Il bisogno di avere una madre e un padre

genitoriFamiglia Oggi n.6 novembre-dicembre 2013

La presenza dei genitori svolge un ruolo basilare nello sviluppo psicosociale.Fonda l’identità della persona e promuove la costruzione dei legami. La coppia coniugale è portatrice di cura, protezione e affetto (funzione materna) e, allo stesso tempo, di giustizia ed equità (funzione paterna). Il loro connubio permette una cura responsabile.

di Rosa Rosnati e Raffaella Iafrate

(docenti di Psicologia dell’adozione, dell’affido e dell’enrichment familiare, Università Cattolica di Milano)

 

Il fatto che un bambino per crescere abbia bisogno di un papà e di una mamma sembrava fino a non molto tempo fa qualcosa di scontato e condiviso da tutti: ora sembra non essere più così, o almeno non è più così per molti. L’incremento dell’instabilità coniugale, la diffusione di famiglie monogenitoriali, l’esperienza della genitorialità sempre più vissuta come una scelta e un diritto individuale, la diffusione di forme familiari alternative e il dibattito sui diritti delle coppie omosessuali mettono seriamente in discussione tale affermazione.

Cercheremo, dunque, di analizzare in breve se vi sia un fondamento psicologico al bisogno di padre e di madre per ogni essere umano, per arrivare poi a fare qualche cenno alle conseguenze dovute all’assenza o inadeguatezza delle figure genitoriali nello sviluppo psicologico del figlio e alla necessità di eventuali figure genitoriali sostitutive.

CODICE AFFETTIVO ED ETICO

Se da decenni la letteratura psicologica ha ampiamente sottolineato l’importanza del legame di attaccamento con la madre quale fondamento del benessere psichico del figlio, gli studi più recenti hanno evidenziato anche l’importanza della funzione paterna man mano che il figlio o la figlia crescono, a motivo della necessità di regole e di orientamento verso l’autonomia che, specie dall’adolescenza in poi, divengono fondamentali. Possiamo dire, in altre parole, che la genitorialità si esplica nella cura responsabile nei confronti del figlio che coniuga sia aspetti di cura, protezione, affetto e speranza, tipici della funzione materna (il matris-munus), sia l’aspetto della norma, del senso di giustizia e di equità riferibile alla funzione paterna (il patris-munus).

A questo secondo aspetto è connesso il compito di orientamento dei figli, cioè l’offrire loro una sorta di “bussola” interiore, un insieme di criteri, che comunemente chiamiamo valori, cui essi possono riferirsi nelle situazioni della vita e su cui sono chiamati a operare una scelta, una volta divenuti adulti (Scabini, lafrate, 2003).

Dunque, lungo il percorso di crescita dei figli, la compresenza di un codice affettivo materno e di un codice etico paterno è fondamentale per garantire un’equilibrata evoluzione dell’identità personale (Scabini, Cigoli, 2000) : pertanto, madre e padre giocano ruoli e funzioni diverse e complementari nella crescita dei figli, pur modificandosi nel tempo a seconda dell’età dei figli (lafrate, Rosnati, 2007). La cura responsabile è in tutti i casi compito congiunto della coppia genitoriale: nella società contemporanea la divisione dei ruoli genitoriali è molto meno rigida rispetto al passato e la funzione paterna e materna risultano svolte oggi, con modulazioni diverse, da entrambi i membri della coppia genitoriale.

Le funzioni materna e paterna sono infatti per alcuni aspetti interscambiabili: sempre più frequentemente si incontrano madri che esercitano anche alcuni aspetti della funzione paterna e viceversa padri che svolgono parte della funzione materna (es.: aspetti legati all’accudimento), soprattutto oggi dove la presa di distanza dai modelli normativi del passato conduce i padri ad allinearsi maggiormente alle modalità di relazione tipicamente femminili-materne (si parla a tal proposito di new nurturant fathers).

Di fatto, nell’attuale contesto socioculturale, vengono maggiormente enfatizzati gli aspetti affettivi e di accudimento, mentre la funzione etico-normativa è lasciata più sullo sfondo. È tuttavia essenziale, oggi come ieri, che nella coppia siano presenti entrambe le risorse della cura (l’affetto e la norma) poiché l’impoverimento dell’uno o dell’altra portano inevitabilmente a situazioni problematiche, e in certi casi gravemente disfunzionali, per il figlio. Dunque le funzioni materna e paterna si radicano certamente alla persona del padre e della madre, ma al tempo stesso le trascendono.

SOLO L’AMORE PUÒ BASTARE?

Facendo leva proprio su questo aspetto, molti traggono la conclusione che ciò che è davvero importante sia la qualità delle relazioni familiari, indipendentemente dal fatto che vi siano un padre e una madre: crescere in un ambiente sereno, privo di conflittualità e improntato al dialogo e al rispetto sembra, agli occhi di molti, essere più decisivo rispetto alla presenza concreta di un padre e di una madre. D’altra parte, la realtà ci insegna che è effettivamente possibile crescere anche senza un genitore: l’esperienza di numerose famiglie in cui anche non per scelta, ma per un’avversità del destino, una figura genitoriale è venuta a mancare, può testimoniare che, pur nella fatica della perdita e dell’assenza – che va comunque affrontata ed elaborata — i figli possono crescere sani e sereni anche con la sola madre o il solo padre.

In questi casi un ruolo assai importante può essere ricoperto anche da altre figure di riferimento, quali nonni, amici, educatori e reti di sostegno esterne, dato che l’esercizio delle funzioni educative può essere condiviso anche con altri che non siano l’altro genitore. Ma davvero queste osservazioni bastano a scardinare la convinzione dell’importanza per un figlio di poter essere cresciuto da un padre e da una madre? È proprio vero che “tanto quello che conta è l’amore” (Cigoli, Scabini, 2013)?

In realtà, e soprattutto se ci mettiamo dal punto di vista del figlio, dobbiamo riconoscere la “necessità” per ogni essere umano di un paterno e di un materno o meglio proprio di “quel padre” e di “quella madre”. Se c’è infatti un dato indiscutibile su cui non si può obiettare, è che per nascere, “quel figlio” ha bisogno di “quel padre” e di “quella madre”.

Assistiamo nella odierna cultura occidentale alla compresenza di due opposte estremizzazioni: 1) da una parte la tendenza a ridurre lo psichico al biologico: ne è prova il tentativo di ricondurre al dato biologico e genetico la causa di tutte le patologie psichiche; 2) dall’altra, si assiste al diffondersi dell’estremo opposto, ovvero una netta distinzione, fino alla separazione e al totale scollamento dello psichico dal biologico, come se il primo non “abitasse” in un corpo sessuato e geneticamente conformato. Di fatto operare una detta scissione tra il dato biologico e la dimensione psichica è del tutto fuorviante.

Nella realtà sono dimensioni inestricabilmente connesse: detto in altre parole, l’essere umano è un tutt’uno composto di mente e di corpo strettamente connessi tra loro. La differenza di genere e di generazione sono inscritte nella procreazione e sono metafora della vita psichica: il figlio è sempre generato da due e da due “diversi”, potremmo dire da una corposa presenza di un maschio e una femmina, che sono il padre e la madre e che portano con sé due stirpi familiari, due storie inter-generazionali e sociali, e di tutto ciò ha costante bisogno nella sua crescita.

Pertanto il figlio, nel tempo per strutturare la propria identità personale, ha bisogno di riconoscersi nel suo punto di origine che è sempre frutto di uno scambio tra quel materno e quel paterno che lo hanno generato. Non c’è identità senza un’origine. In altre parole non riusciamo a rispondere esaurientemente alla domanda “chi sono io?” senza far riferimento alla nostra origine, ossia al padre e alla madre che ci hanno generato. D’altra parte, dal punto di vista biologico, è stato calcolato che un bambino è la combinazione dei geni di 240 persone, otto generazioni, cioè circa due secoli! E questa componente genetica viene immediatamente “catturata” nella dimensione psicologica e a essa vengono attribuiti una serie di significati che vanno a strutturare le vita psichica.

Un valido punto di osservazione di tutto ciò è il tema della somiglianza: fin dalla nascita, agli aspetti di somiglianza viene immediatamente attribuito un particolare significato di appartenenza del figlio alle stirpi familiari. Alcune ricerche hanno evidenziato come la madre e i familiari attribuiscano più frequentemente la somiglianza del nuovo nato “al padre”: si potrebbe cogliere in questo un movimento, spesso inconsapevole, della famiglia estesa per chiamare il padre e per coinvolgerlo nel legame con il figlio (Greco, 1997).

L’attribuzione di somiglianza non è pregnante solo nella fase immediatamente successiva alla nascita, ma evolve nel tempo e trascende l’aspetto fisico per abbracciare tratti della personalità del figlio che richiamano spesso persone della parentela anche allargata. In altre parole, il figlio si trova fin dalla nascita “investito” di attese, valori e significati, da parte del padre e della madre e attraverso questi ultimi da parte delle rispettive famiglie di origine, ovvero delle due genealogie familiari (Cigoli, Scabini, 2006).

CONTESTO FAMILIARE ADEGUATO

Dunque, poter fare riferimento sul piano della realtà a due genitori, ovvero a quel padre e a quella madre nella loro essenziale unicità e, attraverso di loro, alle due stirpi familiari è una condizione necessaria per dare un fondamento reale e non immaginario alla propria identità. Ne è prova l’angoscia di chi, per i motivi più diversi, non ha accesso alle proprie origini, non sa o non di rado è impedito od ostacolato nella conoscenza, come sono per esempio i casi di adozione.

Fin qui abbiamo evidenziato sinteticamente come il bisogno di padre e di madre, anzi di “quel padre” e di “quella madre” sia inscritto in ciascun figlio, non solo nel suo Dna ma anche nel bisogno di relazione che è tipico di ogni essere umano e fondamento della sua struttura psichica. Il piccolo dell’uomo si apre alla vita solo ed esclusivamente in un contesto di relazioni che gli assicurano protezione e cura, e nel tempo attraverso il rispecchiamento gli permette di capire chi è e di strutturare la sua identità. Noti sono i resoconti di Spitz relativamente alla situazione di molti bambini ricoverati negli orfanotrofi alla metà del secolo scorso che, seppur curati e nutriti, entravano in quella che fu definita la “depressione analitica” fino a lasciarsi letteralmente morire proprio perché privi di quella risorsa fondamentale che è la relazione con una figura di accudimento stabile e premurosa.

Tutto ciò è stato recepito a livello normativo nella Convenzione Onu dei Diritti del fanciullo del 1959, in cui al Principio sesto si dice: «II fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori». Più di recente la Convenzione de L’Aja del 1993, che regolamenta tra le altre anche l’adozione, nei suoi principi «riconosce che, per lo sviluppo armonioso della sua personalità, il minore deve crescere in un ambiente familiare, in un clima di felicità, d’amore e di comprensione».

A livello nazionale, poi, possiamo ricordare la Iegge 149 del 2001 che riprende e integra la legge 184 del 1983 e che all’articolo 1 recita: «II minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia».

Ma quando tutto ciò non è possibile? Anche ai giorni nostri, seppur siano cambiate le condizioni socioculturali rispetto all’epoca delle osservazioni di Spitz, sono numerosissimi i casi di bambini che per i motivi più diversi sono privati del tutto o in parte di una relazione adeguata con il proprio padre e la propria madre.

In questi casi è unanimemente riconosciuta e stabilita per legge la necessità di ricorrere a un nucleo familiare sostitutivo ritenuto maggiormente idoneo alla crescita fisica e allo sviluppo psicologico e cognitivo: cioè, laddove si renda necessario un allontanamento dal nucleo di origine, perché assente, carente o non adeguato, il collocamento in una famiglia sostitutiva, sia essa affidataria o adottiva, risulta preferibile rispetto alla permanenza in una struttura residenziale.

Infatti, è stato evidenziato come, al di là della mutevolezza delle condizioni medico-sanitarie, per ogni anno trascorso in istituto il bambino accumula mediamente un ritardo di circa 3 mesi nella crescita fisica e nello sviluppo psicologico e cognitivo, mentre il collocamento nella famiglia adottiva ne favorisce un sorprendente recupero da tutti i punti di vista (Juffer, van IJzendoorn, 2006).

Inoltre, qualora i bambini adottati siano posti a confronto non tanto con i coetanei che vivono nella propria famiglia biologica, quanto con quei minori che rimangono in istituto o in comunità e che di conseguenza hanno un background di provenienza simile agli adottati, in termini di probabilità di rischio genetico, di trascuratezza e di esperienze pregresse, le differenze riscontrate vanno decisamente a vantaggio dei soggetti adottati: questi ultimi globalmente manifestano con minore probabilità problemi comportamentali, una migliore riuscita scolastica e un quoziente intellettivo decisamente superiore (Palacios, Sanchez-Sandoval, 2005).

L’adozione, assicurando un ambiente di tipo familiare, ovvero la presenza di un padre e di una madre, costituisce effettivamente un’occasione favorevole alla crescita per quei bambini che sono privi di un contesto familiare adeguato, consentendo un consistente recupero (Rosnati, 2010).

Inoltre, non poche ricerche hanno evidenziato come i bambini collocati in famiglia adottiva dopo aver trascorso un periodo in famiglia affidataria abbiano potenzialità di recupero sia relazionali sia cognitive decisamente superiori ai bambini che permangono in istituto. Dunque il contesto familiare – anche sostituivo a un nucleo di origine – è l’unico capace di garantire al minore un contesto adeguato per la crescita, perché è l’unico che possa rispondere al bisogno di padre e di madre di ogni figlio.

L’ADOZIONE E L’AFFIDO

Adozione e affido sono riconosciuti come strumenti di protezione dell’infanzia: in che senso? Possono essere definite forme di garanzia della condizione di “figlità”, dell'”essere figli”. Andiamo più a fondo sulla questione. Tale condizione, costitutiva e accomunante tutti gli esseri umani (tutti noi siamo figlio/a di …), presuppone la presenza di diverse dimensioni, che altrove abbiamo definito (Greco & lafrate, 2001; Rosnati, Greco, 2007; lafrate, Bertoni, 2013; Saviane, Comelli, 2013) biologica, accuditivi-educativa, storico-intergenerazionale e sociale.

Si è figli, infatti, in quanto biologicamente concepiti e generati da una coppia genitoriale (registro biologico); in quanto nutriti, accuditi e fatti crescere attraverso la cura responsabile (registro accuditivo-educativo) ; in quanto resi membri di una stirpe e inseriti in una storia intergenerazionale di cui il cognome è il segnale più immediato (registro storico-intergenera-zionale) ; si è figli, infine, in quanto riconosciuti nella propria appartenenza civile, sociale, etnica e culturale (registro culturale-sociale).

La compresenza di questi quattro “registri” è ciò che consente a ciascun figlio di crescere in quanto figlio e ne definisce l’identità più profonda: pertanto non è sufficiente per un figlio che sia svolto l’accudimento relativo ai suoi bisogni puramente biologici se poi non viene rispettato il suo bisogno di essere guidato o di essere riconosciuto come parte di una genealogia familiare o sostenuto nel suo percorso di diventare cittadino del mondo.

Quando uno o più di questi registri viene meno, la persona rischia quindi di non poter realizzare pienamente la sua identità, costitutiva della sua stessa esistenza. Si potrebbe affermare che “non si esiste se non come figli”. Per questo il contesto sociale si fa carico e cerca di supplire alle eventuali carenze su questo aspetto, riconoscendo implicitamente il valore della categoria antropologica di figlio come «generato da un padre e da una madre entro una storia intergenerazionale e sociale».

Nell’adozione come nell’affido, i genitori assumono su di sé soprattutto la funzione accuditiva ed educativa che sono venute meno nel nucleo d’origine. Essi sono chiamati infatti a dare affetto e protezione al figlio che viene loro affidato, a trasmettere norme e valori, a essere guida e dare orientamento nella vita.

1 Adozione. Nel caso dell’adozione, in particolare, il legame genitori-figli si costituisce a partire dalla mancata condiyisione della dimensione biologica. È proprio l’elaborazione di questa mancanza – sia da parte del figlio sia dei genitori adottivi – a costituire il perno della vicenda adottiva. I genitori, dunque, si trovano ad assumere, nel senso di “fare proprie”, le altre tre dimensioni e a svolgere la cura responsabile (registro accuditivo-educativo), costruire una comune appartenenza familiare, sancita per altro dall’assunzione del cognome (registro storico-intergenerazionale), nonché a inserire il figlio a pieno titolo nel contesto sociale (registro culturale-sociale): il figlio, infatti, entra a pieno titolo nella storia familiare e sociale e diviene il depositario di quanto viene trasmesso e sedimentato nello scambio tra le generazioni.

Lo snodo cruciale sta nel fatto che l’adozione permette al bambino di sentirsi pienamente figlio dei genitori adottivi, appartenente a quella specifica famiglia e alla sua storia plurigenerazionale, pur continuando a essere, nel registro biologico, figlio di altri e, nel caso di adozione internazionale, anche di un’altra cultura (Greco, Rosnati, 2001). Infatti, ciò che rimane iscritto nel passato e non cancellabile è il registro biologico, che come abbiamo visto ha immediatamente anche una notevole pregnan-za dal punto di vista psicologico.

Alla base del legame adottivo è posta la differenza: innanzitutto la differenza genetica cui spesso si associa anche la differenza etnica, di lingua e di cultura. Il tema della differenza, infatti, è destinato a rimanere un tema “sensibile” nelle famiglie adottive, in particolare durante l’adolescenza del figlio adottato, che cresce in mancanza di uno «specchio biologico» (Brodzinsky, 1990), di solito offerto dai genitori: i suoi tratti somatici rimandano infatti costantemente a un “altrove”. L’identità, compito peculiare della fase adolescenziale, si costruisce, come abbiamo detto, a partire dal riconoscimento dell’origine.

Infatti, viva è nei ragazzi adottati la domanda: «Chi mi ha generato? Perché non mi ha tenuto?». Molti sono quelli che, una volta diventati adulti, cercano, a volte attivamente e realmente, a volte solo interiormente in una sorta di viaggio simbolico, tutte le informazioni, tutto ciò che può riempire quel “buco nero” che avvertono così prepotentemente dentro di loro.

Il compito è dunque quello di trovare il filo rosso che lega i diversi capitoli della propria storia, per dare continuità e significato al Sé: tale compito non può essere svolto in solitària, ma è un compito congiunto di genitori e figli. Molto in sintesi possiamo dire che tanto più il figlio si sentirà accettato, riconosciuto e valorizzato nella sua differenza e nella sua diversa origine, tanto più sarà in grado di mettere radici nella nuova famiglia e di “approfittare” pienamente della cura e di tutte le molteplici risorse che gli vengono offerte nel nuovo contesto familiare.

2 Affido. Nell’affido, i genitori affidatari svolgono le funzioni accuditivo-educative (ritenute non adeguate nelle famiglie di origine), ma sono chiamati a mantenere e garantire un rapporto non solo simbolico, ma reale con la famiglia biologica (o parte di essa) , di cui il minore conserva il cognome, ovvero l’appartenenza intergene-razionale e culturale. Anche in questo caso il rispetto della diversità è la chiave di successo dell’affido che rischia di essere fallimentare proprio quando si cerca di inglobare il figlio in affido, senza rispettare e proteggere la sua appartenenza anche alla famiglia di origine (Greco, latrate, 2001; Greco, Co-melli & latrate, 2011).

Non di rado, i figli si sentono lacerati da conflitti di lealtà tra le due famiglie dalle quali sono contesi e allora si sentono costretti a “schierarsi” o con gli uni o con gli altri. In questi casi, tuttavia, è vanificata la stessa efficacia dell’intervento, perché il non rispetto dei confini impedisce ai figli di godere anche dei benefici della cura che gli affidatari sono in grado comunque di garantire.

In sintesi, possiamo dire che la necessità di riconoscersi in un padre e in una madre è un’istanza originaria dell’umano e, al di là della presenza/assenza fisica delle due figure, diritto inalienabile di chi è figlio: ciò che non può essere censurato e che pretende di essere rispettato è l’accessibilità almeno simbolica – quando non è possibile quella reale – alla propria origine, il potersi riconoscere in un’appartenenza che da sempre e per sempre lo definirà come persona, ovvero costituirà i “mattoni” della propria identità personale.

QUALE BENE PER LA PERSONA?

Come abbiamo visto, seppur brevemente, la complessità dell’esperienza dell’adozione e dell’affido mette pienamente in luce tutto ciò e rende evidente il bisogno iscritto in tutti i bambini di padre e madre. Curioso (per non dire inquietante) che, da una parte si investa tanto nella tutela di questo diritto dell’essere umano a essere “figlio a tutti gli effetti”, mentre dall’altra parte si remi contro le categorie antropologiche connesse a tale diritto: ne è un esempio la recente proposta di eliminare la specificità dei termini “padre” e “madre” e di sostituirli con quelli di “genitore 1 ” e “genitore.

Ma queste sono solo alcune delle tante contraddizioni della nostra cultura, che troppo spesso inneggia astrattamente e ipocritamente all’importanza dell'”amore “e del “benessere”, senza porsi il problema di ciò che è il “bene” per la persona, ossia di ciò che rende l’umanità davvero degna di questo nome e che, pur affermando la centralità dei diritti dei bambini, di fatto tende a mettere in primo piano – fino a occupare tutto lo spazio – i diritti, reali o supposti, degli adulti.

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