L’uomo in rivolta ed il mito dell’evoluzionismo

uomo_scimmiadi Giuseppe Sermonti

Le tre rivolte dell’uomo

Benché ogni ribellione umana abbia sempre come ultimo scopo la ricerca della conoscenza, il significato che questa conoscenza assume nei miti antichi e nella moderna mitologia della scienza è profondamente diverso. Per Adamo conoscere significa perdersi nel disordine della realtà, rifiutando la serenità del paradiso, sperimentando il dolore e l’amore, la nascita e la morte. Lasciando l’Eden, minacciato dalla spada divina, egli accede a quel mondo di angoscia e di passione che sarà per sempre la dimora dell’uomo mortale, il mondo del bene e del male, della colpa e del perdono, dell’intimo e del personale.

La rivolta di Prometeo contro Giove sembra prefigurare invece la ribellione rinascimentale e la nascita della scienza moderna. Ma l’uomo è sullo sfondo del dramma, spettatore, mentre la scena è dominata dalla figura straziata di Prometeo incatenato, protagonista perché soffre, libero perché legato, punito e arrogante. La conoscenza, innocente e anzi utile di per sé, è causa di una pena millenaria, di una condanna senza fine: anche per Prometeo conoscenza è sofferenza.

I suoi ritrovati e le sue medicine fanno ancora parte, nel mondo classico, della religione. Neppure la ribellione dello scienziato moderno rappresenta la ricerca di un mondo proibito o malvagio: essa consiste nel rifiutare alle leggi naturali ogni riferimento mitico, nel rivendicare la più completa autonomia dal sacro, nel pretendere la conoscenza senza un prezzo, senza un dramma. Se Adamo si piega a Dio, se Prometeo incatenato ancora grida contro Dio, l’ultimo ribelle ne ignora la presenza, la considera una superstizione e non si oppone a Dio semplicemente perché giudica che non sia mai esistito.

La scienza moderna considera ogni dramma come malattia, ogni mito come fantasia, e cerca in se stessa le proprie ragione e i propri fini. Il suo mondo non e la valle di lacrime dove vivono i figli di Adamo, è una valle senza lacrime, più solitaria e più remota ancora della dimora trovata dall’uomo dopo la cacciata dall’Eden. L’ultimo ribelle ha cacciato Dio e i suoi arcangeli dal loro paradiso. Spodestato Dio, l’uomo, solo nel creato, chiede obbedienza all’uomo e si ribella a se stesso.

Senza un termine sul quale misurarsi, senza un’altezza verso cui ascendere, senza una norma superiore per la sua vita, egli non può che rivolgersi contro se stesso, che attentare alle ultime umane grandezze, che premeditare la propria distruzione. All’uomo moderno è stato chiesto di optare tra il mondo mitico-religioso rimasto in eredità agli uomini dopo il peccato di Adamo o di Prometeo, e un mondo razionale, disegnato nel vuoto dalle ipotesi della scienza.

Tra l’esistenza in una dimora antica densa di significati e di mistero, e un’avventura nel nulla inesplorato. Mai potremo, come uomini, risolvere questo dilemma, poiché di una sola cosa siamo sicuri, che il vero non è né nella valle di lacrime, né nella valle senza lacrime, ma in un luogo irraggiungibile, al di fuori del mondo e del tempo. E allora conviva la fede dell’uomo con il suo capriccio. Ardisca pure l’uomo di spostare la terra dal centro dell’universo e farla ruotare nel vuoto intorno al sole, come i pianeti di Copernico o le masse di Newton. In una diversa dimensione seguiterà sempre il carro del Sole a percorrere le costellazioni dello Zodiaco, intorno alla Madre Terra, in un eterno itinerario, creatore di valori, di orientamenti e di destini.

Studi pure l’uomo la fuga delle galassie o l’età dell’universo, ma torni poi a guardare verso le montagne del tramonto, ove Atlante sostiene sulle spalle il firmamento. Noi sappiamo l’universo immane e vuoto, né mai esso potrebbe trovare appoggio sulle spalle di un gigante; ma un altro gigantesco sforzo sarà necessario, quello di tenere la volta del cielo lontana dalle cose della terra, perché il finito non si dissolva nell’infinito, perché il mortale non si annulli nell’eterno.

Nell’arrogante rifiuto del divino e del mitico, la scienza moderna si è privata della sua stessa ragione, ha perduto i suoi limiti, ha smantellato il suo scenario, facendo della ragione, nata ribelle, una dispotica divinità. Ha abbandonato l’ontogenesi mitica dell’uomo, ma ad essa non ha saputo sostituire che una macabra fantasia di crani fossili, immaginando una genesi di cui non si hanno che poverissime testimonianze.

Nello spirito della scienza, questa genesi non avrebbe dovuto occuparsi di valori, ma offrirci soltanto una filogenesi zoologica, neutrale come la genesi dell’armadillo. Ma come la ragione si era vestita da dea, così l’origine paleontologica dell’uomo generò un goffo mito, quello dell’uomo-scimmia, che pretese di trovare spazio in qualche luogo del Genesi, al primo capitolo di una posticcia bibbia laica.

Il mito evoluzionista

Il mito dell’uomo-scimmia fiorì nella seconda meta del secolo scorso, dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie (1859) di Charles Darwin. Non era cosa del tutto nuova, perché già il nonno di Charles, Erasmus Darwin, se ne era fatto promotore nella sua Zoonomia (1796); Coleridge aveva definito quest’opera «lo stato di natura o la teologia dell’orang-utan capostipite della razza umana, in sostituzione al primo capitolo del Genesi».

Anche Jean Baptiste, conte di Lamarck, aveva parlato di una scimmia umana nella sua Philosophie zoologique del 1809. Ma Darwin si risentiva se gli si menzionavano questi precursori, verso i quali era convinto di non aver alcun debito. Nella sua Origine delle specie si parla pochissimo dell’uomo; quando nel 1871 pubblicò l’Origine dell’uomo, Darwin si pronunciò sulle ascendenze e affinità della nostra specie con poca convinzione, tanto da sembrare, fra tutti i darwinisti, il meno deciso al riguardo. Egli non riusciva ad attribuire alla selezione naturale, la sua grande idea, le variazioni tra le razze umane, e doveva ammettere che «nessuna delle differenze esterne tra le razze umane è di qualche diretto o speciale vantaggio per l’uomo» (1).

In complesso, anche nell’Origine dell’uomo Darwin è molto incerto nell’affidare all’uomo un preciso antenato. Soltanto alla fine del sesto capitolo, Delle affinità e della genealogia dell’uomo, egli afferma: «I simiadi allora si sono divisi in due grandi rami, le scimmie del nuovo e quelle dell’antico continente, e da quest’ultime, in un antichissimo periodo, è derivato l’uomo, meraviglia e gloria dell’Universo. Così abbiamo dato all’uomo una genealogia di prodigiosa lunghezza, ma non si può dire di grande nobiltà.

A meno di voler proprio chiudere gli occhi, possiamo, mercé le nostre attuali cognizioni, riconoscere approssimativamente il nostro parentado; e non dobbiamo arrossirne». Abbiamo celebrato in questi anni, con religiosa compunzione, il centenario della pubblicazione delle due Origini darwiniane, dimenticando, per eccesso di riguardo, a quali folli illazioni il mito dell’uomo-scimmia abbia dato esca; e i responsabili sono stati non solo alcuni epigoni dell’evoluzionismo, ma gli stessi Charles Darwin e Alfred Russel Wallace che contemporaneamente formularono «la teoria che avrebbe cambiato il mondo».

Si possono classificare queste illazioni in tre gruppi: il primo riguarda il processo dell’evoluzione all’interno dei popoli civilizzati, il secondo si occupa di quel processo nei conflitti tra popolo e popolo, il terzo riguarda la visione finale dell’evoluzione. Secondo Darwin e Wallace, l’evoluzione era avvenuta attraverso la scelta dei più adatti nella lotta per la sopravvivenza. Se quindi i popoli civilizzati dovevano continuare a evolversi (e chi oserebbe negarlo?), era loro dovere seguitare a praticare questa lotta per la sopravvivenza, e curare l’eliminazione costante dei non adatti.

Morale: «Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta; e non si deve impedire con leggi e costumi ai migliori di avere successo e di allevare il maggior numero di figli.» (2)

Dovremmo fare preziosa esperienza di ciò che praticano i selvaggi e gli allevatori di animali. «Tra i selvaggi, i più deboli fisicamente o mentalmente sono presto eliminati; e coloro che sopravvivono presentano di solito un vigoroso stato di salute. Noi uomini civilizzati, d’altra parte, facciamo del nostro meglio per ostacolare il processo di eliminazione […]. Chiunque abbia qualche esperienza nell’allevamento di animali domestici si renderà facilmente conto del fatto che tutto ciò può essere estremamente negativo per il futuro della razza umana […]. Tranne che nel caso dell’uomo, nessuno è così ignorante da permettere ai suoi animali peggiori di figliare.» (3)

Nei confronti della lotta tra le razze, gli evoluzionisti erano ancora più brutali. Se le specie si evolvono attraverso l’eliminazione delle razze meno adatte, che cosa impediva che questo processo arrivasse rapidamente a conclusione? Come l’uomo si era quasi liberato dei suoi antenati scimmieschi, cosi le razze civili avrebbero liberato la terra dall’incomodo delle razze non civilizzate. «Tra qualche tempo a venire, non molto lontano se misurato in secoli» scrive ancora Darwin (4) «è quasi certo che le razze umane incivilite stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo alle razze selvagge.

Nello stesso tempo le scimmie antropomorfe, come nota il professor Schaaffhausen, saranno senza dubbio sterminate». «E tutti i continenti», scriveva Darwin a Hocker nel 1865, «brulicheranno di uomini di valore e di dottrina…». Questa prospettiva di eliminazioni e di stermini era in verità un po’ sgradevole, e lo stesso Darwin ne era turbato; ma era inevitabile, come il progresso della specie umana. E ne valeva la spesa.

La continua prevalenza delle razze «più intellettuali e morali» sulle razze «inferiori e più degradate» avrebbe ricondotto l’uomo a un paradiso terrestre che, secondo A. R. Fallace (5), sarebbe stato abitato «da una singola razza omogenea, nella quale nessun individuo sarà inferiore ai più nobili esemplari dell’umanità oggi esistente. Ciascuno realizzerà allora la sua felicita in relazione con quella degli altri; non ci sarà più bisogno di leggi restrittive, perché ogni uomo sarà guidato dalle leggi migliori […] e l’umanità avrà infine scoperto che le restano soltanto da sviluppare le facoltà della sua natura superiore per convertire questa terra, già interminabile teatro delle sue passioni sfrenate e scenario di miseria inimmaginabile, in un paradiso simile a quelli vagheggiati nei sogni dei visionari e dei poeti».

Qualche anno prima, nel 1860, Darwin aveva scritto a Lyell: «Non so spiegare perché, ma provo un’infinita soddisfazione nel credere che l’umanità progredirà a un livello tale che noi, guardando a ritroso, saremo costretti a considerare noi stessi come veri barbari» (6). È stato fin troppe volte osservato che queste concezioni evoluzionistiche trovano un parallelo, oltre che nell’allevamento degli animali domestici, nel capitalismo borghese, nella competizione economica, nel colonialismo, nell’imperialismo.

È stato osservato che certe visioni paradisiache riflettevano l’ottimismo della borghesia vittoriana, le cui risorse derivavano dallo sfruttamento del proletariato e dalla schiavitù coloniale. Eppure lo scientismo ufficiale ha preferito chiudere un occhio su queste considerazioni, difendendosi dietro la neutralità della scienza, proprio quando la scienza era ormai entrata in campo a sostegno dell’industrializzazione.

Diciamo questo, non nel senso che il capitalismo o il colonialismo sarebbero sorti dalla teoria dell’evoluzione; al contrario, proprio le nuove «rivoluzionarie» teorie scientifiche sono state ispirate e adottate da un’ideologia politico-economica (7), che vi ha trovato un impianto «scientifico» per sostenersi e insieme una «mitologia» su cui fondarsi. Il darwinismo ha reso corrente l’abitudine di usare i dati della scienza come basi d’appoggio per la filosofia, la politica e l’etica.

La teoria evoluzionistica si poteva accordare, e ciò è puntualmente accaduto, con ogni genere di ideologia. E così abbiamo avuto un evoluzionismo anarchico, un evoluzionismo socialista, un evoluzionismo nazista, un evoluzionismo cattolico. L’evoluzionismo ha potuto giustificare altrettanto bene la lotta per la reciproca sopraffazione come la fratellanza universale.

«L’uomo deriva dalla scimmia», scriveva il filosofo russo Soloviev, «dunque amiamoci l’un l’altro». Ha giustificato lo sterminio delle razze inferiori o il rispetto della variabilità razziale: preservare la variabilità è indispensabile per l’evoluzione. Ha patrocinato l’ineguaglianza o l’uguaglianza tra le razze, e non gli è occorso neppure un grande sforzo di fantasia.

Anche l’escatologia evoluzionista non è affatto in realtà così paradisiaca come nelle frasi citate di Wallace e di Darwin e nelle utopie di Herbert Spencer. Il cugino di Darwin, Francis Galton, guardava con apprensione al destino biologico dell’uomo civile che, non esercitando più l’eliminazione dei minorati, tendeva a un graduale declino. Egli richiamò l’attenzione sul fatto che nelle classi nobili e più ricche le famiglie erano meno numerose che nelle classi inferiori; queste ultime avrebbero quindi finito col prevalere abbassando il livello intellettuale e morale della popolazione.

Peraltro, Darwin sapeva bene che il risultato dell’evoluzione è di regola l’estinzione, e solo in pochissime linee di discendenza si realizza un reale miglioramento biologico. Una teoria o un processo scientificamente accertato non legittimano nessuna speciale ideologia politica o sociologica, o, se vogliamo, le legittimano tutte. Il darwinismo si è reso colpevole di aver impiantato il bivacco della scienza sul terreno dell’etica.

Ai tempi di Darwin sembra che, tra gli evoluzionisti, solo il suo amico e sostenitore Thomas Huxley si rendesse conto delle illecite trasposizioni dalla storia naturale alla morale che si andavano perpetrando. Egli protestava che la legge della giungla non si addiceva agli esseri umani, e che il processo etico della società non consisteva nell’imitazione dello sviluppo naturale: semmai, nel tentativo di opporvisi. Ma la teoria darwiniana conquistava il mondo proprio perché si prestava cosi bene alle contraffazioni sociologiche.

Thomas Huxley non poteva essere compreso, e il suo illustre nipote Julian avrebbe scoperto più tardi, nel 1943, che la legge della giungla si applicava perfettamente bene anche al mondo morale e che l’etica non è un corpo di principi stabiliti, ma essa stessa il prodotto dell’evoluzione. Il nostro mondo morale resterebbe così affidato alla sopraffazione ideologica e alle tecniche della persuasione, con il placet dei naturalisti.

«Nell’era moderna», scrive Giorgio Celli, «[l’ideologia] si muta in una superfetazione della scienza. Ma non per questo l’ideologia acquista una dignità scientifica, dato che essa, per sua natura, comincia proprio la dove la scienza finisce. Infatti, se la scienza procede per inferenze, l’ideologia opera per illazioni. Rispetto alla scienza, quindi, l’ideologia è sempre un insieme di illazioni sistematiche e tendenziose» (8).

Considerazioni come queste gettano un inquietante sospetto sulle affermazioni tante volte ripetute che la conoscenza scientifica è libertà, mentre l’ignoranza è schiavitù. Il sospetto è che la conoscenza scientifica stia diventando l’impalcatura su cui è pronta a insediarsi qualsiasi funesta ideologia; che il bimbo di Taungs o la ben conservata signora Ples non siano gli anelli mancanti di una catena che connette l’uomo con la scimmia, ma le «prove tangibili» di una ideologia del progresso o della bestialità, dell’amore basato sull’anatomia comparata o della guerra dell’uomo contro l’uomo, dell’avvento del paradiso terrestre nella storia o del prossimo passaggio della nostra specie al concreto mondo dei fossili.

L’evoluzione, come ogni altro dato o teoria della scienza, appartiene a quella sfera della conoscenza che non produce verità etiche, che non si pronuncia in merito al bene e al male, né può farlo. Essa e lì, come modello neutrale cui solo si può chiedere di risolvere un enigma o di fornire una metafora, ma se vuole restare fedele alla sua natura scientifica non può confrontarsi con alcuna genesi. Non si ricavano valori dalla scienza, perché «la conoscenza in sé esclude qualsiasi giudizio di valore mentre l’etica, non oggettiva per sua stessa natura, è sempre esclusa dal campo della conoscenza». Così scrive Jacques Monod (9). E risponde con franchezza a chi teme nella scienza il sacrilegio e l’attentato ai valori: «Paura totalmente giustificata.

È vero che la scienza attenta ai valori. Non direttamente, poiché essa non ne è giudice e deve ignorarli; però essa distrugge tutte le ontogenie mitiche o filosofiche su cui la tradizione animistica, dagli aborigeni australiani ai dialettici materialistici, ha fondato i valori, la morale, i doveri, i diritti, le interdizioni». Bisogna però precisare che la scienza distrugge i valori proprio quando pretende di farsi fondatrice di valori, quando cerca di porre, in luogo delle ontogenie mitiche e nella dimora degli dei respinti, i suoi reperti, i suoi principi e i suoi strumenti. Se un processo naturale o una legge scientifica ci potessero essere proposti a modello di comportamento per il solo fatto di essere osservati, allora tutto sarebbe giustificato.

Il delitto più orribile è pur sempre un evento naturale, perfettamente in regola con le leggi dell’antropologia e della sociologia, e lo si può considerare trascurabile solo perché è un evento marginale, ma un genocidio in piena regola è un evento notevole e degno del più attento riguardo nel quadro dell’evoluzione biologica. I processi naturali, o gli esseri e gli oggetti che ci circondano, possono servirci come termini di paragone e di riferimento, come emblemi o insegne; anzi, non potremmo parlare senza le metafore tratte dalla natura. Ma solo l’arrogante banalità dei materialisti del secolo scorso ha potuto prendere sul serio queste realtà come guide a una nuova etica.

Questo modo infantile di trarre illazioni e ancora diffuso, e un distinto naturalista contemporaneo, Bentley Glass, ha scritto in anni recenti (10): «L’etica di una società umana statica non può far fronte a una situazione evolutiva. Essa deve essere rimpiazzata da un’etica che tenga conto della natura umana in evoluzione sia biologica che culturale. La nostra crescente saggezza deve essere basata su una visione evolutiva del passato, del presente e del futuro dell’uomo, e su una conoscenza dei modi in cui il processo evolutivo può essere controllato».

Questo innocente discorso è in realtà una serie di disinvolte mistificazioni. Bentley Glass, e con lui tutti gli evoluzionisti contemporanei, sanno benissimo che la natura umana non è affatto in evoluzione biologica, e che per almeno cinquantamila anni rimarremo identici a quelli che siamo, sempre nell’ipotesi che non intervenga una degenerazione.

Per quanto riguarda l’«evoluzione culturale», se essa deve significare la lotta per la vita trasferita sul piano delle ideologie, allora non resta che attendersi una catena di sopraffazioni senza altra misura che il successo, una trasformazione irresponsabile di idee e di costumi, sostenuta dalla pretesa che comunque si proceda si andrà verso il bene, purché si proceda. Vogliamo proprio ascoltare questi sacerdoti in camice bianco annunziarci la lieta novella che qualunque novella è lieta, perché il nuovo è sempre migliore del vecchio?

L’evoluzione, come essi ci insegnano, sarebbe il nostro dovere biologico. Ma poiché il novantanove per cento degli «esperimenti evolutivi» finisce con un’estinzione, estinguerci è forse la via più ortodossa che ci resta da seguire. Le nostre straordinarie capacità di «dirigere la nostra evoluzione» possono permetterci di accelerare questo processo come nessun animale è riuscito a fare sinora.

Questo è il destino che ci offre l’ultimo ribelle; costui, rifiutati gli archetipi di Adamo peccatore e di Prometeo scaltro, tolto dalla scena il Creatore, non si è accorto di offrire a se stesso come archetipo e modello di sviluppo verso il progresso e la razionalità un essere mansueto e sottomesso, l’animale da cortile o d’allevamento. Non si è accorto di preparare a se stesso come destino una prossima uscita dalla scena, per lasciare il posto a esseri più razionali e meno sentimentali di lui, le macchine.

Note:

1). C. Darwin, The Decent of man, and selection in relation to sex, ed. 2, New York 1886, p. 314. Torna al testo
2). Ivi, p. 618. Torna al testo
3). Ivi, pp. 133-134. Torna al testo
4). L’origine dell’uomo, in Il meglio di C. Darwin, Longanesi, Milano 1971, pp. 270-271. Torna al testo
5). The origin of human races and the antiquity of man deduced from the theory of “Natural selection”, in «Journal of Anthropological Society of London», II, l864, pp. 153-160. Torna al testo
6). «Il positivismo mostra con molta chiarezza», scrive Camus, «le ripercussioni della rivoluzione ideologica del diciannovesimo secolo, di cui Marx è uno dei rappresentanti, e che ha consistito nel mettere alla fine della storia l’Eden e la rivelazione che la tradizione metteva alle origini del mondo» (A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1957, p. 216). Torna al testo
7). In verità, come scrisse Marx a Engels in una lettera del 12 giugno 1862, non era la sociologia «liberale» che derivava dall’applicazione all’uomo delle conoscenze sulle piante e gli animali, ma al contrario era il darwinismo che, secondo l’ammissione di Darwin, nasceva dall’applicazione alle piante e agli animali delle teorie sociologiche di Malthus sull’incremento delle popolazioni umane. Torna al testo
8). Nell’introduzione a Il meglio di C. Darwin cit., p. 65. Torna al testo
9). Op. cit., p. 139. Torna al testo
10). The centratity of evolution in biology teaching, in «American Teacher», vol. 29, 1967, p. 705. Torna al testo da La Mela di Adamo e la Mela di Newton, Milano, Rusconi, 1974, pp.22-35 “Ho fatto questa lettera più lunga, solo perché non ho avuto il tempo di farla più corta” (Blaise Pascal)