Nicolás Gómez Dávila

Gomez Davila

Nicolás Gómez Dávila

pubblicato dal settimanale Tempi

L’hidalgo di Cristo. Postmoderno

Dalle Ande agli Appennini, in attesa di una calata dalle Alpi alle piramidi, sbarca in Italia un ispanofono noto nel mondo di lingua tedesca e tradotto da un germanista. Come dire: passaggio dal Manzanarre al Reno. Un suo pionieristico scopritore ne descrive mentalità, tecnica espressiva, efficacia. E una fissazione: glossare, continuamente “in progress”, un misterioso “testo implicito”. Che esplicitamente manda all’aria le presunzioni e le (false) certezze del “progetto illuministico”

di Giovanni Cantoni

Nicolás Gómez Dávila nasce il 18 maggio 1913 in Colombia, a Cajicá, nel dipartimento di Cundinamarca, di cui è capoluogo la capitale dello Stato iberoamericano, Santa Fe de Bogotá, da una famiglia dell’alta società. Non si laurea e della sua formazione si possono considerare regolari solo gli studi, elementari e medi, compiuti privatamente durante una lunghissima permanenza in Francia, dai sei ai ventitrè anni.

Un ricco eremita in casa propria

La sua naturale avidità intellettuale si esprime nelle pratiche della lettura e della riflessione, confermate e trasformate – per così dire – da stile di vita in destino da un incidente occorsogli a cavallo, incidente che lo condiziona e contribuisce a relegarlo, dai primi anni 1960, in casa propria, «ubicata in un’affollata via di Bogotá, in mezzo al traffico e al rumore della strada, come un monumento preistorico che la routine sembra condannare alla dimenticanza, nonostante la sua isolata bellezza»: in questi termini Óscar Duque Torres, uno dei suoi pochi critici, descrive suggestivamente l’abitazione, in stile Tudor.

Così Gómez Dávila vive quasi trent’anni come in clausura, da «certosino dell’altopiano» – la definizione è dello stesso critico e l’altopiano è quello dov’è situata Santa Fe de Bogotá, a 2630 metri d’altitudine -, nella «cella» costituita dalla sua monumentale biblioteca, di oltre trentamila volumi, soprattutto in lingua originale, dal momento che rifiuta le traduzioni: greco, latino, tedesco, inglese, portoghese, francese, italiano, russo e, naturalmente, spagnolo.

Vi riceve una mezza dozzina d’interlocutori – fra loro il critico e scrittore Hernando Téllez (1908-1966), il dotto frate minore Félix Wilches (1905-1972) e l’uomo politico conservatore, diplomatico e appassionato d’arte, Douglas Botero Boshell (1916-1997) – e l’abbandona quasi solo per la «cappella», la chiesa del convento francescano de La Porciúncula, nella stessa via.

Torna in Europa nel 1959, per un soggiorno di sei mesi con la moglie, María Emilia Nieto de Gómez, sposata quasi immediatamente dopo il suo rientro dalla Francia. Muore il 17 maggio 1994, mentre s’appresta a studiare il danese per accostare Søren Kierkegaard (1813-1855), seguendo la moglie, scomparsa l’anno precedente, e lasciando tre figli e alcuni nipoti.

Gli scritti: «glosse a un testo implicito»

Di fatto Gómez Dávila è autore di una sola grande opera continua, Escolios a un texto implícito, la cui pubblicazione inizia con questo titolo nel 1977, prosegue nel 1986 come Nuevos escolios a un texto implícito e si conclude, nel 1992, come Sucesivos escolios a un texto implícito.

Tutti questi volumi hanno la stessa struttura e sono frutto della medesima concezione: una sequenza di escolios, di «glosse», in un certo senso anticipate, con il modesto titolo di Notas, nel 1954 in un’edizione privata in Messico, quindi, nel 1956, sulla rivista d’avanguardia colombiana Mito. In apparenza diverso è il volume Textos I, del 1959, un testo unico con qualche rara suddivisione, che raccoglie pensieri in paragrafi l’uno seguente l’altro, poi «svanito» nella stessa consapevolezza dell’autore, così come costituiscono eccezioni, dal punto di vista formale, i saggi Il vero reazionario e De Jure.

Ma in Textos I, che non avrà il seguito che il titolo lascia intendere, sono già presenti i caratteri delle glosse, meno il «testo implicito»: un pensiero libero e concentrato e un’espressione ricercata.

La fortuna dello «scrittore reazionario» o la «celebrità discreta»

Gli scritti del pensatore colombiano vengono proposti al pubblico, nonostante la sua ritrosia e solo grazie all’interessamento dei pochi ma fedelissimi amici: trattandosi però di amici socialmente e politicamente altolocati, si dà il caso inconsueto di un autore «sconosciuto» pubblicato da editrici «nazionali» nel senso di «pubbliche», di quelle il cui catalogo suggerisce piuttosto un deposito di «classici da non leggere più» che non una vetrina di nuovi talenti. Inoltre – la notazione è dello stesso Gómez Dávila -, «lo scrittore reazionario deve rassegnarsi a una celebrità discreta, dal momento che non si può ingraziare gl’imbecilli».

La letteratura critica è limitata a una tesi, sostenuta da Mauricio Galindo Hurtado, colombiano, presso un’università britannica, e a qualche saggio quando non a rievocazioni giornalistiche. Fra i giudizi, meritano di essere riferiti quelli di ben altrimenti noti scrittori suoi compatrioti. Il romanziere e poeta Álvaro Mutis Jaramillo – uno dei suoi frequentatori – parla di Escolios a un texto implícito come di «un capolavoro del pensiero occidentale», «[…] una vasta summa di sapere, disseminata […] di allusioni e di elusioni, la cui piena utilizzazione supporrebbe lunghe veglie con i testi essenziali della nostra eredità ebraica, ellenica, romana, cristiana e occidentale»; e la definisce «opera superba che presenta nello stesso tempo una feconda teoria della storia e un’inconfutabile dottrina politica, un’essenziale meditazione sulla poesia e un non meno definitivo esame del pensiero metafisico e teologico», tale da essere – prevede – motivo di scandalo per gli «[…] eredi della tradizione liberale e democratica nata con la riforma protestante, incubata nel secolo dei lumi e battezzata con il sangue nelle giornate del 1789», ma atta a esser utilizzata anche dall’uomo qualunque – come dice con espressione italiana -, dal momento che, per quanto «inconsueta e vasta», «[…] concerne anche i nostri affari di tutti i giorni». E del romanziere Gabriel García Márquez viene citata l’impegnativa affermazione: «Se non fossi comunista, penserei come Gómez Dávila».

Segnalati tempestivamente nel mondo di lingua tedesca dal filosofo cattolico Dietrich von Hildebrand (1889-1977), gli scritti e il pensiero di Gómez Dávila vi fanno la loro comparsa negli anni 1980 grazie a un’editrice conservatrice viennese: egli acquisisce così fra i suoi estimatori lo scrittore Ernst Jünger (1895-1998), che parla della sua opera come di «una miniera per amanti del conservatorismo»; lo studioso e pensatore politico Erik Maria von Kuehnelt-Leddihn (1909-1999) e il filosofo Robert Spaemann.

Il pensatore colombiano giunge finalmente in Italia nel 2001, in apertura di secolo e di millennio, con In margine a un testo implicito, una consistente scelta della prima metà del primo volume della prima raccolta, Escolios a un texto implícito, curata con amore e maestria dallo storico della filosofia e germanista Franco Volpi, dopo che, nel 1999, ho tradotto sulla rivista Cristianità di Piacenza uno dei suoi pochissimi saggi, Il vero reazionario, e che, nello stesso anno e nel 2000, l’autore è stato presentato in diverse sedi dallo stesso Volpi e da chi scrive. E pensieri brevi stanno «filtrando», talora via Internet, in Polonia e in Francia.

Il genere letterario: la tecnica «pointilliste» e le «brevi frasi»

L’opera di Gómez Dávila va esaminata secondo le prospettive formale e contenutistica non per scelta del critico, ma perché indicate, più che soltanto suggerite, dai titoli spogli dei suoi volumi, privi di qualsiasi richiamo, costituiti dalla reiterazione di «glosse» e di «testo implicito». Si tratta infatti di consistenti raccolte di pensieri brevi – oltre diecimila -, ai quali l’autore nega la natura di aforismi: «Ciò che il lettore troverà in queste pagine non sono aforismi» – scrive -, «le mie brevi frasi sono tocchi cromatici di una composizione pointilliste».

E il riferimento alla tecnica pittorica pointilliste, in una delle prime glosse della prima raccolta, costituisce indicazione ermeneutica fondamentale, che vieta un giudizio non d’insieme sulla «composizione» e sull’«artista» – sua la dichiarazione: «Pretendo soltanto di non aver scritto un libro lineare, ma un libro concentrico» – e che suggerisce un apprezzamento corrispondente dei singoli «punti», dei singoli «tocchi cromatici»: «Il discorso continuo – sentenzia – tende a occultare le rotture dell’essere. Il frammento è espressione del pensiero onesto».

Quanto alle «brevi frasi», «un testo breve non è una dichiarazione presuntuosa, ma un gesto che appena abbozzato si dissolve»; e l’aforisma «negato» è però difeso, svelando la consapevolezza della difficoltà di definirlo: «Accusare l’aforisma di esprimere soltanto parte della verità equivale a supporre che il discorso prolisso possa esprimerla tutta»; viene denunciata la prolissità – «La prolissità non è un eccesso di parole, ma una carenza di idee» – e tessuto l’elogio del testo breve in quanto «poetico», cioè creativo, quindi costruttivo per il lettore: «L’opera frammentaria si fa poesia nel momento in cui ci obbliga a completare le sue curve mutile».

Lo «spettro» dell’aforisma va infatti dalla definizione alla massima, alla «degnità» – il richiamo è a Giambattista Vico (1668-1744) -, alla «monografia compressa» – la formula è dello studioso canadese della comunicazione Marshall McLuhan (1911-1981) -, alla glossa, alla breve osservazione, al rimando, all’appunto, alla nota a margine.

E costituisce retaggio dell’oralità, assillata dal problema della conservazione della memoria, ed elemento di una plurisecolare farmacopea spirituale, così dando implicite istruzioni sulla «posologia» del testo, quindi sulla sua lettura e fruizione: si tratta di piccole e dense «dosi» da non trangugiare in una sola volta, dal momento che non hanno un inizio e una fine, ma piuttosto un centro, e delle quali la tecnologia della scrittura nell’«epoca della sua riproducibilità tecnica», cioè della stampa, permette di ricuperare a volontà la sostanza orale e oracolare.

Dunque, glosse a margine. Ma a margine di che? S’impone, oltre il contenuto di tali glosse, l’identificazione del texto implícito. I critici propongono due ipotesi, in alternativa o in combinazione: una letterale e l’altra lata. Quella letterale, stretta, rimanda a un ampio tratto dei Textos I di dura polemica sia con la «democrazia» che con l’«uomo democratico», intesi come espressioni e portatori di una visione del mondo che coglie la verità come tesi suffragata dal consenso quantitativo, maggioritariamente; quella lata identifica tale testo con l’intero corpus culturale dell’Occidente, da Omero ai contemporanei.

Il «pensiero reazionario»

Se il genere dell’opera favorisce l’apprezzamento anzitutto del paradosso, un’attenzione maggiore permette l’identificazione in essa di una dialettica di tipo vichiano fra «stoltezza» e «sapienza», nascoste dalla varietà delle formulazioni dell’una e dell’altra: «Cambiano meno gli uomini idee che le idee i loro travestimenti. Nel corso dei secoli dialogano le stesse voci».

Ma «imbecillità», «stupidità» e «follia», oppure, con riferimento temporale, «modernità», possono suggerire nell’autore pura emotività e far dimenticare sia la gamma espressiva che l’espressione singola, talora strutturata a paradosso, cioè a figura logica in apparenza assurda in quanto contrastante non solo, eventualmente, con il buon senso, ma, nel caso, con l’opinione corrente, e atta peraltro a decantare in proverbio.

Dal punto di vista culturale, del pensiero reazionario Gómez Dávila non coglie e non svolge solamente l’ascendenza spagnola – ricordo, anche per la consonanza formale, i Pensamientos varios di Juan Donoso Cortés (1809-1853) -, francese o anglosassone, ma pure quella tedesca; quindi procede a un ricupero del romanticismo, non solo del pre-romanticismo della sensibilité e della sensibility, sia contenutisticamente, sia espressivamente, attraverso l’apprezzamento della continuità fra pensiero contro-rivoluzionario e poesia soprattutto ottocentesca. Infatti, «la poesia del secolo XIX è l’eredità lasciata alla letteratura dalla contro-rivoluzione soffocata».

Sì che – osserva acutamente -, «identificando romanticismo e democrazia, così condannando il romanticismo, Maurras [Charles, 1868-1952] è caduto in un terribile errore. Condannando il romanticismo, Maurras condannava il pensiero reazionario e adottava un’ideologia rivoluzionaria in nome della contro-rivoluzione».

Dal punto di vista sostanziale «la saggezza consiste semplicemente nel non insegnare a Dio come si debbano fare le cose» e a vivere l’individualità, l’irripetibilità e la frammentarietà nel mistero: «Contro lo svuotamento moderno del mistero affermiamo la sua presenza inglobante» e, anzitutto, che «la verità è una persona».

Però «la radice del pensiero reazionario non è la sfiducia nella ragione, ma la sfiducia nella volontà»; e il pensiero reazionario viene abbozzato almeno su tre «cavalletti», suggeriti da un’autoqualificazione: esser l’autore «cattolico, reazionario e retrogrado». Cioè di tale pensiero non rilevano solamente le dimensioni politiche e culturali, ma anche – se non soprattutto – le radici religiose ed esistenziali: se «la Reazione comincia a Delfi» e se «la Reazione è cominciata con il primo pentimento», «la reazione esplicita comincia alla fine del secolo XVIII; ma la reazione implicita comincia con l’espulsione del diavolo»; ed «essere reazionario significa capire che l’uomo è un problema senza soluzione umana».

Così i testi brevi sono percorsi da una vena polemica, talora esplicita e dura, in aggressivo contrasto con ogni filosofia e con ogni teologia razionalistiche, perché «razionalismo è lo pseudonimo ufficiale dello Gnosticismo», «la democrazia è la politica della teologia gnostica», «la Gnosi è la teologia satanica dell’esperienza mistica. Nell’interpretazione gnostica dell’esperienza mistica si genera la divinizzazione dell’uomo», e «l’ugualitarismo è inferenza gnostica: infatti ogni particella della divinità è ugualmente divina». Si tratta di una prospettiva filosofica e teologica negativa, che richiama quella platonico-tomistica di Josef Pieper (1904-1997).

E a tale vena se ne affianca un’altra, antimoralistica ma non certo immorale, percorsa dall’evangelica «prudenza del serpente» da affiancare alla «semplicità della colomba» (cfr. Mt. 10, 16), la cui divisa potrebbe essere «Credere in Dio, confidare in Cristo, guardare con malizia», e la cui espressione è talora non solo dura quanto al contenuto ma pure cruda quanto al modo.

Comunque, anche quando oggetto degli strali sono i cristiani, gli uomini di Chiesa e la Chiesa stessa, la «regola» è inequivoca: “Ciò che si pensa contro la Chiesa, se non lo si pensa da dentro la Chiesa, è privo di interesse”. Insomma – afferma perentoriamente Gómez Dávila -, «[…] il cattolicesimo è la mia patria» e in questo terreno coltiva «un platonismo esistenziale e uno storicismo agostiniano».

Ma l’orizzonte limitato e cupo non alimenta la disperazione, anche se «la nostra ultima speranza sta nell’ingiustizia di Dio» e «l’unica precauzione sta nel pregare in tempo»: infatti, poicé «per rinnovare non è necessario contraddire, basta approfondire», e siccome «il peso di questo mondo si può sopportare solo in ginocchio», «l’unica ragione di sperare è stata espressa perfettamente da Huizinga [Johan, 1872-1945] in una delle sue ultime parole: “Per fortuna l’uomo non ha l’ultima parola”».

E Nicolás Gómez Dávila, in attesa di ascoltare da Dio l’ultima parola a proprio riguardo, negli ultimi mesi della vita si dedica alla lettura del Catechismo della Chiesa Cattolica, dicendo rispettosamente la sua – testimonia il suo ultimo confessore, che ne celebrerà anche le esequie, monsignor Luis Carlos Ferreira, decano del capitolo della cattedrale di Santa Fe di Bogotá -, cioè avanzando riserve sullo stile in cui è redatto.

Per proseguire un incontro

Nicolás Gómez Dávila ha in breve tempo conosciuto una eccezionale fortuna editoriale anche in Italia. Ecco qualche elemento per un percorso bibliografico in italiano, dell’autore vedi Il vero reazionario, in Cristianità, anno XXVII, n. 287-288, Piacenza marzo-aprile 1999, pp. 18-20; e In margine a un testo implicito, trad. it., a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2001.

Sull’autore, vedi Óscar Duque Torres ed Ernesto Monsalve, Nicolás Gómez Dávila: la pasión del anacronismo, in Boletín Cultural y Bibliográfico, vol. 32, Santa Fe de Bogotá 1995, n. 40, pp. 31-49; il mio Un contro-rivoluzionario cattolico iberoamericano nell’età della Rivoluzione culturale: il «vero reazionario» postmoderno Nicolás Gómez Dávila, in Cristianità, anno XXVII, n. 298, Piacenza marzo-aprile 2000, pp. 7-16; e F. Volpi, Un angelo prigioniero nel tempo, in N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., pp. 157-183.

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Avvenire – 12 maggio 2001

IDEE la scoperta dello scrittore cattolico autore di aforismi

Gòmez Dàvila, il Pascal colombiano che rifiutò il pensiero «corretto»

di Alfredo Cattabiani

Nella biblioteca della sua casa, composta da trentamila volumi, trascorreva la maggior parte della sua giornata uno scrittore cattolico che si definiva provocatoriamente «reazionario»: Nicolàs Gòmez Dàvila, nato nel 1913 a Santafé de Bogotà e là morto nel 1994. Il padre, che aveva fatto fortuna commerciando in tessuti, era proprietario di una grande fattoria.

Secondo le usanze della ricca borghesia colombiana, la famiglia si era trasferita per alcuni anni a Parigi perché il figlio ricevesse una educazione europea. Se ne occuparono i benedettini che gli insegnarono fra l’altro a leggere correntemente in greco e latino i classici antichi e i padri della Chiesa. Ebbe anche modo di perfezionare la conoscenza della lingua e della cultura inglese durante i mesi estivi trascorsi in Inghilterra.

Tornato a ventitré anni in Colombia, si sposò ed ebbe tre figli. Da allora no si allontanò più dalla sua casa se non per sei mesi nel 1949, per un viaggio nell’Europa occidentale insieme con la moglie. Preferiva viaggiare con la mente più che con il corpo. Dedicava la sua vita alla lettura, alla meditazione e alla scrittura, rifiutando molte allettanti proposte di carriera politica e anche la nomina di ambasciatore in sedi prestigiose come Londra e Parigi.

Pochi finora ne conoscevano l’opera, tant’è vero che nel 1990 José Miguel Oviedo lo chiamava nella sua Historia del ensayo hispanoamericano «l’illustre sconosciuto». Ed era logico che gravasse un imbarazzato, se non ostile, silenzio su uno scrittore che nella sua opera principale, pubblicata in più anni e in più volumi, Escolis a un texto implicito, sosteneva che tutto quel che è considerato «scorretto» dai nipotini del pensiero che si autodefinì «corretto».

Ora finalmente ne possiamo leggere in italiano una prima parte col titolo di In margine a un testo implicito, a cura di Franco Volpi. E’ una raccolta di aforismi sulla scia di Balthasar Gracìan, dei La Rochefoucauld o dei Pascal. Sono folgoranti distillazioni di un discorso più ampio che egli lascia sviluppare al lettore o meglio immaginare perché questi aforismi vengono presentati già nel titolo come scolii, ovvero commenti a un testo che essi sottendono. Ma questo testo, che altro non sarebbe se non il pensiero dell’autore se l’avesse argomentato sistematicamente, non si può agevolmente ricostruire se si è stati educati alla vulgata culturale neoilluminista, rivoluzionaria e strumentalistica che ha permeato le università e la maggior parte dei mezzi di comunicazione.

Certo, un lettore in sintonia con Gòmez Dàvila non può non ripercorrere immediatamente il ragionamento che conduce a un aforisma come: «la scienza inganna in tre modi: trasformando le sue proposizioni in norme, divulgando i suoi risultati più che i suoi metodi, tacendo le sue limitazioni epistemologiche»; oppure a quello sotteso a un altro: «La religione non è nata dall’esigenza di assicurare solidarietà, come le cattedrali non sono state edificate per incentivare il turismo», dove si coglie una critica a chi, pur in buona fede, ha depotenziato il messaggio evangelico in un generico assistenzialismo.

Ma gli altri lettori? Come interpreteranno soprattutto gli aforismi che sconvolgono le loro «idee ricevute»? Come reagiranno di fronte alla sua esaltazione del «reazionario», anche se Gòmez Dàvila spiega che «il passato lodato dal reazionario non è epoca storica ma norma concreta. Quel che il reazionario ammira di altri secoli non è la loro realtà, sempre miserabile, ma la norma peculiare alla quale disobbedivano».

D’altronde vale la pena di resuscitare parole come «reazionario» che furono coniate proprio da chi non ne condivideva le idee, cioè dai rivoluzionari?

Nella sua biblioteca si è trovata tutta la Patrologia greca e latina del Migne: il che ci permette di capire come il suo pensiero si fondasse sul pensiero cristiano più antico; sicché alla luce di queste letture può essere interpretata correttamente anche una sua affermazione che, isolata, sconcerterebbe: «Il paganesimo è l’altro Antico Testamento della Chiesa», nel senso che i saggi greci antichi, da Platone a Cicerone a Plotino, così come quelli di altre religioni, testimoniano di una conoscenza, pur imperfetta e incompleta, di Dio.

Convinzione che l’accomuna a un’altra scrittrice del Novecento, Simone Weil la quale, come si rammenterà, scrisse proprio un libro intitolato La Grecia e le intuizioni precristiane.