L’impresa di Fiume avanguardia della Rivoluzione Culturale

impresa_FiumeCristianità n. 361 (2011)

Salvatore Calasso

L’impresa di Fiume compimento del Risorgimento

Nelle varie memorie dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia si può inserire a pieno titolo un episodio avvenuto molto tempo dopo, fra il settembre del 1919 e il Natale del 1920, che però, di fatto, conclude l’epopea risorgimentale e apre a nuove prospettive rivoluzionarie: l’impresa di Fiume, ideata e guidata da Gabriele D’Annunzio (1863-1938). Essa cerca di portare a compimento, in stile quasi garibaldino, l’unità del nuovo Stato italiano verso i suoi “confini naturali”, quelli cantati, secondo una retorica rispolverata anche di recente, da Dante Alighieri (1265-1321) nella Divina Commedia: “sì com’a Pola, presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna” (1).

Ma va oltre: in sintonia con la rivoluzione politica della modernità e in ideale proseguimento con l’ideologia risorgimentale, tenta d’istituire un “nuovo ordine” non solo politico, ma anche e soprattutto esistenziale e morale, un ordine che, per concretizzarsi, dovrà passare attraverso la rigenerazione della nazione e dei suoi componenti.

Non meno significativi sono i modelli che crea D’Annunzio: il risalto dato a tecniche come il discorso pubblico, il motto e lo slogan, il richiamo alla massa e alla storia idealizzata dell’antica Italia, il culto dei martiri e della bandiera; tutti esempi che disegnano una religione civile “laica” e che verranno fatti propri dal fascismo e in parte dalla politica odierna, alla ricerca di un’identità nazionale sempre precaria.

L’impresa di Fiume si pone nel magma rivoluzionario creatosi dopo la fine della Prima Guerra Mondiale (1914-1918), segnata dalla dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico — che affondava le sue radici nel Sacro Romano Impero, incarnazione politica della Cristianità, nato nella notte di Natale dell’800 — e dalla Rivoluzione Russa, scoppiata nel 1917 e all’origine della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e, nel 1922, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che già nel nome indicava il passaggio a una forma di Stato nuovo: lo Stato totalitario socialista, caratterizzato dalla dittatura del proletariato, in cui il diritto regolava la vita dell’uomo in tutti gli aspetti e lo Stato aveva il massimo potere possibile sulla persona, arrogandosi la missione di creare l’uomo nuovo, l’uomo socialista.

Questa novità politica influenza gran parte degli Stati europei, che, pur assumendo connotazioni ideologiche opposte a quella socialcomunista, ne riprendono le caratteristiche, dando inizio alla stagione dei totalitarismi.

All’interno di questi rivolgimenti epocali si situa l’impresa fiumana, che rappresenta molto più di quello per cui viene ricordata nei libri di storia. Su di essa grava l’uso fattone dal fascismo che ha presentato “le vicende fiumane al pari di un segnale della riscossa nazionale destinata a sfociare nella nuova Italia del Littorio” (2), come affermano Gerolamo “Mimmo” Franzinelli e Paolo Cavassini, nell’Introduzione al volume fotografico dedicato all’impresa di D’Annunzio. Di conseguenza, nel dopoguerra, la cultura dominante ha continuato a vederla e a giudicarla sotto quest’ottica.

Esempio di ciò è la pubblicazione nel 1961 da parte della casa editrice Feltrinelli delle lezioni tenute all’università statunitense di Harvard da Gaetano Salvemini (1873-1957), dove si legge questo giudizio: «La pratica di costringere chi portava nel cuore sentimenti impuri a bere l’olio di ricino fu inventata dai “legionari” di D’Annunzio a Fiume. Il fez, la camicia nera, il pugnale e la mazza ferrata, erano stati durante la guerra l’armamento distintivo degli “arditi”, e dagli “arditi” furono importati a Fiume; sostituirono soltanto la crudele mazza ferrata con un più gentile manganello.

La canzone “Giovinezza” e il cosiddetto saluto romano, fatto sollevando per aria la mano destra, erano durante la guerra la canzone e il saluto degli arditi e furono adottati a Fiume. Le adunate all’aria aperta, nelle quali il capo pone delle domande e la folla, alzando la mando destra, grida “Sì” o quanto altro è stato prefabbricato, furono usate da D’Annunzio a Fiume. La città anticipò sino al più piccolo particolare tutto quanto doveva accadere in Italia dopo la conquista fascista» (3).

Con il passare del tempo, però, questo episodio assume sempre più un connotato nuovo, che lo libera dal significato di un semplice colpo di mano nazionalista per annettere la città di Fiume al Regno d’Italia e lo classifica invece come un esperimento rivoluzionario che va oltre il totalitarismo, anche se a questo offre un modello, collocato in quella congerie rivoluzionaria che fu il periodo compreso fra lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e l’avvento dei regimi totalitari in quasi tutta Europa.

Cos’è la Rivoluzione

Per comprendere pienamente il carattere eversivo dell’impresa fiumana bisogna specificare cosa s’intende per Rivoluzione, alla scuola del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995): «Diamo a questo vocabolo il senso di un movimento che mira a distruggere un potere o un ordine legittimo e a instaurare, al suo posto, uno stato di cose — intenzionalmente non vogliamo dire “ordine di cose” — o un potere illegittimo» (4).

L’ordine legittimo è quello che nella sua struttura sociale e politica rispecchia «[…] una visione della realtà come dato “naturale”, cioè esiste una natura umana con leggi proprie, naturali, che presiedono al retto vivere civile: sono esse il fondamento della politica. E vanno rispettate e tutelate. Il compito dello Stato è quello di favorire tale tutela e rispetto da parte dei cittadini con una legislazione adeguata.

In questa visione si colloca la difesa di quelli che vengono chiamati valori tradizionali, come il valore primario della vita umana dal concepimento alla morte naturale, la famiglia naturale come cellula fondamentale della società, la cultura nazionale come patrimonio comune di un popolo, la proprietà come valore sociale, la religione come valore fondante il vivere personale e comunitario» (5).

La Rivoluzione intende eliminare questa visione della realtà e questo modo d’essere dell’uomo per rimpiazzarli con altri radicalmente opposti, che riconoscono nell’individuo un essere singolare, autonomo e autoreferente, portatore unicamente d’interessi propri ed esclusivi, i cui rapporti con gli altri individui sono improntati alla parzialità, alla precarietà e alla conflittualità.

L’avventura di Fiume si presenta come un esempio anticipatore dei comportamenti politici che caratterizzeranno la società occidentale dalla conclusione del Secondo Conflitto Mondiale (1939-1945) in poi ed è un’anticipazione di quella che Corrêa de Oliveira chiama IV Rivoluzione, a dominante socio-culturale ovvero di tipo morale (6).

Essa ha molte facce ma un’unica forma mentis: la prevalenza del principio del piacere, il desiderio come criterio di scelta, la concezione dell’esistenza come un susseguirsi frammentato di “attimi fuggenti”, l’assenza di progettualità. Nel microcosmo che si crea a Fiume, in seguito all’occupazione da parte dei legionari capeggiati da D’Annunzio, «[…] il piacere diventa prerogativa di tutti coloro che sono convenuti alla festa della rivoluzione. Godimenti senza limiti, divertimenti, libero fluire dei desideri, comportamenti disinibiti, privi di moralismo: tali sono i caratteri che di quest’esperienza collettiva, sostanzialmente liberatoria, ci tramandano cronache e memorie» (7).

L’avventura fiumana crogiuolo di rivoluzioni

L’avventura fiumana inizia la mattina del 12 settembre 1919 quando D’Annunzio fa il suo ingresso nella città a capo di un manipolo di granatieri per sostenere, contro i deliberati della pace di Versailles, l’annessione della città all’Italia. È un ingresso trionfale: dappertutto echeggia il suono di campane e di sirene, dai tetti piovono fronde di alloro, la città è in tripudio, l’atmosfera è surriscaldata e trabocca di entusiasmo incontenibile.

Comincia in tal modo — in maniera spettacolare, pittoresca, coreografica — un episodio di breve durata, che si concluderà nel dicembre del 1920 con il cosiddetto “Natale di sangue”.

L’impresa di Fiume negli ambienti culturali europei d’avanguardia, orientati a sinistra, ha una grande importanza e una straordinaria risonanza, come dimostra il telegramma inviato dal Club Dada di Berlino al Corriere della Sera:

«Ill.mo Signore Gabriele D’Annunzio

Corriere della Sera” Milano

Se gli alleati protestano preghiamo telefonare Club Dada Berlino. Con questa grandiosa impresa dadaista per il cui riconoscimento interverremo con tutti i mezzi. L’atlante mondiale dadaistico DADAKO (editore Kurt Wolff, Leipzig) riconosce Fiume già come città italiana.

Club Dada

Huelsenbeck. Baader. Grosz» (8).

Nella Fiume dannunziana viene creata e sperimentata «per la prima volta una liturgia della politica di massa» (9), attraverso riti collettivi, come la celebrazione degli anniversari, le cerimonie di giuramento e le marce militari, e tramite simbologie pseudoreligiose, come il culto dei caduti e dei martiri, in una sorta di nuova religiosità laica il cui perno è il rapporto quasi magico fra il “capo” e la massa, espresso soprattutto nella “manifestazione”, che diventa anche una festa in cui «[…] ogni regola di comportamento è rovesciata, l’ordine militare si converte in disciplina elastica, la rivista diventa spettacolo che coinvolge tutti in esplosioni d’allegria collettiva» (10), come descritto dal fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) durante il suo soggiorno a Fiume.

«Arriva D’Annunzio in automobile. Elegantissimo, la mano guantata di bianco continuamente alla visiera, col saluto tipico dei Lancieri di Novara. Passa davanti alle truppe pigiatissime, interrogando qua e là ufficiali e soldati. Va fin sul molo, dove sono disposte in fila le blindate, accanto a un cacciatorpediniere tutto pavesato. — Due cinematografi funzionano, uno davanti e uno sotto la tribuna imbandierata di D’Annunzio. — Dopo il discorso di D’Annunzio sfilano tutte le truppe davanti alla tribuna. Ultime e più belle di tutte, le blindate passano, movendo su e giù e puntando verso D’Annunzio le mitragliatrici in torretta. — Originalissimo saluto militare di minacciose antenne di mostri fantastici».

«Folla delirante intorno all’automobile di D’Annunzio costretto a fermarsi nella ressa. — Si forma un enorme corteo popolare con donne, bambini, soldati. Ritmo un po’ lento e grave, un po’ tedesco. — Sotto il palazzo del Governatorato urbano urlano: Parli Marinetti, mi costringono a parlare. Sollevato da 100 braccia, salgo su un muro e dico: “Nella lunga guerra meravigliosa e vittoriosa e nelle violente dimostrazioni di piazza per la Dalmazia italiana, non avevo mai sognato un così rosso vulcano di eroismo e d’italianità. Auguro ai Fiumani auguro agli Italiani e all’Italia che questo vulcano di patriottismo eroico straripi sulla bella penisola e colla sua ondata rivoluzionaria la pulisca e la ringiovanisca definitivamente”. Ovazione».

«Parla il cap. Vecchi [Ferruccio (1894-1957 ca.)], poi Rizzo [Luigi (1887-1951)] dall’alto della terrazza, poi D’Annunzio, che invita la folla a giurare per Fiume italiana e per il porto. – Uno nella folla urla: – Anche la ferrovia di Budapest! – D’Annunzio dice: Anche la ferrovia! Prendo con Vecchi la testa del corteo, precipitando nel ritmo cogli arditi che cantano, giù per la discesa ripida che si tuffa in Piazza Dante e nello specchio del porto. – Rosso – Tramonto».

«In testa alla folla che s’ingrossa, e sempre accelerando, sotto il balcone della Filarmonica ritmo futurista di danze e di schiamazzi allegrissimi. Lunghi ranghi di Arditi e ragazze alternati a braccetto. Le ragazze impazziscono dalla gioia. Corse frenetiche al Caffè Budai lunghissimo giro di corse continue, galoppi, canti. — In piazza Dante parla Libero Tancredi [Massimo Rocca (1884-1973)] da una carrozza. Andiamo al molo. Saluto urlante delle navi. – Poi invitato a parlare di nuovo, sulle spalle d’un amico: “Vi abbiamo portato un’ondata di allegria futurista. Sappiate che i veri eroi italiani, sempre pronti a morire per l’Italia, prima di lanciarsi all’attacco ridono ridono a crepapelle”» (11).

A Fiume si sperimenta un modo nuovo di fare politica, di stampo parareligioso, che i rituali e le cerimonie politiche degli Stati totalitari del secolo XX faranno proprio e raffineranno, facendone un potente strumento di propaganda teso alla fondazione rivoluzionaria di una nuova visione dell’uomo, in cui la religiosità tradizionale di natura trascendente viene sostituita da una totalmente rivolta all’immanente di cui la politica diviene l’artefice con l’utilizzo di una simbologia quasi sacrale, fatta per appagare la naturale religiosità dell’uomo.

Fiume dannunziana appare, dunque, come un microcosmo dove il percorso della modernità giunge rapidamente al suo apice.

A Fiume viene prefigurata una società rivoluzionaria dai connotati libertari e anarchici, come scrive Mario Carli (1888-1935) sul settimanale dei legionari pubblicato a Fiume a partire dall’1 febbraio 1920, con l’autorizzazione di D’Annunzio: «Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste: le dinastie ed i carceri, il papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi, l’archeologie e i corrieri della sera.

È per questo che, non potendo più accettare il dominio dell’attuale classe dirigente né avendo fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino alla concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un tipo d’uomo libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini […]. Fiume e rivoluzione non sono due cose eccessivamente antitetiche» (12).

A Fiume viene saggiato un tentativo inedito di combinare individualismo e comunitarismo, in un nuovo ordine politico-sociale, frutto di un magma ribollente di stati d’animo, di concezioni della vita plurali, di aspirazioni al cambiamento radicale dello stato delle cose, che mette insieme idealismo, nazionalismo, utopia anarchica e vitalismo festaiolo.

Lo storico Mario Isnenghi vede nell’esperienza fiumana un luogo in cui si sperimenta una nuova agorà: «Fra il settembre 1919 e il dicembre 1920 si dispiegano […] mesi di inebriante pienezza di vita durante i quali la piccola città adriatica viene strappata alla sua perifericità e vissuta e presentata — da pellegrini dell’arte, della letteratura e della politica, accorsi non solo dall’Italia, — come il luogo di tutte le possibilità: il centro del mondo, la “città olocausta” — nel linguaggio immaginifico di D’Annunzio — alla cui fiamma si alimentano il pensiero creativo e i “nuovi bisogni” — individuali e collettivi, nazionali e di genere; la “piazza universale” di tutti i progetti e di tutti i sogni» (13).

In tale contesto si afferma un clima psicologico che fa di Fiume la “città di vita”, come la definì lo stesso D’Annunzio, «una sorta di piccola “controsocietà” sperimentale, — scrive Salaris — con idee e valori non propriamente in linea con quelli della morale corrente, nella disponibilità alla trasgressione della norma, alla pratica di massa del ribellismo» (14).

In quella situazione prende corpo l’idea di fare di Fiume il crogiolo di una nuova fase della rivoluzione, in grado di andare oltre la rivoluzione bolscevica, per configurare un nuovo ordine sociale, che avrà la sua Magna Charta nella Carta del Carnaro.

Esso si pone in antitesi al tradizionale ordine europeo: «La rivolta capeggiata da D’Annunzio era diretta contro il vecchio ordine esistente nell’Europa occidentale, e fu attuata in nome della creatività e della virilità giovanili che si sperava avrebbero dato vita a un mondo modellato sull’immagine dei suoi creatori. L’essenza di tale rivolta fu la liberazione della personalità umana, quella che si può chiamare la “radicalizzazione” delle masse del popolo che per tanti secoli erano state sistematicamente sfruttate» (15).

In questo quadro l’esperienza di Fiume si configura come un modo del tutto nuovo di vivere l’esperienza politica e la stessa quotidianità. L’intellettuale anarchico americano Peter Lamborn Wilson, che si cela sotto lo pseudonimo di Hakim Bey, nel suo T.A.Z. Zone temporaneamente autonome, un classico del pensiero cyberpunk e libertario, ne parla come di un esempio di zona temporaneamente autonoma, cioè una sorta d’isola liberata dalle influenze politiche tradizionali dello Stato e del sistema capitalista in cui si sperimenta un modo nuovo di vivere, senza alcun riguardo per qualsiasi ideologia o dogma.

Ecco come la descrive: «Lui e uno dei suoi amici anarchici scrissero la Costituzione che dichiarava la musica essere il principio centrale dello Stato. La Marina (formata da disertori e sindacalisti marittimi anarchici Milanesi) si chiamò gli Uscochi, in memoria dei pirati da tempo scomparsi, che erano usi abitare le isole locali fuori costa e predare il naviglio Veneziano e Ottomano. I moderni Uscochi realizzarono alcuni colpi clamorosi: diversi ricchi mercantili Italiani improvvisamente diedero un futuro alla Repubblica: soldi nei forzieri! »

«Artisti, bohémien, avventurieri, anarchici (D’Annunzio corrispondeva con Malatesta [Errico (1853-1932)]) fuggitivi e rifugiati apolidi, omosessuali, dandy militari (l’uniforme era nera con teschio e tibie pirata — più tardi rubata dalle SS) e strambi riformatori d’ogni tipo (compresi Buddisti, Teosofisti e Vedantisti) iniziarono ad arrivare in massa a Fiume. La festa non finiva mai. Ogni mattina D’Annunzio leggeva poesie e proclami dal suo balcone; ogni sera un concerto, poi fuochi d’artificio. In questo consisteva l’intera attività del governo. Diciotto mesi dopo, quando il vino e i soldi finirono e la flotta italiana finalmente arrivò e lanciò qualche proiettile contro il Palazzo Municipale, nessuno ebbe l’energia per resistere» (16).

Durante i circa sedici mesi dell’avventura fiumana hanno fatto la loro apparizione non pochi di quei fenomeni che, con caratteristiche singolarmente affini, sono riesplosi nel 1968: il rapporto conflittuale giovani-anziani, il radicalismo di posizioni e di comportamenti, l’uso della droga, la democratizzazione dell’esercito, l’abbandono completo ai sensi, l’importanza data alla festa e al gioco, la libertà sessuale e l’esaltazione del corpo, il mito del vivere in armonia con la natura e quello della lotta per i popoli oppressi, il rifiuto della famiglia e la sperimentazione di vita in comune.

Si disse già allora che a Fiume il clima era orgiastico. Nella “città olocausta”, edonismo ed estetismo s’incontravano e si fondevano, vita e sogno, realtà e rappresentazione si sovrapponevano. A questo proposito scrive ancora Hakim Bey: «Credo che se paragoniamo Fiume con l’insurrezione di Parigi del 1968 (anche con le insurrezioni urbane italiane della prima metà degli anni Settanta) così come pure con le comuni controculturali Americane e le loro influenze Nuova Sinistra-anarchiche, dovremmo notare certe similarità, quali: — l’importanza della teoria estetica (vedi i Situazionisti) — anche la popolarità di pittoresche uniformi militari — anche quella che potrebbe essere chiamata “economia pirata”, vivere bene del surplus della sovrapproduzione sociale — e il concetto di musica come cambiamento sociale rivoluzionario — e, infine l’aria di impermanenza che condividono, di essere pronte a muoversi, a cambiare forma per ricollocarsi in altre università, cime di montagna, ghetti, fabbriche, covi, fattorie abbandonate — o anche altri piani della realtà. Nessuno stava tentando di imporre un’altra Dittatura Rivoluzionaria sia a Fiume, Parigi, Millbrook. O il mondo sarebbe cambiato, oppure niente. Nel frattempo mantenersi in movimento e vivere intensamente» (17).

I “legionari” vissero davvero una vita irreale, inimitabile, fuori del comune, sospesa in una sorta di eterno presente senza passato né futuro, come afferma lo storico Nino Valeri (1897-1978): «Una febbre fatta, nei più risoluti, di orrore per la vita dura e grigia di tutti i giorni, di disprezzo per gli ordini costituiti, di disinteresse per il passato e per l’avvenire, di irridente spregio per la virtù e per il risparmio, per la famiglia, per gli avi, per la religione, per la monarchia e per la repubblica: di nichilistica aspirazione, in fondo, di finirla in bellezza questa inutile stupida vita, in una specie di orgia eroica. Sono sentimenti codesti, che giacciono anche nel remoto sottofondo di molti benpensanti, ma normalmente repressi e condannati in nome della rispettabilità. L’esplosione sfrenata di essi fu forse la caratteristica più importante dell’ambiente legionario fiumano e segno di una situazione politica intrinsecamente rivoluzionaria, in cui D’Annunzio si trovò, un certo momento, ad essere il capo, mandato avanti piuttosto dalla forza degli eventi che da una sua chiara volontà» (18).

Lo confermano memorie e testimonianze di molti protagonisti: Le mie stagioni di Giovanni Comisso (1895-1969) (19), La quinta stagione o i centauri di Fiume di Léon Kochnitzky (1892-1965) (20), Con D’Annunzio a Fiume di Mario Carli (21); come pure i testi di narrativa quali Arabeschi fiumani dello stesso autore (22) e i romanzi Trillirì, ancora di Carli (23), e Il porto dell’amore di Comisso, del 1924 (24).

L’esperienza fiumana rinvigorisce le naturali inclinazioni giovanili verso un volontarismo irregolare ricco d’implicazioni e opera come elemento aggregante dei «[…] più svariati personaggi, non solo italiani, tanto che il comando assume un respiro tutt’altro che provinciale, ma anzi decisamente cosmopolita per la presenza, tra gli uomini più vicini al Vate e con incarichi non secondari, di alcuni giovani dai nomi esotici, Léon Kochnitzky, Henry Furst [1893-1967], Ludovico Toeplitz [de Grand Ry (1893-1973)], che rappresentano l’ala anticonformista, inquieta e ribelle del fiumanesimo, quella stessa in cui si muovono il pilota-guru Guido Keller [1892-1929], nonché gli scrittori Mario Carli e Giovanni Comisso» (25).

Sono questi giovani, che Renzo De Felice (1929-1996) definisce “scalmanati” (26), i veri protagonisti del fiumanesimo. Sono essi che danno all’impresa «[…] il valore di una esperienza, non solo esaltante ed irripetibile, ma moralmente liberatrice e politicamente anticipatrice di un nuovo ordine politico-sociale che essi non sapevano definire concretamente ma al quale anelavano; e che, nel periodo postfiumano, ha fatto sì che la maggioranza di questi legionari si schierasse contro il fascismo» (27).

Per questi legionari “scalmanati” Fiume è il rifiuto di un duro e difficile reinserimento nel vivere sociale civile, con il ritorno a una vita anonima, in un sistema di valori e di regole diversi da quelli cui la guerra li aveva abituati.

Questo rifiuto in alcuni si trasforma in una critica al sistema sociale e politico dell’epoca, che va dalla Roma liberale alla Società delle Nazioni, il “trust mondiale degli stati ricchi” (28) secondo il sindacalista e uomo politico Alceste De Ambris (1874-1934), e sfocia in una rivolta molto più vasta che esprime «[…] una risposta alle inquietudini e ai malesseri che travagliavano tanta parte degli “uomini nuovi” che la guerra, in bene e in male, aveva creati e fatti consapevoli di essere diversi dai loro padri e dal loro modo di concepire la vita, i rapporti umani e sociali, l’organizzazione del potere tra gli uomini come tra i popoli» (29).

È la ricerca di una risposta alternativa all’ordine costituito che porta l’esperienza fiumana ad assumere i connotati rivoluzionari più avanzati dell’epoca, espressi in un magma ideologico, apparentemente contraddittorio, ma rivelante l’utopia di assemblare in un ordine nuovo l’idealismo nazionalista, che si muoveva lungo le direttrici della tradizione democratico-rivoluzionaria del Risorgimento, con l’anarco-sindacalismo e il futurismo.

La Carta del Carnaro

Dall’ideologia magmatica del fiumanesimo scaturiscono i progetti repubblicani e sindacalistico-corporativi della Carta del Carnaro e il disegno del nuovo ordinamento dell’esercito liberatore; da qui l’atteggiamento con cui si guarda alla causa dei “popoli oppressi” e alla loro liberazione; da qui la ricerca di un’alleanza in chiave rivoluzionaria con la sinistra massimalista ed estrema, rappresentata in quel frangente dal nascente movimento comunista, e con la Russia dei Soviet.

Scrive in proposito Carli: «Prendendo la Russia come modello tipico di rivoluzione sociale, si vede anzitutto che il bolscevismo è stato un movimento, non tanto grettamente espropriatore, quanto rinnovatore, perché ha voluto ricostituire in base a ideali vasti e profondi l’edificio sociale, assurdamente sbilenco sotto il decrepito regime zarista. Inoltre il bolscevismo russo, animato da un potente soffio di misticismo, non si è mosso con quei criteri di pacifismo codardo, che fanno dei cortei proletari italiani altrettante processioni d’innocenti agnellini […]. Il popolo russo ha saputo anche difendere la sua rivoluzione, e gli eserciti di Lenin si sono battuti, spesso, vittoriosamente, contro i bianchi paladini della reazione».

«Assodato poi che i socialisti italiani non credono nella rivoluzione, non la vogliono e non fanno nulla per provocarla, possiamo stabilire in modo definitivo che noi legionarii non avremo mai alcun contatto, e neppure alcun cenno d’approccio, con quella ottusa cocciuta grettissima cretinissima Chiesa che è il Partito Ufficiale Socialista italiano, colpevole, davanti a noi, […] di non aver capito la bellezza e la portata rivoluzionaria dell’impresa dannunziana» (30).

«[…] il nostro sogno più caro di artisti e di lottatori è sempre stato quello di sollevare la miseria materiale e spirituale delle masse, e se domani avremo modo di sopprimere in loro prima la fame, poi l’ignoranza, potremo dire di aver raggiunto uno degli obiettivi fondamentali di tutta la nostra azione».

«Non chiediamo di meglio che chiamare accanto alle “élites” anche i rappresentanti del “numero” a partecipare alla vita collettiva, a decidere dei propri interessi e del proprio destino. Il soviet (altra parola-spauracchio per i mosci borghesi di tutti gli Stati) è un prodotto così ragionevole e così utile dei nuovi tempi, ed è già così diffuso, sotto la forma sindacale, negli ambienti amministrativi e industriali, che non si capisce perché non debba entrare senz’altro nella vita politica e militare» (31).

«[…] indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte fra queste due rive» (32).

Questa politica ha il suo clou a partire dal 10 gennaio 1920 con la nomina di Alceste De Ambris, chiamato a Fiume da D’Annunzio fin dal 21 dicembre 1919 come capo di gabinetto del Comando Fiumano, in sostituzione di Giovanni Giuriati (1876-1970) e di altri elementi radicali che prendono il posto dei moderati, e si conclude con il “Natale di sangue” del 1920.

Originario della Lunigiana, De Ambris proviene dalle file del sindacalismo rivoluzionario d’ispirazione mazziniana ed è figura carismatica di questo movimento per il suo impegno operativo nelle lotte sindacali e politiche del Parmense e per le battaglie giornalistiche combattute sulle testate di tale mondo sindacalista. Per quanto avesse scritto qualche testo teorico, era soprattutto un organizzatore e un rivoluzionario nel vero senso della parola e vedeva il sindacalismo come pura e semplice azione sovversiva.

Con la scelta di un personaggio del genere, e con tali precedenti, come suo collaboratore diretto, D’Annunzio imprime una svolta fondamentale all’impresa di Fiume, “di tipo sempre più marcatamente “rivoluzionario” (33).

Grazie alla collaborazione con un uomo che proviene dalla militanza attiva nelle file del sindacalismo rivoluzionario e con altri giovani esponenti radicali, D’Annunzio riesce a fare di Fiume “la città di vita”: «una sorta di piccola contro-società, con propri valori e un proprio modo di concepire i rapporti personali e collettivi» (34). Ciò determina in non pochi sostenitori e avversari dell’impresa la revisione dei propri giudizi, facendo affiorare una condanna morale che con il passar del tempo diviene sempre più significativa.

Nell’anno in cui è capo di gabinetto De Ambris si muove, ufficialmente sempre in accordo con il “Comandante”, secondo una duplice direzione: sul piano interno si adopera per l’adozione di una costituzione di stampo sindacalista; sul piano esterno cerca di stabilire un ponte fra il movimento fiumano, le sinistre italiane e le forze sovversive per un’azione rivoluzionaria in Italia e l’instaurazione di un ordine nuovo su base sindacalistico-corporativa.

Secondo Mario Missiroli (1886-1974) «nel caos fiumano De Ambris rappresentò un elemento che possiamo senz’altro qualificare quello della purezza delle intenzioni. Mentre D’Annunzio, il “Comandante”, combattuto fra tendenze contrastanti, sbandava di qua e di là, De Ambris, aveva un suo scopo immutabile: attuare a Fiume un ordinamento sindacalista. Era un programma utopistico, al quale, una volta riuscito De Ambris (non sappiamo come) a farlo adottare dal “Comandante”, ogni altra cosa doveva essere subordinata […]. La meta utopistica a cui tendeva De Ambris era questa: fare di Fiume, con la sua Costituzione corporativa, una prima cellula modello, un nucleo di cristallizzazione intorno al quale si sarebbe dovuta organizzare l’Italia tutta» (35).

Grazie a De Ambris a Fiume vengono gettate le basi di un esperimento politico nuovo di stampo rivoluzionario, che trova attuazione nella Carta del Carnaro, il testo costituzionale della Reggenza Italiana del Carnaro.

Il documento, reso pubblico il 30 agosto 1920 dal “Vate” che lo legge al teatro Fenice, è il risultato della redazione fatta da De Ambris e trasmessa a D’Annunzio il 18 marzo, su cui il poeta è intervenuto per trasporlo in prosa d’arte e per inserirvi alcune aggiunte e modifiche: in particolare, sostituisce all’espressione Repubblica del Carnaro, usata da De Ambris, quella di Reggenza Italiana del Carnaro, che evidenzia e ribadisce in modo più adeguato l’intento di unione territoriale di Fiume all’Italia; ricupera termini vetusti e desueti per indicare i vari istituti e le varie magistrature, riprendendoli dal linguaggio degli antichi statuti comunali e corporativi e, in qualche caso, dall’ordinamento fiumano allora vigente; aggiunge ex novo alcuni articoli, fra cui il XIV, riguardante le credenze religiose, che recita: «Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nella università dei Comuni giurati: la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà; l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono; il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo» (36).

Questo articolo disegna una nuova concezione religiosa che non ha nulla a che fare con la religiosità tradizionale, che postula l’esistenza di Dio, ma privilegia una dimensione esclusivamente orizzontale, in cui l’elemento cardine non è il rapporto con la divinità ma è il lavoro, visto misticamente come elemento capace di creare bellezza. In esso si ritrovano echi della concezione marxista che vede nel lavoro il mezzo tramite il quale la Natura, arrivata a questo stadio, attua la sua evoluzione, tendente alla realizzazione dell’uomo nuovo.

L’idea di uomo nuovo si ritrova anche nell’art. XIX riguardante le corporazioni e in particolare nella descrizione della decima e ultima corporazione: «La decima non ha arte né novero né vocabolo. La sua pienezza è attesa come quella della decima Musa. È riservata alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. È quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all’apparizione dell’uomo novissimo, alle trasfigurazioni ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l’ànsito penoso e il sudore di sangue. È rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta un’antica parola toscana dell’epoca dei Comuni, stupenda allusione a una forma spiritualizzata del lavoro umano: “Fatica senza fatica”» (37).

Questa corporazione “senza nome” indica l’obbiettivo di tutto il movimento rivoluzionario moderno: liberare l’uomo dall’eredità della fatica umana che la religione cristiana indica quale conseguenza del peccato originale. A tal proposito nella Genesi si legge: «[…] maledetto il suolo per causa tua! / Con dolore ne trarrai il cibo / per tutti i giorni della vita. / Spine e cardi produrrà per te / e mangerai l’erba dei campi. / Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, / finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai! » (38).

Questo movimento di liberazione dalla fatica del lavoro si accompagna a un altro, tipico della modernità: l’affrancamento da ogni legge morale oggettiva, vista come un limite alla libertà soggettiva. Esso viene codificato nell’ultima riga del XXXIV articolo, aggiunta da D’Annunzio, in cui, fra le materie che l’Arengo del Carnaro può trattare e deliberare, vi è quella “dell’ampliata libertà” (39), dove s’introduce un concetto giuridico, che tanta fortuna avrà nei nostri giorni, per cui «le libertà umane possano col tempo sempre allargarsi e, forse, ne possano emergere delle nuove e che lo Stato deve, se i cittadini lo ritengono opportuno, accettarle e sancirne il riconoscimento» (40).

Esso è la codificazione di una concezione libertaria dei diritti dell’uomo, secondo la quale un diritto è tale quando il soggetto ha la possibilità e la capacità di scegliere se attuarlo o meno, e lo Stato deve garantire questa “libertà”. La conseguenza è che soggetti come il feto, o le persone con gravi menomazioni, o in fase terminale, non possono avere diritti poiché sono incapaci di esercitare delle scelte e di manifestare la propria libertà.

La Carta del Carnaro, nella formulazione definitiva, prefigura, all’art. III, la creazione di uno Stato fondato sulla democrazia diretta, con “un governo schietto di popolo” (41) e sulle «[…] più larghe e più varie forme dell’autonomia quale fu intesa ed esercitata nei quattro gloriosi secoli del nostro periodo comunale» (42). Tale autonomia è così vasta che prevede un potere legislativo comunale derivato «dalla consuetudine propria, dalla propria indole, dall’energia trasmessa e dalla nuova coscienza» (43), sintetizzando, in questo modo, antiche tradizioni ed esigenze rivoluzionarie, espresse dalla “nuova coscienza”.

L’autonomia si estende al mondo del lavoro con l’autogoverno dei lavoratori organizzati in dieci corporazioni, giuridicamente riconosciute, «[…] che prendono dal Comune l’imagine della lor figura, ma svolgono liberamente la loro energia e liberamente determinano gli obblighi mutui e le mutue provvidenze» (44), alle quali «[…] sono per obbligo inscritti» (45) tutti i lavoratori in ragione del lavoro o della professione esercitati.

Nei Fondamenti, la Reggenza del Carnaro all’art. IV «[…] riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione» (46), ponendo così a suo fondamento la sovranità popolare, tipico delle democrazie moderne, e, all’articolo successivo, «[…] si studia di ricondurre i giorni e le opere verso quel senso di virtuosa gioia che deve rinnovare dal profondo il popolo finalmente affrancato da un regime uniforme di soggezioni e menzogne» (47), dando così all’azione politica un significato di rinnovamento del popolo, liberato dal regime precedente ritenuto menzognero, per guidarlo verso una felicità tutta immanente.

Si tratta di un documento costituzionale dai tratti senza dubbio nuovi, che va oltre quanto posto in essere dalle carte europee vigenti all’epoca, poiché fonde in una sintesi nuova gli aspetti democratici e libertari con una rivisitazione rivoluzionaria della tradizione storica del municipalismo italiano, attraverso la mediazione delle istanze decentratrici del sindacalismo rivoluzionario, anticipando in ciò le istanze del municipalismo libertario, tipiche dei movimenti anarchici contemporanei.

Il futurismo oltre l’esperienza del socialcomunismo

La Carta del Carnaro fu preceduta il 15 agosto dalla pubblicazione sul giornale dei legionari La testa di ferro di un testo-manifesto di Filippo Tommaso Marinetti dal titolo alquanto significativo, Al di là del comunismo. In questo scritto Marinetti pone il futurismo oltre l’esperienza socialcomunista, prospettando un’utopia politica nuova, che anticipa temi e prospettive che troveranno cittadinanza nei movimenti sessantottini.

«Vogliamo liberare l’Italia dal papato, dalla monarchia, dal Senato, dal matrimonio, dal Parlamento. Vogliamo un governo tecnico senza parlamento, vivificato da un consiglio o eccitatorio di giovanissimi. Vogliamo l’abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantità possibile di individui liberissimi, forti, laboriosi, novatori, veloci» (48).

Marinetti è cosciente che le idee del futurismo e l’esperienza fiumana si pongono al di là del socialcomunismo: «Non soltanto siamo più rivoluzionari di voi, socialisti ufficiali, ma siamo al di là della vostra rivoluzione» (49). Per lui il comunismo è l’«esasperazione del cancro burocratico che ha sempre roso l’umanità» (50), la quale «[…] cammina verso l’individualismo anarchico, méta e sogno di ogni spirito forte. Il Comunismo invece è una vecchia formola mediocrista, che la stanchezza e la paura della guerra riverniciano oggi e trasformano in moda spirituale» (51).

La rivoluzione che il leader del futurismo profila tiene in debito conto l’esperienza in atto nella nuova realtà fiumana, in cui l’arte è al potere e, con la sua capacità immaginativa, sta creando un mondo nuovo. Infatti egli propone «all’umanità come unica soluzione del problema universale: l’Arte e gli Artisti rivoluzionari al potere» (52).

Essa dovrebbe prendere il posto precedentemente avuto nella storia dalle religioni, poiché, «mentre agonizzano le ultime religioni, l’Arte deve essere il nutrimento ideale che consolerà e rianimerà le razze inquietissime, insoddisfatte e deluse dal crollo successivo di tanti banchetti ideali insufficienti» (53).

Un’utopia estetizzante in cui l’arte assume una funzione stupefacente e nutritiva, come l’alcol, «[…] ma un alcool di ottimismo esaltatore, che divinizzi la gioventù, centuplichi la maturità e rinverdisca la vecchiaia» (54). Lo scopo dell’arte è quello «[…] di ingigantire la facoltà sognatrice del popolo e di educarla in un senso assolutamente pratico» (55).

Cosa intenda Marinetti per educazione pratica è spiegato subito dopo: «Il soddisfacimento d’ogni bisogno dà un piacere. Ogni piacere ha un limite. Al limite del piacere comincia il sogno. Si tratta di regolare il sogno e di impedire che diventi nostalgia d’infinito o odio per il finito. Bisogna che il sogno bagni, perfezioni e idealizzi il piacere» (56).

Dare il potere agli artisti nell’ottica rivoluzionaria del futurismo e del fiumanesimo ha una sua ragion d’essere, spiegata da Corrêa de Oliveira: «Quanto alle arti, poiché Dio ha stabilito relazioni misteriose e mirabili fra certe forme, colori, suoni, profumi, sapori e certi stati d’animo, con questi mezzi si possono chiaramente influenzare a fondo le mentalità e indurre persone, famiglie e popoli a formarsi una condizione spirituale profondamente rivoluzionaria» (57). Ecco il perché degli artisti al potere e del ruolo delle avanguardie culturali nel promuovere tendenze, atteggiamenti e costumi contrari alla concezione naturale e cristiana.

Il ruolo rivoluzionario della musica

Fra le arti un ruolo fondamentale in questo senso è riconosciuto alla musica. Infatti sia la Costituzione fiumana, sia il manifesto marinettiano, che vengono alla luce nello stesso momento storico, traggono linfa da un identico humus culturale e prospettano un medesimo ideale politico, presentando molti punti in comune. «Il più evidente è quello relativo al ruolo sociale della musica» (58), rileva la Salaris.

Nel testo marinettiano si legge: «La musica regnerà sul mondo. Ogni piazza avrà la sua grande orchestra strumentale e vocale. Vi saranno così, dovunque, fontane di armonia che giorno e notte zampilleranno dal genio musicale e fioriranno in cielo, per colorare, ingentilire, rinvigorire e rinfrescare il ritmo duro, buio, trito e convulso della vita quotidiana. Invece del lavoro notturno, avremo l’arte notturna. Si alterneranno le squadre dei musicisti, per centuplicare lo splendore dei giorni e la soavità delle notti» (59).

«[…] noi proponiamo un vasto progetto di concerti quotidiani e gratuiti in ogni quartiere della città» (60). La Carta del Carnaro si chiude con due articoli, il LXIV e il LXV, dedicati alla musica, inseriti da D’Annunzio, che rivelano sorprendenti somiglianze: «Nella Reggenza italiana del Carnaro la Musica è una istituzione religiosa e sociale. Ogni mille anni, ogni duemila anni sorge dalle profondità del popolo un inno e si perpetua. Un grande popolo non è soltanto quello che crea il suo dio a sua somiglianza ma quello che anche crea il suo inno per il suo dio. Se ogni rinascita d’una gente nobile è uno sforzo lirico, se ogni sentimento unanime e creatore è una potenza lirica, se ogni ordine nuovo è un ordine lirico nel senso vigoroso e impetuoso della parola, la Musica considerata come linguaggio rituale è l’esaltatrice dell’atto di vita, dell’opera di vita. Non sembra che la grande musica annunzi ogni volta alla moltitudine intenta e ansiosa il regno dello spirito?  […]»

«Come il grido del gallo eccita l’alba, la musica eccita l’aurora, quell’aurora: “excitat auroram. Intanto negli strumenti del lavoro e del lucro e del gioco, nelle macchine fragorose che anch’esse obbediscono al ritmo esatto come la poesia, la Musica trova i sui movimenti e le sue pienezze. Delle sue pause è formata il silenzio della decima corporazione. Sono istituiti in tutti i Comuni della Reggenza corpi corali strumentali con sovvenzione dello Stato».

«Nella città di Fiume al collegio degli Edili è commessa l’edificazione di una Rotonda capace almeno di diecimila uditori, fornita di gradinate comode per il popolo e d’una vasta fossa per l’orchestra e per il coro. Le grandi celebrazioni corali e orchestrali sono “totalmente gratuite” come dai padri della Chiesa è detto delle grazie di Dio» (61).

Questo ruolo sociale e rivoluzionario della musica è ben compreso da D’Annunzio che non solo lo costituzionalizza ma organizza spettacoli in continuazione al Teatro Verdi, divenuto ben presto un luogo di forte attrattiva per i legionari. Gli spettacoli che vi si tengono spaziano dalla musica classica alle ardite sperimentazioni futuristiche.

Ciò che però entusiasma i frequentatori sono i canti militari e soprattutto le canzoni popolari napoletane, cantate anche dal pubblico, come descritto in questo episodio da Kocknitzky: «Leggera, dapprima, scintillante, poi violenta, impetuosa la canzone napoletana s’innalza. Le terzine della tarantella, urlate da un migliaio di voci calde, rombano come la tempesta. Elettra e il suo sacco empito di serpenti, i galloni e i gradi, la pompa dei canti ufficiali, tutti gli accessori — teatro e realtà — d’una vita luccicante e fittizia, turbinano come le foglie secche al vento di uragano. La canzoncina da nulla colle sue parole insulse, si gonfia e s’ingrossa, diventa la più spaventevole fra le carmagnole» (62).

Ciò che manca al movimento rivoluzionario fiumano è una musica che ne esprima i sentimenti e ne incarni gl’ideali. Questo verrà realizzato pochi anni dopo, con l’esplosione del jazz e in seguito, nel secondo dopoguerra, si consoliderà con la nascita e l’affermazione del rock’n’roll che è uno stile musicale nel quale il cantante utilizza la voce in modo balbettante e singhiozzante, accompagnato da un basso pulsante e da chitarre frenetiche, che definiscono uno stile di canto psicotico nel quale viene enfatizzato il ritmo, non la melodia.

Grazie ai progressi tecnologici, il tutto viene catturato con due registratori in modo da produrre l’effetto di riverbero slapback ed essere quanto più vicino all’evocazione di spasmi di lussuria. Questa musica farà da colonna sonora al più radicale mutamento dei costumi avvenuto nella storia dell’Occidente. Il rock ne interpreterà i diversi umori facendosi, in qualche modo, portavoce di mode e di costumi rivoluzionari.

Le sue canzoni raccontano storie con cui gli adolescenti possono identificarsi, storie che enfatizzano il passaggio generazionale, che alludono ad argomenti tabù quali l’amore giovanile vissuto in libertà, con un’atmosfera sospesa, sinistra e ipnotica. Il piglio del rock’n’roll è certamente diverso dalle tradizionali atmosfere della musica popolare i cui toni sentimentali, tragici e comici, diventano rispettivamente erotici, violenti e sarcastici.

A Fiume mancava questo tipo di colonna sonora ma erano certamente presenti molti altri elementi che fanno di questa esperienza una rivoluzione “esistenziale”. Con la Carta del Carnaro si realizza un esperimento politico con l’ambizioso obbiettivo di creare l’uomo nuovo mediante la prassi civile, «[…] facendo nascere una sorta di contro società con una sua contromorale» (63).

Il melting pot fiumano

Sotto il governo dannunziano Fiume diventa il ricettacolo di personaggi delle più svariate appartenenze politiche. Kocknitzky elenca «nazionalisti e internazionalisti, monarchici e repubblicani, conservatori e sindacalisti, clericali e anarchici, imperialisti e comunisti» (64). Questa concentrazione fa di Fiume un melting pot culturale che porta, in breve, al prevalere di una «pratica di massa del ribellismo e della trasgressione» (65).

S’istituisce uno stile di vita capace di coniugare l’individualismo più esasperato con il cameratismo più spinto, che porta al superamento di ogni limite morale. Questa concentrazione spaziale di gruppi umani diversissimi favorisce la degenerazione dei costumi che si manifesta con la libertà sessuale, con l’uso libero della droga e con la pratica dell’omosessualità.

Il clima festaiolo che s’instaura a Fiume è il risultato di una concezione di vita in cui si dà libero sfogo al desiderio, trasformando ogni momento dell’esistenza in godimento. Questo rovesciamento delle regole, che porta a uno stato di perenne vacanza, nasce sull’onda lunga delle trasformazioni rivoluzionarie, avvenute con la Prima Guerra Mondiale, che inaugura modificazioni radicali nella concezione dell’uomo e della vita, capaci di trasformare i costumi tradizionali dell’Europa, aventi le loro radici nella concezione cristiana, in nuove abitudini diametralmente opposte.

Scrive in proposito Comisso: «L’Italia aveva compiuto non solo una guerra di liberazione di terre e di uomini, ma soprattutto di liberazione da principi, idee e costumi che le erano stati imposti dalla casta borghese del secolo passato» (66).

Di questa liberazione Fiume è il luogo simbolo, in cui i giovani, usciti dalla guerra, trovano la possibilità di vivere in un clima di sovreccitazione continua, generato da un lato dalla precarietà della situazione, che non permette di programmare un futuro che non sia l’immediato, e, dall’altro, di sperimentare forme di vita nuova, rivoluzionaria, libera dalla schiavitù del lavoro e fondata su pratiche alternative di socialità, in cui la vita privata si annulla in quella pubblica, come descritto da Kocknitzky: «Si crea così, a poco a poco, quest’atmosfera di perpetuo quatorze juillet che avvolge il nuovo venuto a Fiume. Cortei e fiaccolate, fanfare e canti, danze, razzi, fuochi di gioia, discorsi, eloquenza, eloquenza, eloquenza […]».

«Mai scorderò la festa di San Vito, patrono di Fiume, il 15 giugno 1920; la piazza illuminata, le bandiere, le grandi scritte, le barche coi lampioncini fioriti (anche il mare aveva la sua parte di festa) e le danze…: si danzava dappertutto: in piazza, ai crocevia, sul molo; di giorno, di notte, sempre si ballava, si cantava: né era la mollezza voluttuosa delle barcarole veneziane; piuttosto un baccanale sfrenato. Sul ritmo delle fanfare marziali si vedevano turbinare, in scapigliati allacciamenti, soldati, marinai, donne, cittadini, ritrovanti la triplice diversità delle coppie primitive che Aristofane [450 a.C. ca. -388 a.C. ca.] vantò. Lo sguardo, dovunque si fosse fermato, vedeva una danza: di lampioni, di fiaccole, di stelle; affamata, rovinata, angosciata, forse alla vigilia di morire nell’incendio o sotto le granate, Fiume, squassando una torcia, danzava davanti al mare» (67).

A Fiume la droga circola liberamente fra gli occupanti; è molto probabile che sia stato proprio in questa impresa che D’Annunzio contrae il vizio di sniffare cocaina, da cui non si libererà più. Del suo uso viene rimproverato in una lettera dal tenente Ernesto Cabruna (1889-1960) (68): «Lei — che dovrebbe scuotere l’umanità di oggi più che mai decadente e depravata — non sente di far tanto male prendendo la cocaina» (69).

Sulla diffusione della droga fra i legionari sono utili le notizie riportate da Comisso nelle sue memorie fiumane: «Durante la guerra certi nostri aviatori per sostenersi nei voli senza tregua, che avrebbero potuto addormentarli e perderli, usavano fiutare la cocaina. Alcuni di questi aviatori ne diffusero l’uso in Fiume, molti tenevano nel taschino della giubba una piccola scatola d’oro con la droga ravvivante. I miei amici la prendevano e invano volevano indurmi a provarla. Rispondevo loro che ero già in continuo stato d’ebrezza» (70).

In un altro passo, l’autore descrive lo stato di alcuni ragazzi anarcoidi: «Una volta li sorpresi distesi per terra in preda a una droga fiutata con abbondanza» (71). Leggendo le memorie di Comisso, come quelle di altri reduci dell’impresa, si comprende come l’uso della droga fosse molto diffuso fra i giovani legionari e ciò faceva da pendant con la diffusione di costumi sessuali sregolati. D’altronde la medesima vita del Comandante era caratterizzata dall’esaltazione del piacere come privilegio superomistico.

Con una lettura molto personale del pensiero di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) D’Annunzio ne mette in risalto l’aspetto vitalistico — attraverso l’esaltazione della volontà di potenza, considerata impulso fondamentale della vita, di cui la guerra è l’espressione più significativa — e l’aspetto dionisiaco, che spinge a immergersi nel caos delle passioni dell’esistenza per affermare, tramite il piacere, il proprio io. In D’Annunzio l’esteta unisce il culto della forza a quello della bellezza, trasformando la vita in un’opera d’arte.

L’impresa fiumana, in questo senso, è il capolavoro dannunziano. Qui l’artista diviene in grado di progettare un nuovo modello di società attraverso la manipolazione culturale e la creazione di nuovi stili di vita. A Fiume l’estetica dannunziana diviene esperienza di massa e «[…] il piacere diventa prerogativa di tutti coloro che sono convenuti alla festa della rivoluzione» (72). Leggendo le cronache e le memorie di quell’esperienza, ci s’imbatte nella descrizione di un mondo sostanzialmente libertario, caratterizzato da comportamenti disinibiti e senza limiti morali.

Nel microcosmo affollato della Fiume occupata maturano rapidamente le condizioni per attuare una nuova idea dei rapporti sessuali, improntati alla più ampia licenza. Nella provvisorietà della situazione e nell’incertezza per il futuro il presente diviene la pienezza dell’esistenza in cui si consumano accoppiamenti veloci e si diffondono le malattie veneree, come descritto da Comisso: «Gli amori furono veramente senza limiti: la città fu effettivamente italianizzata nel sangue. Non si ebbero drammi di gelosia da parte di uomini, ma da parte di donne: le donne si disputavano l’italiano. Si vedevano gli arditi accompagnati alle loro donne in grigioverde. Nel disordine degli amori le malattie serpeggiavano diffondendosi» (73).

Anche una relazione del Ministero degli Interni parla della vita libertina che vi si svolgeva: «Non vi è ufficiale a Fiume e neppure legionario che non abbia un’amante fra le povere Fiumane ormai perdute in un’atmosfera di immoralità. […] Fiume, perciò, rappresenta per i primi l’Eden terrestre, l’eldorado di tutti i piaceri […] e per gli altri […] volontari […] il paese della cuccagna» (74). A Fiume «[…] è possibile divorziare e chi non sopporta più il giogo coniugale si reca nella città occupata. Ne approfitteranno, tra gli altri, lo scienziato Guglielmo Marconi [1874-1937], l’economista Maffeo Pantaleoni [1857-1924], il sociologo Vilfredo Pareto [1848-1923] e il Gran Maestro della massoneria Domizio Torrigiani [1876-1932]» (75).

Non solo i rapporti eterosessuali sono liberi, ma anche quelli omosessuali godono della stessa libertà e sono vissuti alla luce del sole, come ci fa sapere Kochnitzky: «Sul ritmo delle fanfare marziali si vedevano turbinare, in scapigliati allacciamenti, soldati, marinai, donne, cittadini, ritrovanti la triplice diversità delle coppie primitive che Aristofane vantò» (76). In effetti Fiume diventa un ricettacolo di libertari d’ogni genere che cercano avventure particolari, come evidenzia Carli: «[…] dal colonnello in cerca di avventure femminili al pederasta in cerca di avventure maschili […] un po’ di tutto è venuto a te, divina Fiume» (77).

Ai futuristi non sembra vero di trovare nell’esperienza fiumana un terreno ideale per sperimentare le loro idee innovative. Marinetti nel manifesto Al di là del Comunismo ipotizza un concetto di patria molto simile a quello del municipalismo libertario caro al mondo poliforme della sinistra antagonista. «Il cuore dell’uomo rompe nella sua espansione circolare il piccolo cerchio soffocatore della famiglia, per giungere fino agli orli estremi della Patria, dove sente palpitare i suoi connazionali di frontiera, come i nervi periferici del proprio corpo. L’idea di patria annulla l’idea di famiglia. L’idea di patria è un’idea generosa, eroica, dinamica, futurista, mentre l’idea di famiglia è gretta, paurosa, statica, conservatrice, passatista. […]»

«La patria è il massimo prolungamento dell’individuo, o meglio: il più vasto individuo capace di vivere lungamente, dirigere, dominare e difendere tutte le parti del suo corpo. La patria è la coscienza psichica e geografica dello sforzo di miglioramento individuale» (78).

Non molto diversa è la descrizione che della società in chiave cittadina offre Franco Piperno, ex leader del movimento della sinistra extraparlamentare Autonomia Operaia: «Qui per città si intende la città naturale, per dirla con Marx [Karl (1818-1883)]; la città che ha la facoltà di autoregolarsi. La città è quel luogo speciale, topologicamente singolare, dove si manifesta la potenza dell’intelletto comune nella produzione di parole, sentimenti, leggi che esteriorizzano, per così dire, le qualità specifiche del luogo, il genius loci. La città è quindi una potenza linguistica, capace di interagire con la lingua. […] Questo essere in potenza fa della città il luogo comune dove è possibile vivere l’esperienza di darsi la regola da sé, dell’autoregolazione».

«Il punto è che esiste, per ogni luogo, una soglia nella cooperazione umana a partire dalla quale l’esperienza urbana, la vita politica, prende forma. Si potrebbe dire che la nascita e la rinascita di una città sia l’emergere delle proprietà collettive che rendono la comunità urbana assai più potente che la somma delle capacità individuali dei suoi componenti. La città è in atto quando insorgono le qualità collettive cioè comuni; e questo stesso insorgere fa sì che sia impossibile comprendere la città a partire dalle condotte o dalle condizioni individuali dei cittadini. La città è una forma di vita biologica, al pari di un alveare o di un termitaio» (79).

In questo nuovo soggetto sovrano, secondo il teorico anarcoecologista Murray Bookchin (1921-2006), potrà realizzarsi la nuova forma politica che prevede il superamento della famiglia: «È a questo livello che diviene possibile oltrepassare il privato e la grettezza di una vita familiare celebrata per la sua separatezza, per sperimentare quelle istituzioni pubbliche tese alla partecipazione ed alla associazione» (80).

Come si può notare sia l’idea di patria marinettiana sia l’idea di città “collettiva” annullano l’individuo e le articolazioni sociali cui egli dà origine in favore di un collettivismo totalizzante. Il fine della rivoluzione, spiega Piperno, è formare il cittadino come individuo sociale «[…] che consiste nella capacità di divenire multiplo pur restando uno, senza rompersi psichicamente» (81), e questo può avvenire «[…] solo che prenda collettivamente coscienza della natura animale della cooperazione cittadina» (82).

Queste concezioni si pongono in antitesi alla concezione naturale e tradizionale della socialità umana, dove gli uomini si organizzano in corpi sociali differenziati, partendo dalla famiglia. Dice Aristotele (384-322 a. C.) nella Politica: la natura «[…] destina ogni cosa ad una sola funzione: e ogni strumento che non servisse a più usi, ma ad uno solo, condurrebbe a termine la sua funzione nel migliore dei modi. […] La comunità che si costituisce per la vita di tutti i giorni è per natura la famiglia».

«[…] La prima comunità, che deriva dall’unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero, è il villaggio. […] La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza.  […] Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che uomo» (83).

Il futurismo e il municipalismo libertario vogliono sostituire ai corpi sociali differenziati e organizzati in comunità, capaci di venire incontro alle esigenze dell’uomo, l’individuo multiplo, capace di fare tutto. Infatti solo negandosi come io personale, limitato, si può raggiungere una condizione dove tutte le tensioni si dissolvono e tutte le diff