Dal dibattito sull’antifascismo alla malattia morale

antifascistiArticolo pubblicato su Il Tempo del 3 febbraio 1988

Dove sta andando l’Italia?

di Augusto Del Noce

Le parole del senatore Merzagora secondo cui l’Italia «sta attraversando uno dei periodi più nefasti e più difficili della sua storia» meritano attenta considerazione.

Mi permetto di tradurre in questi termini: moralmente l’Italia è minta da una malattia che, a lungo andare, in tempi che ancora non possiamo prevedere, può manifestarsi mortale. Ora, la diagnosi è possibile anche se per farla occorre un relativo coraggio, perché urta troppe abitudini intellettuali e morali.

Questa situazione non può non essere che il risultato di un processo che si è svolto nel quarantennio in cui l’antifascismo ha dominato. Può dispiacere il riconoscerlo, ma è necessario. Inutile cercare di nasconderlo: l’antifascismo deve essere messo in questione e non soltanto perché, come si è sostenuto, in polemiche recenti, il fascismo appartenga al passato e non abbia possibilità di risorgere, o perché il concetto di fascismo non esaurisce quello di antidemocrazia. E i primi a doverlo fare sono coloro che l’hanno vissuto, e legato ad esso i valori a cui più tengono.

Cominciamo con l’osservare che l’antifascismo dei tardi anni ’80 ha poco in comune con quello degli anni ’30. Questo era professato, nella generazione allora giovane, da pochissimi e, nel ceto intellettuale, tali giovani guardavano a Croce , se laici, a Maritain se cattolici; o ancora, nelle espressioni più intensamente religiose, a Capitini, se laici, a La Pira se cattolici.

In nome della “virtù” sfidavano la “fortuna” che sembrava essersi pronunciata per il fascismo e il nazismo, forze che sembravano avanzare travolgendo ogni ostacolo. L’antifascismo successivo non è una sua continuazione, al fascismo non mancò davvero il consenso, finchè la sorte gli fu favorevole; la “conversione” avvenne nella forma di «passaggio al campo dei vincitori».

L’equivalenza tra male e autorità

Si può anche dire: antifascista negli anni Trenta era aggettivo,. Si era cioè antifascisti in nome di un’idea universale, quale che essa fosse: era essa a far pronunziare il giudizio negativo. Quando le cose mutarono, e la fortuna cambiò direzione, all’aggettivo antifascista si sostituì l’antifascismo sostantivo. Il fascismo essendo diventato “il male”, si giustificò la scelta per una particolare posizione ideale o politica col cercare di mostrare come essa realizzasse un più profondo o più vero antifascismo . Si arrivò invece al puro rovescio del fascismo. Si è parlato spesso di una continuazione del fascismo nel postfascismo; giudizio che è giusto quando si precisi che la continuazione sta qui.

E cioè: si cominciò a pensare, conseguenza dell’atmosfera di guerra – di una guerra ideologizzata quale altra mai nella storia – che il fascismo fosse «il male assoluto» o almeno la forma in cui esso si manifestava nel nostro secolo; la totalità dei mali vi veniva compendiata.

Si pensava dunque, e si continua a pensare in larghi ambienti, a un’essenza unica del fascismo che si sarebbe manifestata in forme diverse, ma analoghe, a seconda delle varie tradizioni nazionali fino trovare la sua espressione piena nel nazismo; e siccome, per designare questa essenza, occorreva indicare un carattere comune si era costretti a cercarlo nello “spirito autoritario”; in conseguenza di ciò, tutto quel che contraddiceva l’idea di autorità veniva automaticamente promosso a “bene” e a segno di progresso nella modernizzazione.

L’epoca del fascismo era segnata, e questo è vero, dalla retorica degli ideali; quella successiva lo fu dalla loro pretesa demistificazione. Ma essa, se almeno si riconosce che ogni atteggiamento esistenziale corrisponde a una posizione filosofica, nel suo generalizzarsi non poteva finire che con l’assumere il significato di subordinazione del morale all’economico, dell’intelletto al senso.

L’età nuova sorta nel segno della liberazione, minaccia perciò di coincidere con quel che Marx chiamava il «materialismo crasso» ravvisandovi l’ultima involuzione della mentalità borghese. In verità tutti gli aspetti di questa mentalità trovano oggi piena manifestazione, così teorica come pratica l’utilitarismo, l’edonismo, l’egoismo; e non vi è chi non lo veda. Incontriamo per questa via il senso di un parola resa loora dall’uso improprio, ma che tuttavia non riesco ora a sostituire permissivismo.

Il fascismo veniva configurato come il sistema dei “divieti”, del “tabù”, ecc. (e quanto fu scritto a questo riguardo): tutto ciò che il fascismo aveva vietato o ostacolato diventava di conseguenza lecito. Ossia «tutto è permesso», purché siano rispettate quelle regole del giuoco che in e non hanno valori morali, ma sono necessarie alla società, come garanzia della coesistenza fisica dei soggetti. Insomma, è la morale di «quelli che ce la fanno e quelli che non ce la fanno», il farcela legittimando ogni modo di agire.

Che questo sia il criterio di valutazione oggi prevalente è indubbio.

Cittadini e partiti senza ideali

Quel che occorre chiarire è il processo attraverso cui ci si è arrivati. Che sia nella contraddizione più estrema con lo spirito dell’antifascismo originario è indubbio; ma come esso non ha resistito?

Una via può essere rintracciata in quella “sostantivazione” dell’antifascismo, come se esso includesse tutti i valori ella moralità. Il passaggio «al campo dei vincitori» a cui la si è collegata è un fenomeno patologico; però, rispetto alla storia, normale. Il problema è render conto come sia arrivato a inquinare la cultura sino a dominarla e come abbia esercitato la sua influenza sulla politica. Si tratta di un tema estremamente ampio; quel che qui ci si limita a proporre è una ricerca sinora mai condotta.

Diamone comunque i primi tratti, facendoli precedere dall’avvertenza che non si tratta di ricerca di colpe, ma di individuazione di errori, anche se in politica gli errori hanno più peso delle colpe. Si può trovare la radice della sostantivazione dell’antifascismo nel “ciellennismo”, termine con cui intendiamo qualcosa di ben distinto dal Comitato di Liberazione Nazionale, inteso come coalizione provvisoria di partiti d’impostazione ideale affatto diversa contro un comune avversario.

Ciellennismo vuol dire invece interpretazione di tale comitato come se a suo fondamento vi fosse un’unità ideale al di la delle differenze; e come se nella costruzione della nuova Itaklia tale unità non dovesse mai venire dimenticata. La sostennero allora i comunisti, nel pensiero che così l’anticomunismo venisse neutralizzato; «ogni anticomunismo è fascismo», «il fascismo è anzitutto anticomunismo piuttosto che antiliberalismo», furono formule che ebbero ampia circolazione nei primi anni del dopoguerra.

Non furono però loro a inventarla o a insistervi in modo particolare; la sua paternità risale al Partito d’Azione, che in quanto unico partito sorto direttamente contro il fascismo, nell’affermazione dell’unità tra quelle due forme del pensiero politico moderno, liberalismo e socialismo, che il fascismo aveva combattuto, pretendeva esserne la guida ideale. Questo partito uscì presto dall’agone della politica elettorale per passare a quello della politica della cultura ove ha indubbiamente svolto una funzione egemonica che influenzò in modo decisivo, nonché il costume, anche l’effettiva politica. Così che questa idea del CLN trovò una sua riaffermazione nei primi anni ’70 con l’arco costituzionale.

Il risultato è stato in tutti i partiti la neutralizzazione degli ideali, o almeno la tendenza in questo senso. Molto scarso infatti, o relegato in una zona della coscienza che sfugge al controllo, è il ricordo nei democristiani dell’idea di cristianità come ideale eterno che prmane tale, quali ce siano le forme storiche che può assumere. Lo stesso si può dire per il PCI ove della società degli uguali come fine ultimo si è spento il ricordo e sempre più di rado si fa appello, nonché a Marx, allo stesso Gramsci.

Non si dica che ciò avviene in nome della concretezza dei problemi particolari e neppure se ne cerchi la positività per ciò che eliminerebbe l’intolleranza. In realtà, l’omissione degli ideali ultimi coincide con la perdita di rappresentatività e con la disaffezione per la politica. Da partiti senza ideali ultimi il singolo non si sente rappresentato in quanto ha di meglio. Molto si è detto sulla fattura che sui è determinata tra il palazzo e il paese: ebbene, è qui la sua ragione. E il singolo che non può più sentire lo Stato come il suo Stato si richiude nel suo egoismo.

Come si vede, troppi problemi sono stati indicati in questo articolo perché si debba aggiungerne altri. Soltanto, per concludere: si deve fare molta attenzione nell’usare la consueta formula della Repubblica fondata sui valori «dell’antifascismo e della Resistenza». Perché, che cosa pensare di una Repubblica che è fondata non su per, ma un contro?

Oltre al fatto, su cui non si insisterà mai abbastanza, che elevare il fascismo a male del secolo non può che essere il frutto di un’indebita astrazione rispetto alla storia contemporanea vista nel suo insieme; e questo dovrebbero saperlo soprattutto i cattolici che hanno nel “secolarismo” o nell’espansione dell’ateismo, nel suo passaggio dalla teoria alla pratica, una chiave interpretativa della storia di questo secolo di ben altro valore; certamente il fascismo fu, seppur ondeggiando tra aspetti contraddittori, tra le forme di secolarismo, ma non la più importante e la più radicale.