Sette domande sull’eutanasia

“C’è un punto comune tra le teorie naziste e le teorie moderne pro-eutanasia, ed è la mancanza del concetto di emergenza-trascendenza della persona umana: quando viene meno questo valore, strettamente connesso con l’affermazione dell’esistenza di un Dio Personale, l’arbitrio dell’uomo sull’uomo deve essere rivendicato dal capo politico di un regime assoluto oppure dalle istanze dell’individualismo. Se la vita umana non vale per se stessa, qualcuno può sempre strumentalizzarla in vista di qualche finalità contingente.” (Sgreccia)

di Daniela Bignamini

1 – Che cosa significa “eutanasia”?

“Per eutanasia si intende un’azione o un’omissione che, di natura sua o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore” (Congregazione per la Dottrina della Fede, 5.5.1980). Negli ultimi anni si è allargata a dismisura la percezione della necessità della eliminazione del dolore. Se fino a qualche tempo fa questo termine si applicava solamente a malati cosiddetti terminali, e specificamente malati di cancro, recentemente il termine “dolore” si è allargato a comprendere tutti gli stati di disagio, e il termine vita si è ridotto a “qualità di vita”.

Di conseguenza, i sostenitori dell’eutanasia includono come giustificazione valida della richiesta di soppressione di una persona umana il disagio per il proprio stato di vita o una vita “non degna di essere vissuta”, casi nei quali in genere il giudizio di “indegnità” viene espresso da terzi. “C’è un punto comune tra le teorie naziste e le teorie moderne pro-eutanasia, ed è la mancanza del concetto di emergenza-trascendenza della persona umana: quando viene meno questo valore, strettamente connesso con l’affermazione dell’esistenza di un Dio Personale, l’arbitrio dell’uomo sull’uomo deve essere rivendicato dal capo politico di un regime assoluto oppure dalle istanze dell’individualismo. Se la vita umana non vale per se stessa, qualcuno può sempre strumentalizzarla in vista di qualche finalità contingente.” (Sgreccia)

Eutanasia, come del resto eugenetica, è l’espressione ultima del dominio dell’uomo sulla natura umana. Ma a decidere è sempre UN uomo, secondo i proprio criteri e non secondo i bisogni della persona a cui viene applicata la decisione. Chi compie l’atto definitivo non è mai chi lo chiede, e questi può agire interpretando in maniera scorretta tale richiesta. Quante volte il malato terminale di cancro chiede “fatemi morire” e vuole dire “toglietemi il dolore”? Spesso si considera l’eutanasia dalla parte di chi uccide e nessuno si pone dalla parte di chi viene ucciso.

Questo spiazza anche la distinzione artificiosa tra eutanasia attiva e passiva, come è chiaro dalla definizione riportata della Congregazione per la Dottrina della Fede. L’affermazione che non è lecito un intervento diretto che abbia come fine il togliere la vita mentre è lecito non attuare quegli interventi che la mantengono, sospendendo quindi anche i sostegni vitali come respirazione assistita e nutrizione parenterale, costituisce una distinzione arbitraria di uno stesso intendimento: impedire lo svolgersi naturale dell’evento conclusivo della vita umana.

2. Allora bisogna “accanirsi” nella terapia?

Ogni malato è un caso a sé. Si possono però dare delle indicazioni generali. Un intervento medico è sempre giustificato quando il rischio prevedibile è inferiore al beneficio presumibile; questo prendendo in considerazione tutti gli aspetti relativi alla persona malata, quindi non solo quelli medici. Basandosi su questo principio, in certi malati saranno possibili terapie estremamente pesanti, debilitanti e che peggiorano apparentemente la qualità di vita, perché esiste una ragionevole probabilità, basata su conoscenze di fatto, che l’intervento possa permettere alla persona una dignitosa continuazione della vita. Quello stesso intervento può non essere possibile in altri malati apparentemente identici, ma in condizioni soggettive od oggettive differenti.

Quindi non si può parlare di “accanimento terapeutico” come se fosse una definizione propria dell’operato medico, a prescindere dalle caratteristiche, dal vissuto, dalle esperienze e dalla capacità di collaborazione del singolo malato.

Deriva da questa descrizione di accanimento terapeutico che comunque, una volta che si è iniziato un intervento, compreso l’intervento di rianimazione cardio-polmonare (si è “attaccata la macchina”) sulla base di una ragionevole ipotesi di beneficio, non è più ammissibile interrompere il sostegno vitale finché sussiste la mera possibilità (e non più la ragionevole probabilità) di recupero delle funzioni vitali autonome. Questo perché la letteratura medica riporta numerosi casi di coma considerato irreversibile risoltosi dopo anni.

Rimane aperto invece il dibattito sul momento in cui “staccare la spina” in presenza di condizioni che secondo le definizioni mediche correnti configurano la morte cerebrale, tenendo conto anche della possibilità di donazione volontaria degli organi, che tra l’altro costituisce un grande momento di umanità.

Bisogna comunque accettare realisticamente il fatto che il medico non è deputato ad intervenire applicando tutto quanto sia possibile in ogni situazione, né questo operare sarebbe rispettoso della dignità della persona. Compito del medico è sviluppare la capacità di riconoscere la sostanziale inutilità di ulteriori sforzi terapeutici e quindi accompagnare dignitosamente il malato a incontrare il limite del suo diritto nativo alla vita, cioè la morte.

3 – Ma se uno vuole morire, perché non accontentarlo?

La domanda espressa in questo modo è scorretta. Nell’ambito pertinente all’eutanasia, la domanda andrebbe riformulata così: perché non devo uccidere chi mi chiede di essere ucciso?

Sotto il profilo etico, bisogna chiedersi se sia possibile che sia libera e rispettosa della dignità della persona la domanda, coscientemente espressa dalla persona stessa, di essere uccisa. Presupposto della libertà è la conoscenza delle alternative ragionevoli. Se può essere ragionevole per un essere umano chiedere la sedazione del dolore o qualsiasi altro intervento anche grave che gli permetta di mantenere la propria dignità, risulta difficile considerare una ragionevole alternativa la richiesta di soppressione, proprio perché libertà, dignità e ragione sono proprietà caratteristiche di una persona viva.

Se quindi la richiesta di soppressione non sembra essere un’alternativa ragionevole, c’è da chiedersi perché a volte venga fatta. Assistiamo infatti alla situazione paradossale per cui si cerca di interpretare in chiave psicologica e sociologica qualsiasi affermazione e comportamento, mentre di fronte alla domanda “fammi morire” si vuole accettare la frase nel suo valore nominale come espressione di autonomia, senza cercare di capire quale sia il reale bisogno che la persona tenta di esprimere.

Pertanto, di fronte alla richiesta di soppressione, il giusto atteggiamento rispettoso della libertà della persona è cercare di comprendere quali bisogni reali e quali carenze (psicologiche, mediche, affettive, …) chiedano una risposta.

Esiste poi la situazione in cui non è la persona che chiede per sé, ma sono altri che dichiarano che lo stato in cui la persona si trova “non è degno di essere vissuto” oppure che “se potesse, lo chiederebbe”. Chiaramente in questa situazione il problema non si pone neppure, perché l’unico caso visto nella storia in cui un decisore terzo deteneva il potere di decidere quale delle vite altrui era degna o meno di essere vissuta si è visto nei lager nazisti.

4 – E se uno nel pieno delle sue facoltà ha lasciato scritto che in caso di malattia gravemente invalidante avrebbe preferito morire?

L’ipotesi di lasciare un testamento in vita (living will) con il quale indicare ai medici a quali condizioni si accettano le cure e in quali circostanze si chiede invece di essere soppressi, presuppone che le scale di priorità sulle quali la persona basa i propri giudizi siano le stesse quando è perfettamente sano e quando è colpito da una grave malattia. La letteratura medica ci insegna che non è così: condizioni disabilitanti che per i parenti sani o per gli stessi operatori sanitari sarebbero giudicate “peggiori della morte” vengono invece considerate “accettabili” dai malati in grado di esprimersi.

Esistono quindi condizioni nella malattia che esaltano la capacità di resistenza e di reazione di molti malati, condizioni che non possono essere percepite dalle persone sane. Non vi è quindi motivo per pensare che ciò non avvenga anche per la medesima persona quando è sana e quando è malata.

Peraltro un testamento del genere non può mai essere preciso, cioè non si è mai in grado di esplicitare esattamente le condizioni specifiche in cui attuare una scelta o l’altra, lasciando all’interpretazione di un’altra persona la decisione finale.

L’unico caso in cui queste disposizioni potrebbero avere un senso, anche se discutibile, riguarda le condizioni di danno irreversibile, che però potrebbe essere tale al momento della stesura del testamento ma essere reversibile al momento in cui si verifica l’evento, grazie al progresso delle conoscenze e delle pratiche terapeutiche.

5 – Però anche le cure palliative accorciano la vita.

Qualunque intervento terapeutico presenta benefici e rischi, e certamente le cure palliative non fanno eccezione. Contrariamente all’immaginario comune, cure palliative non sono solo le terapie del dolore: qualsiasi intervento terapeutico che ha come scopo non la guarigione della malattia ma il sollievo dei suoi sintomi si definisce cura palliativa.

Chiaramente le più note tra le cure palliative sono le terapie del dolore che oggi, nonostante ancora alcune incertezze della legislazione e della classe medica, hanno rivalutato l’uso degli oppiacei.

Il fatto che gli oppiacei possano accorciare la vita è un’altra delle convenzioni dell’immaginario collettivo. Usati in maniera non appropriata (prodotto sbagliato, dose sbagliata, metodo di somministrazione sbagliato) possono manifestare il loro più tipico effetto collaterale che è l’insufficienza respiratoria, e questo può anche portare a una morte che sarebbe comunque sopravvenuta indipendentemente dalla terapia.

L’uso appropriato delle forme più moderne degli oppiacei, quelle cioè specificamente sviluppate per le cure palliative, e le migliori conoscenze sul modo di somministrazione (anche sollecitando la collaborazione attiva del malato) permette invece di alleviare il dolore mantenendo anche un grado soddisfacente di coscienza e senza necessariamente abbreviare la sopravvivenza.

Vanno fatte comunque altre considerazioni.

a) È possibile che venga abbreviata la vita del malato. Questo non è però l’obiettivo della terapia ma un evento avverso indesiderato della cura stessa. A fronte di un’ipotetica e non quantificabile riduzione della sopravvivenza rimane il dato di fatto che si permette al paziente di affrontare in maniera dignitosa la parte rimanente della sua vita, senza l’oppressione di un dolore insopportabile.

b) Si potrebbe anche obiettare che gli oppiacei danno assuefazione e causano dipendenza. Intanto va chiarito che con le formulazioni attuali la dipendenza e l’assuefazione sono notevolmente ridotte. Inoltre va considerato che il fenomeno di dipendenza e assuefazione diventa un problema nel momento in cui la persona prima o poi dovrà disassuefarsi dal farmaco. Ma nelle condizioni di impiego delle cure palliative questo problema non ha senso.

c) L’impiego di oppiacei riduce la coscienza del malato. In parte questa obiezione può essere vera, ma ampiamente superabile utilizzando le appropriate modalità di trattamento e soprattutto richiedendo al paziente la collaborazione attiva. Resta in ogni caso evidente che è preferibile un periodo parziale di coscienza non obnubilata da dolori insopportabili accompagnato da periodi parziali di coscienza ridotta dagli oppiacei, rispetto a un totale periodo di piena coscienza completamente obnubilata da dolori insopportabili.

6 – È necessaria una legge che regoli l’eutanasia?

Di per sé non è necessaria: il divieto legale dell’eutanasia è già implicito in tutte le leggi che tutelano i diritti della persona. La legge italiana con l’articolo 5 del Codice Civile già considera illeciti gli atti di disposizione del proprio corpo che ne diminuiscono permanentemente l’integrità fisica; il Codice Penale poi proibisce sia l’omicidio del consenziente sia l’istigazione e l’aiuto al suicidio.

La giurisprudenza italiana recente ha però introdotto una non punibilità dell’eutanasia almeno in un caso, in quanto non sarebbe stato dimostrabile che la persona soppressa fosse effettivamente in vita nel momento in cui è stato attuato l’intervento letale. Nonostante tutto il rispetto per la giurisprudenza, non ci si può esimere dal giudicare questo modo di ragionare specioso e avulso dalla realtà. Rimane infatti incomprensibile come possa essere considerata non necessariamente in vita una persona, e quindi non punibile l’interruzione dei sostegni vitali, se allo stesso tempo non viene dichiarato quanto meno improprio l’utilizzo degli stessi sostegni vitali in chi avrebbe dovuto già essere morto.

Possono poi insorgere ulteriori problemi nel caso in cui fosse proposta una legge che depenalizzi l’omicidio commesso sotto forma di eutanasia. In primo luogo tale legge violerebbe la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali” sottoscritta dall’Italia fin dal 1954. Inoltre si può riflettere su come non sia sufficiente cambiare la denominazione di un omicidio perché cessi di esserlo.

Lo stato può non punire determinati comportamenti; ciò non toglie che i comportamenti non sanzionati rimangano obiettivamente soppressione di vita umana e quindi omicidio. In questo caso si porrebbe, come già con l’aborto che configura esattamente la stessa situazione, la necessità dell’obiezione di coscienza da parte di qualsiasi essere umano libero. Naturalmente qualsiasi cattolico dovrebbe rifiutarsi di votare chiunque, in qualunque partito, anche solo ipotizzi una tale legge.

7- Non vi pare che gli argomenti contro l’eutanasia siano solo cristiani? Perché imporre una visione religiosa a chi non è credente?

Tutti gli argomenti esposti in precedenza sono argomenti di ragione. Non è necessario un fondamento religioso per giungere a tali conclusioni, ma solamente un’attenta osservazione di ciò che rende umano l’uomo. Tutte le considerazioni fatte si trovano già nei principi bioetici del principialismo:

1. fare il bene del malato;

2. non fare del male al malato;

3. rispettare l’autonomia della persona. Il grande contributo del principio religioso, e non esclusivamente di quello cattolico, è:

– a) stabilire una corretta gerarchia fra i tre principi nell’ordine esposto;

– b) rendere più immediato il principio che lega autonomia (= libertà) a responsabilità;

– c) rendere esplicito che la prima responsabilità di ciascun essere umano è nei confronti di quei diritti che per natura non possono essere alienati, come il diritto alla vita;

– d) rendere esplicito che fa parte della natura dell’uomo e del normale svolgersi della sua vita anche l’incontro con il limite della malattia e della morte.