Si dice che i disabili non devono venire più al mondo, e nessuno fa una piega, nemmeno le sinistre, che si stracciavano le vesti quando la società ignorante di qualche decennio fa si azzardava solo a trattare uno spastico come me da disabile anche mentale. Oggi invece perfino loro si permettono il lusso di predicare una felicità che può essere definita a priori”.

Per Carmelo Porcu il Mondo Nuovo verso cui il nostro secolo precipita, è per certi versi un tuffo all’indietro “negli anni Cinquanta-Sessanta, quando l’avere in casa un figlio disabile era considerato disdicevole, una sorta di marchio d’infamia, una punizione del destino, una colpa da lavare”. Cinquant’anni di battaglie e conquiste sociali spazzati via in un istante: “All’epoca in cui mia mamma mi portava in braccio, da piccolino, la gente che ci incontrava si commuoveva. ‘Oh poverino, questo bambino!’, le dicevano.

Qualche volta anche esagerando, in maniera pietistica, ma comunque sempre esprimendo solidarietà. Adesso, al contrario, le donne come mia mamma (che sono delle donne-coraggio, donne che faticano in maniera sovrumana per portare avanti la vita dei loro figli disabili, che amano i loro figli e più sono disabili e più li amano) invece di sentirsi amate, ammirate o comunque di sentire la solidarietà degli altri, si sentono quasi rimproverate: ‘Perché hai messo questo figlio al mondo? Non c’hai pensato? Ti è sfuggita la situazione di mano?’.

Io allora mi chiedo: perché non facciamo loro coraggio, piuttosto di scoraggiarle a fare nascere quelli come me? E poi qual è la giuria? C’è chi accampa la pretesa assurda di poter dire a un altro uomo: ‘Tu non sarai felice. Per questo non devi venire al mondo’. In un’epoca in cui il progresso della scienza potrebbe permettere anche agli handicappati più gravi di superare moltissime barriere, e in cui il progresso civile ci permette di considerare cosa condivisa il fatto che tutte le persone sono uguali, si cerca contraddittoriamente di far passare questa possibilità di scelta come positiva, mentre è solo la premessa ipocrita di una società che si avvia ad ammettere le pratiche eugenetiche. Tutto questo mi ha convinto a vincere la naturale riservatezza con cui parlerei della mia malattia”.

Così Carmelo Porcu comincia a raccontare la sua vita, una vita interamente determinata da quelli che lui chiama “i miracoli dell’Amore con la a maiuscola, che sono quei fatti che avvengono quando c’è difficoltà a riconoscere la vita e allora è la vita stessa si fa riconoscere, che si fa vedere”.

Miracolo dell’Amore numero uno, la nascita. “Mia mamma aveva avuto numerosi aborti spontanei prima di concepire me, e i medici le avevano diagnosticato che non avrebbe più potuto avere figli. Quindi affrontò la mia gravidanza quasi con un po’ di leggerezza, aspettandosi che si verificasse uno dei soliti aborti. Invece nacqui, ma accadde prematuramente (ero di otto mesi), a casa, senza assistenza medica.

La levatrice che assisteva mamma durante il parto, quasi spaventata da com’ero ridotto, mi diede alle donne di casa, le quali furono subito davanti al problema di capire se io ero vivo o morto. Si sincerarono del mio essere in vita attraverso il metodo empirico. Mi misero cioè il dito mignolo in bocca per vedere se succhiavo. Quando videro che in effetti succhiavo, tutte si misero a gridare: ‘Vivu este! Vivu este!’, che in sardo significa: ‘E’ vivo! E’ vivo!’”.

Così, nel 1954, Orune si rese conto che Carmelo Porcu era vivo. E soprattutto che, nonostante le previsioni, sopravviveva. “Contrariamente a tutto ciò che si poteva prevedere umanamente, fui accettato con grandissimo amore dai miei genitori, dalla mia famiglia e successivamente da tutta la comunità paesana, che in un certo senso mi adottò. Divenni una specie di mascotte.

Mi vedevano crescere con i miei problemi fisici, ma mi sollecitavano sul piano dell’intelligenza, facendo crescere la mia sicurezza e la mia voglia di stare in mezzo agli altri. Allora che i miei genitori fecero un ragionamento da gramsciani inconsapevoli: nella società barbaricina di allora i maschi, i forti, andavano in campagna a lavorare e a seguire il bestiame, mentre le donne, nelle famiglie che potevano permetterselo, venivano mandate a studiare; ebbene io, nella mia condizione di debolezza, ero equiparabile a una donna e fui mandato a scuola. I miei erano convinti che il mio riscatto dovesse venire attraverso l’istruzione, la scuola”.

E proprio a scuola avvenne il secondo miracolo dell’Amore nella vita di Porcu: quel bambino tutto contorto fu accolto a braccia aperte dagli insegnanti e dai compagni di classe. “Grazie a questa accettazione, riuscii addirittura a compiere il percorso scolastico ‘normale’, in un momento in cui in Italia non c’erano leggi per l’inserimento dei negli istituti scuole. Anzi, credo di essermi inserito molto di più io allora di quanto non lo siano, purtroppo, molti disabili oggi che quelle leggi esistono”.

L’impatto con l’istituto

Poi Porcu fa una breve pausa, come per prepararsi ad assorbire un colpo tremendo: “Per le scuole medie fui ricoverato in un istituto per ragazzi disabili, perché la mia famiglia pensava che accanto all’istruzione dovesse esserci il tentativo di recuperarmi sul piano fisico. Perciò mi mandarono al centro di Sassari, dove studiai e insieme mi sottoposi al trattamento fisioterapico. Fino a quel momento avevo vissuto in una sorta di ignoranza sulla realtà dell’handicap: io facevo perfino a botte con i miei compagni di scuola, mi bastava appoggiarmi al muro per menare come tutti gli altri. Vivevo una perfetta integrazione. Invece quando vidi gli altri ricoverati, scoprii l’handicap. E fu una scoperta traumatica”.

Gli occhi di Carmelo Porcu si velano di lacrime mentre il disabile onorevole si prende un attimo pesante quanto tutte quelle vite vissute nel dolore. “In mezzo a quei quattrocento handicappati da tutta la Sardegna, ho vissuto anche con persone in uno stato paragonabile a quello di Terri Schiavo. E ho imparato a riconoscere, perfino in loro, lampi di vitalità e – perché no? – di felicità, sia pure fra tutte le virgolette possibili e immaginabili. E’ bellissimo poter vedere la vita anche in chi sembra non averla quasi più.  La forma più debole di vita è quella che merita di essere più tutelata. Se vogliamo costruire una società più umana, dobbiamo affrontare il anche discorso della non perfezione dell’uomo, che è bello in qualunque situazione e persino quando è più limitato. Ecco perché l’esistenza degli handicappati è utile, perché insegna a tutti che la vita non è perfetta, non è uno spot pubblicitario”.