Di moda ”il nome della Rosa”

Eco_coverArticolo pubblicato su Il Corriere del Sud n. 3; 1- 15 febbraio 2002

Una specie di manifesto velato del pensiero nominalista

di Oscar Sanguinetti

Se vogliamo avere un’idea di come siano oggi i rapporti di forza in campo mediatico prendiamo debita nota del fatto che il 16 gennaio scorso il quotidiano la Repubblica ha regalato ai suoi lettori – primo di una lunga serie di omaggi – una copia rilegata del libro di Umberto Eco Il nome della rosa.

È presumibile che, anche a voler stare ben stretti, del volume siano state tirate almeno cento-duecentomila copie, visto che il giornale vanta una tiratura intorno alle 770mila copie. Così, oltre alle migliaia di lettori che ha il libro e lo ha avuto durante la sua distribuzione normale a partire dal 1980, almeno altri cento-duecentomila cittadini potranno fruire della prosa del nostro illustre scrittore, romanziere e semiologo di fama mondiale.

E fin qui nulla d’illecito.

I motivi di riflessione iniziano però se si considera che il libro è un pessimo libro storico – molto migliore comunque della bieca versione cinematografica – ed una specie di manifesto velato del pensiero nominalista, il quale può essere considerato da un lato una sorta di anticipazione medievale e dall’altro la quintessenza dell’attuale pensiero «post moderno», «debole» e intransigentemente relativistico.

Per il primo aspetto rimando alla serrata critica che ne fece a suo tempo – nel 1987 – il sociologo cattolico Massimo Introvigne. Mi limito a segnalare, fra i suoi motivi di critica a Eco, la ripetizione di calunnie relative al tribunale dell’Inquisizione medievale, che non è né quella spagnola, né quella romana; la deformazione della figura di Bernardo Gui, fatto passare per inquisitore ignorante e feroce, mentre ha brillato per i suoi metodi imparziali e per sua santità di vita; l’elemento di supporto della trama, cioè il desiderio della Chiesa di occultare un volume che – con l’autorità di Aristotele – avrebbe pericolosamente legittimato, insieme con la commedia, l’umorismo, nemico della fede perché suscettibile di liberare dalla paura su cui la religione si fonda, mentre – la tesi è di Hans Urs von Balthasar – il Medioevo ha dato inizio alla rivalutazione del teatro e san Tommaso afferma che l’umorismo di suo costituisce una manifestazione della razionalità umana che può essere perfino virtuosa; la valorizzazione che si dà nel romanzo alle doti intellettuali del personaggio di Guglielmo da Baskerville il quale è la figura abbastanza trasparente – quando parla di filosofia – di un altro Guglielmo francescano, inglese e nemico di Papa Giovanni XXII, Guglielmo di Occam, il nominalista per eccellenza.

Per il secondo elemento, non stupisce che il lavoro di Eco sia «indossato» dal quotidiano che è portavoce delle idee di quell’«ultima raffica» d’illuminismo «giacobino», bene incarnata dalla versatile penna di Eugenio Scalfari e rappresentata sul piano dei poteri «forti» dalla «famiglia» ideologico-industriale che sta alle spalle del quotidiano, che sta oggi cercando di risalire la china dopo la «batosta» culturale del crollo delle ideologie intorno al 1989.

In effetti il lavoro di Eco ha avuto un successo straordinario, non solo all’interno dell’area culturale che vi si può riconoscere idealmente, ma anche al di fuori di essa, invadendo anche i terreni «allogeni» – come il mondo cattolico – e gli ambienti neutri, come la scuola, al punto da diventare nell’immaginario comune la rappresentazione del Medioevo cristiano, dell’Inquisizione, della vita monastica.

Non voglio scendere sul terreno tecnico della critica letteraria, ma mi domando: se anche si trattasse di un capolavoro di stile, per il fatto di essere costruito su falsi storici – ben diverso dall’artificio iniziale de I promessi sposi manzoniani, che è solo uno spunto per la narrazione -, che denigrano il cattolicesimo dell’età della cristianità, e di difendere e di diffondere una visione del mondo discutibile e scarsamente benefica dal punto di vista soggettivo – nonché di fatto conservatrice – sarebbe giustificato farne o collaborare a farne un successo?

Tornando all’inizio, se qualcuno – e i vescovi italiani sono fra questi, a quanto si legge nel programma decennale della Chiesa in Italia – coltivasse l’idea, legittima e doverosa, di una rimonta cattolica nei canali d’informazione e formazione sociale, farà bene a riflettere su questo episodio. Un episodio che ci dà davvero il polso di una condizione, in cui, nonostante la crisi del pensiero progressista e la presenza al potere di una cultura nominalmente alternativa, può essere varata un’operazione dalle dimensioni descritte.

Per mettere in campo tecnicamente – non, come ovvio, nelle sue modalità surrettizie – una operazione del genere – che, ripeto, regala un romanzo ideologico di ben 482 pagine ad almeno cento-duecentomila lettori – di quali mezzi occorre disporre e quanto occorrerà crescere per arrivarci?