L’omogenitorialitá ovvero l’adozione omosessuale

adozioni_gayNewsletter n.69 dell’associazione Scienza & Vita ottobre 2013

di Massimo Gandolfini * e Roberto Marchesini**

I temi cosiddetti “eticamente sensibili” o della “biopolitica” suscitano, quasi visceralmente, reazioni di schieramento fra ideologie contrapposte, che impediscono che argomenti complessi e delicati vengano affrontati in spirito di ricerca, collaborazione e dialogo, utilizzando lo strumento più “neutro” di cui disponiamo: la ragione, che produce argomentazione razionale. Nella speranza che non sia l’ennesimo buco nell’acqua, proviamo ad affrontare il tema della omogenitorialità, evitando sia argomentazioni ideologiche o confessionali, sia schieramenti precostituiti politici o partitici.

Negli ultimi anni, nel dibattito pubblico è stato introdotto il tema della cosiddetta “omogenitorialità”, da cui si vorrebbe derivare il diritto di adottare bambini da parte di coppie gay. Il fatto che le coppie eterosessuali lo possano fare e quelle omosessuali no, viene presentato come un’intollerabile discriminazione. Prescindendo dagli aspetti antropologici e giuridici (che non sono di poco conto), l’argomento “scientifico” che viene opposto è l’affermazione perentoria che esistono evidenze scientifiche che permettono di affermare che le coppie omosessuali sono parimenti idonee a quelle eterosessuali, ai fini dello sviluppo psicofisico e del benessere generale dei bambini.

Questa tesi viene, di fatto, a contraddire e rigettare più di centocinquant’anni di studi in ambito di psicologia dell’età evolutiva, da Freud ai nostri giorni. Il presidente dell’Associazione Gay Net Italia, Franco Grillini, ha dichiarato che “… ci sono in Italia centomila bambini che crescono bene in coppie LGBT e, come dimostrano gli studi scientifici in materia, non c’è alcuna apprezzabile differenza nella crescita equilibrata con gli altri bimbi che vivono in coppie eterosessuali”.

Del resto, sulla medesima lunghezza d’onda, ben più autorevoli voci si sono alzate; prima fra tutte quella della American Academy of Pediatrics ha dichiarato che: “una considerevole mole di letteratura professionale fornisce la prova che bambini con genitori omosessuali possono avere gli stessi benefici e le stesse aspettative in termini di salute, adattamento e sviluppo dei bambini i cui genitori sono eterosessuali”.

La “considerevole mole” a supporto è rappresentata da nove studi, che è doveroso analizzare per farci una visione più ampia e documentata possibile. Il primo lavoro è una ricerca empirica nella quale genitori gay e lesbiche raccontano la loro esperienza personale con il sistema pediatrico americano, che giudicano in modo decisamente favorevole e soddisfacente, pur bisognoso di correggere qualche carenza marginale. Come si vede, viene trattato un aspetto dell’organizzazione sanitaria pediatrica americana che non ha nulla a che fare con il tema dell’omogenitorialità.

Il secondo ed il terzo sono due “amicus brief” ad opera dell’American Psychological Association (APA). Per i non addetti ai lavori, un “amicus brief” è un saggio offerto spontaneamente al tribunale da parte di un terzo non parte in causa, inerente l’argomento in discussione.

I due lavori citati e riportati, ad opera abbiamo detto dell’APA, riguardano, il primo, una madre lesbica (che aveva già una figlia) alla quale era stato negato l’affidamento ed il secondo un padre gay al quale la moglie voleva impedire le visite del figlio alla presenza del suo nuovo compagno omosessuale. Il quarto è un articolo nel quale gli stessi Autori (Melanie A. Gold, Ellen C. Perrin, Donna Futterman, Stanford B. Friedman) – pur traendo delle conclusioni favorevoli alle adozioni di coppie gay – dichiarano il valore oggettivo e scientifico assai limitato del loro studio, a causa di “campioni di piccole dimensioni, selezione di soggetti non casuale (significa che i soggetti in studio sono stati scelti non a caso – ndr), una gamma ristretta di contesti socioeconomici e razziali e la mancanza di follow-up longitudinali”.

Il quinto riferimento bibliografico è rappresentato da una rassegna che l’autrice, dottoressa Fiona Tasker, dedica a due studi inglesi aventi le seguenti caratteristiche:

– il primo, mette in comparazione un piccolo numero di 37 bimbi cresciuti con una coppia lesbica, con un gruppo di controllo rappresentato da 27 bimbi cresciuti con una madre sola (non con una coppia eterosessuale). Il metodo d’indagine e valutazione utilizzato dagli Autori è quello della “intervista semistrutturata” a madri e bambini;

– il secondo, confronta due piccoli campioni (15 bimbi cresciuti da madri lesbiche e 15 bambini cresciuti da coppie lesbiche) con un gruppo di controllo decisamente “particolare”: 42 bimbi cresciuti con madri eterosessuali sole, 41 bimbi nati da inseminazione artificiale e cresciuti da coppie eterosessuali, 43 coppie eterosessuali con un figlio nato con tecniche di fecondazione artificiale. A completamento, si deve aggiungere che il gruppo delle madri lesbiche e quello delle madri sole erano composti da soggetti che si erano offerti volontari.

Anche in questo caso, il metodo seguito è stato quello – assai controverso, perché molto poco oggettivo – dell’intervista semi-strutturata. Concludendo, l’Autrice – affermando l’assenza di differenze fra lo sviluppo dei piccoli appartenenti a tutti i gruppi in esame – deve ammettere che “è emersa una correlazione positiva fra autostima dei bimbi e presenza del padre”.

Il sesto studio è una rassegna delle tre ricerche della dottoressa Charlotte Patterson, curata da lei stessa. Una sorta di “autocitazione”. La Dottoressa Patterson è una nota attivista lesbica, convivente con una compagna con la quale ha cresciuto tre figli.

La prima ricerca è priva di qualsiasi valore oggettivo. Si tratta di una raccolta di interviste, senza alcun gruppo di controllo, “costruita su un campione non rappresentativo, arruolato attraverso il passaparola”. La seconda passa in rassegna un gruppo di 55 famiglie lesbiche e 25 famiglie eterosessuali che hanno avuto il figlio attraverso la Banca della Sperma della California, quindi attraverso fecondazione eterologa.

La terza riporta il resoconto di 44 madri lesbiche conviventi ed un gruppo di controllo di 44 madri in coppie eterosessuali. Oggettivamente, solo a quest’ultimo studio si può attribuire qualche valenza di attendibilità, ma sempre con il grave limite di essere un campione assai – troppo – limitato per poter trarre conclusioni fondate.

Ed ecco le conclusioni della dottoressa Patterson: “Che un effetto misurabile dell’orientamento sessuale dei genitori sullo sviluppo sessuale dei bambini sia dimostrato o meno, le principali conclusioni della ricerca condotta fino ad oggi restano chiare: qualunque correlazione possa esistere tra gli esiti sui bambini e l’orientamento sessuale dei genitori, è meno importante di quella fra i risultati dei bambini e la qualità della vita familiare”.

E’ certamente un linguaggio criptico, ambiguo rispetto alla chiarezza della risposta che ci si aspettava e, soprattutto che sposta nettamente il fuoco del problema: s’introduce il dato della “qualità della vita familiare” e si passa in second’ordine il dato che ci interessava, cioè l’omogenitorialità, valore od ostacolo nella crescita armonica del bambino.

Per completare la citazione della dottoressa Patterson è doveroso aggiungere che nel 1977 il Tribunale della Florida ha stabilito che: “…l’imparzialità della dottoressa Patterson è diventata discutibile quando prima del processo si è rifiutata di consegnare a suoi legali le copie della documentazione da lei utilizzata negli studi.

La dottoressa Patterson ha testimoniato la sua propria condizione di lesbica e l’imputata ha sostenuto che la sua ricerca era probabilmente viziata dall’utilizzo di amici come soggetti per la ricerca stessa. Tale ipotesi ha acquisito ancor più credito in virtù della sua riluttanza a fornire i documenti ordinati”.

Il settimo apporto bibliografico non andrebbe neppure citato per la sua palese insignificanza. Si tratta, infatti, di un libro-raccolta di interviste a genitori omosessuali e a figli di genitori omosessuali, nelle quali ognuno racconta sé stesso.

L’ottavo è un studio che passa in rassegna 17 ricerche sulla genitorialità lesbica, e riguarda donne “giovani, bianche, di classe sociale medio-alta, di istruzione elevata, residenti in aree urbane ed aperte circa la loro condotta sessuale”. Si vede bene che non si tratta di un campione rappresentativo della popolazione.

Il nono ed ultimo riferimento è un Technical Report dell’American Academy of Pediatrics (AAP), a firma Ellen Perrin. La conclusione non può non lasciare quantomeno perplessi per la sua intrinseca contraddittorietà: “I campioni piccoli e non rappresentativi presi in considerazione e l’età relativamente giovane della maggior parte dei bambini suggeriscono qualche riserva….non vi è alcuna differenza sistematica tra genitori gay e non-gay per salute emotiva, capacità genitoriali e atteggiamenti nei confronti della genitorialità”.

I membri del consiglio dell’American College of Pediatricians hanno assunto una posizione molto critica nei confronti dell’ AAP, inviando alla redazione della rivista “Pediatrics” una lettera nella quale contestano le affermazioni a favore dell’omogenitorialità: “Troviamo questa posizione insostenibile e, qualora fosse attuata, gravemente dannosa per i bambini e la famiglia…. Siamo contrari a questa posizione per l’assenza di prove scientifiche a suo sostegno, e le potenziali conseguenze negative sui bambini. Concedere lo status di matrimonio legale alle unioni omosessuali sarebbe un tragico errore di calcolo, che porterà danni irreparabili alla società, alla famiglia e ai bambini”.

Come si vede, “la considerevole mole di letteratura professionale” e “gli studi scientifici” invocati a sostegno della cultura LGBT è di indubbia scarsa rappresentatività e qualità scientifica, non fornisce alcuna prova oggettiva e non produce risultati univoci. Il millantato credito autoreferenziale soffoca ogni sforzo onesto di ricerca davvero scientifica, nella direzione del “miglior interesse” e del “miglior bene” possibile per il bimbo adottabile.

A questo proposito – cioè che lo sforzo della società, in generale, e del legislatore, in particolare deve avere come scopo primario ed imprescindibile il maggior benessere per il bambino in stato di adattabilità  è utile riferirsi ad uno studio comparso su “Duke Journal of Gender Law & Policy” (volume 18, 2008), autore Richard E. Redding, che riesaminando la letteratura sull’omogenitorialità in prospettiva favorevole alla cultura gender, giunge alle seguenti conclusioni:

– la letteratura sull’argomento è influenzata da un pregiudizio favorevole alle posizioni gender ( e ciò avviene in perfetta coerenza sia con l’orientamento “liberal” che caratterizza la psicologia e la psichiatria attuale, sia con il fatto che la maggior parte degli Autori è personalmente implicato in questo tema);

– le ricerche indicano che i figli di coppie gay e lesbiche sviluppano un orientamento omosessuale (ma questo non è necessariamente un male);

– la popolazione omosessuale ha un’incidenza maggiore di depressione, ansia ed abuso di sostanze , rispetto alla popolazione generale (ma non tutti i gay e le lesbiche soffrono di questi problemi);

– la ricerca ha stabilito che una famiglia formata da un padre e da una madre conviventi è la miglior condizione nella quale i figli possano crescere (ma la legge non obbliga ad essere “genitori perfetti”).

Quindi, in conclusione: “Al momento non possediamo un numero sufficiente di ricerche che consentano di concludere che crescere in una famiglia gay o lesbica non causa danni psicologici ai bambini. Ma questo è diverso dal concludere che crescere in una famiglia omosessuale è un’esperienza positiva per i bambini come lo è crescere in una famiglia eterosessuale”.

Il sociologo Mark Regnerus, dell’Università del Texas, ha pubblicato una ricerca che ha coinvolto 3000 giovani, dai 18 ai 39 anni. Tra questi, 175 erano figli di donne coinvolte in una relazione omosessuale e 73 figli di uomini nella stessa condizione. Questo campione è stato confrontato con un gruppo di controllo formato da figli di genitori sposati conviventi, figli adottivi, figli di separati, figli di genitori risposati, figli di genitori soli.

Sono emerse numerose differenze fra le varie categorie, e l’autore ne descrive ben 25. Il pregio di questo studio consiste nel fatto che si tratta di una ricerca unica per ampiezza del campione e per rigore scientifico, che non vuole giungere a conclusioni definitive, ma si limita ad esporre, circostanziandola con dati e numeri, la grande problematicità del tema.

Ciononostante, Regnerus ed il suo lavoro sono stati duramente attaccati dalla lobby gay, che non tollera che si alzi anche una sola voce che esponga dubbi e criticità. Due le critiche sollevate: Regnerus è cattolico e lo studio è stato finanziato da due fondazioni di stampo conservatore; sono stati utilizzati figli di genitori coinvolti in una relazione omosessuale, anziché figli cresciuti in coppie omosessuali.

Si è anche giunti a denunciare Regnerus di aver falsificato i dati, chiedendo all’Università del Texas di istituire una commissione d’inchiesta. Il responso finale della commissione è stato: “ .. la ricerca è stata gestita in modo coerente ed è in linea con i requisiti normativi federali, che regolano le indagini sulla cattiva condotta nella ricerca”.

Contemporaneamente allo studio di Regnerus, sull’Elsevier’s Social Science Research (10.06.2012) veniva pubblicato un lavoro di Loren Marks, ricercatrice dell’Università della Lousiana, in cui veniva smontata l’affermazione dell’APA, secondo la quale “nessuno studio prova che i bambini di genitori gay o lesbiche sono svantaggiati rispetto ai bambini con genitori eterosessuali”. L’autrice ha analizzato rigorosamente la fonte scientifica di riferimento dell’APA, rappresentata da 59 studi. Questi i risultati:

– dei 59 lavori, 26 sono descrizioni della vita dei bambini entro coppie gay, senza alcuna analisi comparativa con bambini cresciuti entro coppie eterosessuali;

– dei 33 lavori che, invece, questo confronto lo compiono. 13 famiglie classificate come “eterosessuali” sono in realtà o madri single, o ragazze madri, o madri separate/divorziate;

– negli ulteriori 20 lavori, non si specifica mai quale tipo di famiglia eterosessuale è in gioco: coppia sposata e convivente, coppia di fatto (stabile o occasionale), coppia proveniente da precedente divorzio, presenza di figli provenienti da precedenti relazioni, ecc…

– le coppie omosessuali valutate sono principalmente rappresentate da lesbiche bianche, con alto grado d’istruzione, di classi sociali abbienti; le famiglie eterosessuali valutate sono principalmente monogenitoriali e monoreddito, medio-basso.

La conclusione dello studio non ha per nulla i toni dello scontro o della faziosa contrapposizione. Ci si limita a dichiarare che: “E’ vero che gay e lesbiche possono essere buoni genitori … ma una stabile unione matrimoniale fra un padre ed una madre resta la forma sociale migliore per il bambino”.

Abbiamo passato in rassegna gli studi più significativi, ma ne abbiamo analizzati numerosi altri, che per ragioni di spazio/tempo, necessariamente ridotti, è impossibile affrontare in dettaglio. Comunque, il “filo rosso” che lega tutti questi studi, può essere individuato in questi elementi:

– la ricerca sul tema del rapporto fra omogenitorialità e sviluppo psicofisico del bambino è di pessima qualità sul piano del rigore della ricerca scientifica (è vero che la ricerca “perfetta” non esiste, soprattutto in ambito di scienze umane, ma la ricerca su questo tema è inaccettabilmente lacunosa ed approssimativa)

– il pressapochismo dimostrato può essere frutto o di incompetenza o di intenzionalità funzionale: la prima ipotesi non vorremmo neppure prenderla in considerazione, la seconda – certamente palese e documentabile – costituisce proprio l’esatto contrario del paradigma “scientifico”: invece di partire da un’ipotesi di lavoro da convalidare con argomenti sicuri e concreti, fino a giungere ad una tesi documentata, assistiamo all’operazione contraria, per cui partendo dalla tesi (l’omogenitorialità ha il medesimo valore della coppia eterosessuale in ordine allo sviluppo del bambino) si costruiscono campioni che la sostengono, eliminando ogni dato ad essa contradditorio.

Nonostante questo grave vulnus (che di per sé invalida qualsiasi ricerca), qualche dato importante possiamo trarlo anche dai lavori citati a favore dell’omogenitorialità. Ad esempio, i figli di genitori con tendenze omosessuali sono più esposti a numerosi rischi, soprattutto in ordine allo sviluppo della propria identità di genere.

E’ vero che numerosi ricercatori “gayfriendly” considerano questo dato come un valore positivo, ma – per contro – andrebbe anche ricordato che tutte le statistiche attestano una maggiore incidenza di malattie fisiche o psichiche nella popolazione omosessuale rispetto alla popolazione generale, con la conseguenza di una vita più breve nelle persone gay o lesbiche rispetto alla popolazione generale.

Per approfondire e chiarire meglio quest’ultimo aspetto, è necessario percorrere un breve excursus nella storia della psicologia dello viluppo della personalità del bambino, completandolo con le più recenti acquisizioni in ambito neurobiologico, dal ruolo dell’epigenetica al “sistema di rispecchiamento”. Quando si parla di “sviluppo psicologico” dobbiamo intendere una serie di cambiamenti che si verificano nelle funzioni e nella condotta della persona con l’avanzare dell’età.

Lo sviluppo è, quindi, il risultato di una modificazione strutturale e funzionale dell’organismo e riguarda, ovviamente, l’intero arco della vita, ma le modificazioni più significative, e più drammatiche, si verificano nel periodo dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza. Le tappe dello sviluppo vengono denominate “fasi” o “età” evolutive.

Fino a qualche decennio fa, si era erroneamente creduto che i cambiamenti in campo biologico, nelle fasi iniziali della vita, fossero endogeni ed indipendenti dall’ambiente. Ora, al contrario, siamo consapevoli che l’influenza ambientale gioca un ruolo per nulla marginale nello sviluppo della persona, a partire dai primi mesi della vita intrauterina e, soprattutto, extrauterina.

Nel tempo, si sono strutturati tre approcci teorici sul concetto di sviluppo:

– approccio comportamentistico, il cui assioma è che l’individuo è una struttura docile e plasmabile, caratterizzata da una capacità illimitata di apprendimento; l’organismo viene modellato dall’ambiente di vita, e lo sviluppo è costituito dal progressivo strutturarsi di risposte del bambino all’ambiente in cui vive;

– approccio organismico (Freud e Vigotskij), secondo il quale l’individuo è un organismo attivo, spontaneo, teso a realizzare le proprie potenzialità; il bambino costruisce una immagine di sé e degli altri attraverso un costante interscambio con l’ambiente;

– approccio psicoanalitico, che considera l’individuo come organismo capace di dare significato a se tesso ed all’ambiente circostante; il comportamento è il risultato di conflitti interni (amore/odio; serenità/ansia; desiderio/paura).La “personalità” (dal latino “persona”, cioè maschera) si riferisce allo stile di condotta di un individuo, conoscibile dall’esterno. Dal punto di vista scientifico, è assai complicato definire che cosa sia la personalità (lo psicologo americano Gordon Alport enumerò circa diciottomila termini utilizzati per descrivere la personalità, e 50 definizioni di personalità).

Lo stesso Autore propose una sua definizione: “la personalità è l’organizzazione dinamica, interna all’individuo, di quei sistemi psicologici che sono all’origine del suo peculiare genere di attaccamento all’ambiente”. Questi “sistemi” non sono elementi fra loro indipendenti; essi interagiscono realizzando una fisionomia unitaria che si evolve e progressivamente matura. Tuttavia, non disponiamo di dati certi che confermino che le varie caratteristiche psicologiche formino complessi unitari.

Quindi, affermare che un soggetto ha una personalità di un certo tipo ha solo il valore di un sistema sintetico di descrizione, una sorta di notazione stenografica, che racchiude un gran numero di esperienze ed impressioni che abbiamo costruito sul suo conto, osservandone il comportamento.

Non possiamo introdurci in modo dettagliato nell’argomento delle teorie della costruzione della personalità (tipologiche, dei “tratti”, psicodinamiche), ma è comunque necessario soffermarci con qualche attenzione in più sulla “psicologia dell’età evolutiva”. Innanzitutto una precisazione terminologica. La psicologia nasce come scienza autonoma all’inizio del ‘900 e si propone di studiare la psiche dell’uomo; in quanto tale, potrebbe essere definita la scienza della “soggettività”.

La psicologia dell’età evolutiva è il ramo della psicologia che studia sia, in generale, le modificazioni del comportamento durante le prime fasi della vita, sia in particolare, le modificazioni dei singoli, nel loro processo di formazione della personalità. Costituisce, quindi, uno strumento che consente di comprendere come avviene lo sviluppo normale, illustra e chiarisce le tappe obbligatorie (“stadi evolutivi”) e variabili dello sviluppo, specificando le differenze individuali.

L’età evolutiva si riferisce a quel periodo della vita nel quale si struttura l’accrescimento e la differenziazione delle varie funzioni. Al proprio interno, si distinguono fasi diverse, con limiti cronologici di valore puramente indicativo: prima infanzia (0-3 anni), seconda infanzia (3-6 anni), fanciullezza (6-12 anni) e adolescenza (12-16/18 anni).

Negli ultimi vent’anni, grazie all’enorme sviluppo delle conoscenze circa la vita embriofetale ed il rapporto con la madre, la fase prenatale è stata inclusa nell’età evolutiva. Il grande salto di qualità che ci ha concesso lo studio psicologico dell’età evolutiva è rappresentato da un cambio radicale del paradigma di valutazione: siamo passati dal considerare il bambino come una sorta di “adulto in miniatura” (“adulto nano” di Wolff), strutturato quasi esclusivamente in base ai suoi caratteri ereditari, alla consapevolezza che la sua differenza con l’adulto è soprattutto di ordine qualitativo, piuttosto che quantitativo, in cui il dato “biografico” (rapporti genitoriali, familiari, sociali, ambientali) assumono grande importanza, acquisendo sempre più valore “plasmante” e “condizionante” con il passare degli anni e l’allargamento delle figure sociali di riferimento.

In questo contesto – descritto necessariamente in modo sintetico, ma rigoroso – assume particolare importanza lo studio del processo di strutturazione della “identità personale”, quella qualità che Erikson (psicoanalista americano, di origine tedesca) definisce “costruzione del senso dell’identità”.

Il bambino definisce se stesso cercando una risposta ad una domanda interiore, ancestrale ed inconsapevole: “chi sono io?”, e lo fa utilizzando il “materiale” che ha a disposizione: il proprio “bagaglio genetico/fenotipico” ed il proprio “bagaglio ambientale”, cioè papà, mamma, fratelli, parenti, coetanei, luogo sociale con tutte le sue componenti.

Collegata allo sviluppo dell’identità personale vi è la “conoscenza del sé”, che fino ai due/tre anni (prima infanzia) ha come unico riferimento lo stretto ambito famigliare, ma che non si esaurisce nei soli primi tre anni, richiedendo un lavoro di continuo confronto con il mondo esterno (che diviene sempre più allargato) almeno fino alla fanciullezza (6/12 anni).

Questa “conoscenza del sé” è strutturale e globale: riguarda il corpo e le sue caratteristiche e funzioni, la cognizione (dall’affettività all’emotivita, dal pensiero al comportamento), la socialità (dal sentimento di difesa e conservazione, all’autostima e alla gestione dell’alterità, fino alla relazione con tutte le sue variabili), strutturando un processo graduale, che diviene sempre più articolato e complesso con il passare del tempo.

Questa “conoscenza del sé” fa parte di quelli che Ma slow (psicologo americano) definisce “bisogni primari”, che ineriscono il benessere del bimbo: per “sentirsi bene” il bambino non ha bisogno solo di nutrirsi, di dormire, di essere protetto, amato ed aiutato, ma ha necessità di “conoscersi” a 360°, come abbiamo visto, e proprio qui fonda tutta la sua importanza il dato della “differenza sessuale” genitoriale, attraverso la quale il bimbo impara e costruisce la sua propria identità e diversità sessuale.

Non è per nulla insignificante o ininfluente se la reazione intrapsichica del bambino alla figura materna è evocata da un soggetto maschio o, viceversa, se quella paterna è gestita da un soggetto femmina: con chi potrà identificare tanto il suo sesso, quanto il suo ruolo, se dinanzi a lui vi è solo una “omogenitorialità”, che esclude uno dei due sessi? L’apprendimento e la gestione del proprio sesso richiede che giunga al bimbo un flusso di informazioni/relazioni bidirezionale: da una parte l’identificazione con il sesso omologo e dall’altra la differenziazione rispetto all’altro sesso, tanto sul piano biologico (fenotipico), quanto sul piano cognitivo (affettivo, emotivo, relazionale).

Il bambino avverte il peso della gestione di un simile processo, tutt’altro che semplice ed automatico, trovando soddisfacimento nella presenza rassicurante di entrambe le figure adulte, nelle quali rispecchiarsi per identificarsi, fra similitudine e diversità. La raggiunta piena consapevolezza, favorisce il calo del livello di ansia che questo processo reca con sé e consente al bimbo di trovare la sua propria “collocazione” nel mondo, in quanto maschio o femmina.

Ma se nel momento il cui il piccolo esperisce tutti i suoi tentativi di “cognizione sessuale” lo priviamo di una delle sue figure di riferimento (o peggio, gli creiamo condizioni di ambiguità), può instaurarsi in lui un processo di regressione intrapsichica, che non può non interferire negativamente nella organizzazione dei vissuti interni del bambino/fanciullo nella prospettiva del conseguimento di uno sviluppo fisiologico della personalità.

La psicologia dell’età evolutiva, dalla sua nascita ad oggi, ha prodotto una quantità enorme di bibliografia in questa direzione e non si è mai alzata una sola voce di dissenso. Le uniche differenze, a seconda di varie scuole psicodinamiche, hanno riguardato la gravità delle conseguenze che un simile vulnus è in grado di produrre, ma mai nessuno ha messo in dubbio che potessero non esistere conseguenze negative.

Un ulteriore elemento di chiarezza sul tema, ci giunge dalle moderne “neuroscienze”. Lo studio della neurobiologia delle funzioni cognitive che caratterizzano l’essere umano, ci ha consentito di gettare nuova luce sui processi di sviluppo che stanno alla base della conoscenza di sé e della strutturazione del rapporto con il mondo che ci circonda.

Nello sviluppo delle cosiddette “neuroscienze cognitive”, una tappa fondamentale è aver individuato nella “neuroplasticità” una caratteristica strutturale del nostro cervello, in grado di plasmarlo e modificarlo, sotto la spinta della relazione con il proprio corpo, con gli altri e con l’ambiente: da qui, l’emergere della “coscienza” di sé e del mondo circostante.

La scoperta che ha rivoluzionato le nostre conoscenze in tema di sviluppo ed apprendimento cognitivo è stata l’esistenza del cosiddetto “sistema di rispecchiamento” la cui struttura cellulare è rappresentata dai “neuroni specchio”(NS) (G. Rizzolatti, 1994). Si tratta di neuroni motori, presenti in varie regioni del nostro cervello, la cui caratteristica peculiare è di essere in grado di attivarsi non solo quando eseguiamo un movimento volontario, ma anche quando osserviamo un movimento o un’azione eseguiti da un’altra persona.

E non solo, essi ci consentono anche di comprendere una data azione udendo il rumore che quell’azione provoca (esempio, la sirena di un’ambulanza) senza vedere concretamente l’azione, e di riconoscere addirittura l’intenzione che guida un certo atto motorio, utilizzando piccoli dettagli, quali l’atteggiamento della mano o la smorfia del volto. Si può, quindi, affermare che i NS consentono al cervello di correlare le azioni osservate alle proprie, riconoscendone intenzione e significato.

Si comprende facilmente, quanto sia decisivo il sistema di rispecchiamento per la costruzione del bagaglio di esperienza comune che sta all’origine della nostra capacità di agire come soggetti sociali e non solo come individui. Non a torto, molti autori individuano in questo sistema la base della nostra capacità empatica di conoscenza e condivisione dei moti dell’animo altrui che primariamente caratterizza l’essere umano, fino a prevedere che condizioni patologiche riguardanti il rapporto interpersonale (ad esempio, i disturbi della sfera autistica) dipendano proprio dal “cattivo” funzionamento di questo sistema.

Tutto ciò traduce in termini neurobiologici quanto la psicologia afferma da decenni: è impossibile pensare ad un “io senza un noi”, essendo la relazione – cioè il legame che ci unisce agli altri – parte costituente imprescindibile dello sviluppo della nostra personalità.

Dire “persona” è dire “relazione”, e la nostra personalità è una struttura aperta e dinamica, in cui l’identità del sé trova nella relazione una delle forze modellanti fondamentali. La neuroplasticità ed i NS ci impongono di guardare al nostro cervello come un vero “organo sociale”, mai definitivamente formato e strutturato, sede anzi di un processo dinamico continuamente soggetto a sviluppo e ricomposizioni per l’intero arco della vita, costringendoci a considerare il ruolo dell’ambiente, dell’esperienza, del corpo, per poi ritornare al cervello, in un incessante rapporto bidirezionale fra struttura neurale e vita vissuta.

Tutto ciò è vero per l’intero arco vitale, consentendo di rimodellare continuamente la personalità, ma è ancor “più vero” per i primi anni di vita, quando l’ambiente in cui avviene la crescita del bambino agisce su una struttura neurale totalmente vergine e massimamente condizionabile.

Le prime relazioni “sociali” il bambino le esperisce, impara ed elabora con i propri genitori, entro il nucleo famigliare, in un legame primigenio di relazione affettivo-emotiva assolutamente unico ed irripetibile. In quest’ottica, appare quantomeno ingenuo e miope credere che – in ordine allo sviluppo della conoscenza di sé e della personalità del bimbo – sia ininfluente che la coppia genitoriale sia costituita da due soggetti dello stesso sesso o di sesso diverso.

Il sé corporeo sessuale del bambino richiede il confronto ed il raffronto con il sesso omologo di un genitore ed il sesso eterologo dell’altro, in un interscambio globale in cui entra in gioco una vasta complessità di fattori che non ci sono neppure del tutto noti. Fer-ormoni, sensazioni olfattivegustative e tattili, percezioni visive ed acustiche, stimoli emotivi, affettivi e cognitivi, meccanismi intrapsichici, spingono le reti neurali del bimbo a comporsi e scomporsi, modellarsi e modificarsi, cercando un assetto strutturale, unico e personale, sul quale costruire il proprio sé.

Alla nascita, il cervello del neonato è volumetricamente più piccolo di quello dell’adulto, ma è costituito da un numero doppio di neuroni, che andranno incontro a morte (apoptosi) se non riusciranno ad interconnettersi rapidamente con altri, cioè a formare reti sinaptiche (e sappiamo che tra i due e i quattro mesi di vita il cervello del neonato genera, smantella e ricompone mezzo milione di sinapsi al secondo): una vera fucina che non conosce sosta, sotto lo stimolo di continue nuove esperienze.

Proprio in questi termini, di razionalità e prudenza scientifica, appaiono inaccettabilmente superficiali le affermazioni di neutralità dell’omogenitorialità rispetto allo sviluppo psicofisico del bambino. La conoscenza del sé, corporeo e psichico, richiede il confronto diretto, costante, stringente e solidale con le figure parentali che “incarnano” la similarità e la differenza sessuale, fisica e cognitiva, del bimbo (padre/maschio – madre/femmina) e attraverso cui “impara” la complementarietà – sessuale e sociale – di tali differenze. Del resto, la letteratura – purtroppo abbondante – della psicopatologia dell’infanzia orfana o abbandonata e/o istituzionalizzata ce ne dà una palese conferma.

Certamente, lo schema di organizzazione che caratterizza tutti i sistemi viventi, e l’uomo in modo speciale, è talmente complesso – in una interazione continua fra biologia, ambiente ed eventi stocastici che è impossibile definire rigidamente – che uno spazio aperto all’imprevedibile ed all’ inaspettato deve essere sempre riservato (Einstein affermava che ogni nuova conoscenza produce un aumento del sentimento di ignoranza), ma non per questo siamo autorizzati ad intraprendere strade “ignote e pericolose” o ad esercitare minore prudenza nel garantire le condizioni più sicure possibili. Soprattutto quando in gioco è lo sviluppo e la crescita di un bambino.

Con ciò si vuol dire che esistono certamente coppie eterosessuali pessime sul piano genitoriale, e che altresì possono esistere buoni genitori omogenitoriali, ma ciò non può costituire l’occasione o il pretesto per annullare anni ed anni di studi e di riscontri di psicologia dell’età evolutiva.

Almeno sul piano del “principio di precauzione” – giuridicamente riconosciuto e stabilito a livello internazionale, proprio nella prospettiva della “salute” della biosfera, di cui l’uomo è figura centrale (Comm. Precautionary Principle, 2 febbraio 2000; European Environmental Agency, 2001) – per tutte le ragioni che abbiamo sopra espresso, è certamente preferibile, per il maggiore benessere possibile del bambino, che questi possa crescere e svilupparsi nel contesto di una coppia stabile eterosessuale.

Non è in gioco la libera scelta dell’orientamento sessuale dei genitori, né è invocabile un diritto all’adozione che legittimi, nella forma e nella sostanza, la coppia gay; è in gioco il diritto del bambino abbandonato ad avere una famiglia (art.1, comma 5, legge 184/83) e che questa sia quella che le scienze umane e neurologiche garantiscano come la più idonea, nell’esclusivo interesse del minore, prescindendo da ogni visione morale o confessionale

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* Primario neurochirurgo e Neuropsichiatria Direttore Dipartimento Neuroscienze Poliambulanza Brescia Vicepresidente nazionale Associazione Scienza & Vita

** Psicologo e psicoterapeuta