Padre Gheddo, missionario "senza se e senza ma”

Pietro GheddoDalla prefazione al libro “Missione senza se e senza ma”, EMI 2013, pagine 254 19 settembre 2013

di Sandro  Magister

Alla vigilia dell’ultimo conclave,  il cardinale argentino che sarebbe divenuto papa aveva ammonito: «Ci sono due immagini di Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da se stessa, o  la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé». Il dramma della Chiesa  cattolica di questi ultimi decenni è tutto qui. La Chiesa missionaria, che  sembrava al culmine della sua spinta espansiva all’inizio del Concilio  Vaticano II, ha avuto un repentino crollo. Ed è stata largamente soppiantata da una Chiesa che si  diceva e si dice più “aperta”, ma  talmente aperta al mondo da vederlo salvato  anche senza conoscere  e accogliere Cristo, e quindi anche senza annuncio del  Vangelo e  conversione e battesimo, in breve, senza più missione.

Padre Piero Gheddo è un testimone straordinario di questo dramma. Missionario da sessant’anni, ne ha vissute in prima linea tutte le fasi, che qui racconta e analizza con molte rivelazioni inedite riprese dai suoi fogli di diario. Soprattutto sui retroscena di due documenti capitali alla cui scrittura egli lavorò intensamente: il decreto conciliare sulle missioni e l’enciclica con cui un quarto di secolo dopo Giovanni Paolo II tentò di ravvivare nella Chiesa quella coscienza missionaria che sembrava sul punto di perdersi.

Al Concilio, padre Gheddo fu chiamato subito come perito. E presto capì che «la missione alle genti era considerata l’ultima o la penultima ruota del carro ecclesiale». La stesura di quello che diventò alla fine il decreto “Ad gentes” passò attraverso sette rifacimenti successivi. Rischiò di essere cancellato del tutto. A metà del cammino il lavoro fin lì fatto fu accantonato, con l’ordine perentorio di ridimensionare il tutto in un breve elenco di “proposte”.

A risollevare le sorti del documento fu la capillare azione di convincimento messa in opera dai padri conciliari più impegnati sul campo. C’erano tra questi, ricorda padre Gheddo, dei «missionari di foresta che solo al vederli non si poteva dire loro di no». Ciò non toglie che «c’era in commissione un senso di ansia, in qualcuno quasi di disperazione». Il miracolo avvenne sul finire del Concilio. Dopo ulteriori, faticosissime riscritture, il decreto fu approvato nell’ultima seduta pubblica con 2.394 voti favorevoli e solo 5 contrari, il più alto livello di unanimità mai raggiunto.

Già nell’immediato dopoconcilio, tuttavia, il sogno di una nuova Pentecoste missionaria cedette il passo a una realtà opposta. Si riduceva l’obbligo di evangelizzare a impegno sociale. Ma il Padre non ha mandato il Figlio sulla terra per scavare pozzi, né la Chiesa può ridursi a un’agenzia di pronto soccorso. Per contrastare questa deriva, Paolo VI convoca nel 1974 un sinodo sull’evangelizzazione. L’anno dopo pubblica una esortazione apostolica, la “Evangelii nuntiandi”, per riaffermare con forza che «anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente se il nome, l’insegnamento, la vita e le promesse, il regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non sono proclamati».

«Ma Paolo VI non fu ascoltato», commenta padre Gheddo. E anche il suo successore Giovanni Paolo II, con l’enciclica “Redemptoris missio” del 1990, si scontrò con un muro di incomprensione. Il fuoco di sbarramento entrò in azione prima ancora che l’enciclica fosse scritta. È inutile, si obiettava, ha già detto tutto il Concilio. Quando invece, spiega padre Gheddo, papa Karol Wojtyla voleva proprio dire forte ciò su cui il decreto “Ad gentes” era stato troppo timido o silenzioso.

Quando Giovanni Paolo II chiamò a Roma padre Gheddo e gli affidò il compito di scrivere l’enciclica, per il missionario cominciarono mesi di lavoro mozzafiato: «scrivere, pregare, mangiare e dormire, nient’altro». Finito un capitolo, lo faceva arrivare al papa, che alcuni giorni dopo glielo rimandava con le sue annotazioni a margine, scritte a matita o con la biro: qui aggiungi questo, spiega meglio il concetto, cita questo passo del Vangelo. Ultimata la prima stesura, ce ne vollero una seconda e una terza, a loro volta inviate sotto segreto a una serie di persone, per raccoglierne le osservazioni.

La segreteria di Stato coordinava il tutto e anche metteva del suo, smussando e cancellando le espressioni che giudicava “non adatte a un papa”. Ma lo stile diretto, “giornalistico”, di padre Gheddo, che papa Wojtyla aveva voluto, in buona misura è rimasto. La “Redemptoris missio” è l’enciclica meglio scritta delle quattordici di quel pontificato.

Poi è venuto Benedetto XVI, anche lui papa dalla fortissima sensibilità evangelizzatrice e anche lui in questo largamente incompreso. Il 3 dicembre 2007, festa del missionario per eccellenza Francesco Saverio, la congregazione per la dottrina della fede pubblica una “Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione” che inizia diagnosticando con molto realismo l’anemia missionaria della Chiesa attuale: «Si dice che basta aiutare gli uomini a essere più uomini o più fedeli alla propria religione, che basta costruire comunità capaci di operare per la giustizia, la libertà, la pace, la solidarietà. Inoltre, alcuni sostengono che non si dovrebbe annunciare Cristo a chi non lo conosce, né favorire l’adesione alla Chiesa, poiché sarebbe possibile essere salvati anche senza». Eppure anche questo documento è parso cadere nel vuoto. «È stato quasi ignorato dalla stampa cattolica e missionaria», scrive padre Gheddo.

Nonostante tutto, il libro termina con annotazioni cariche di fiducia. Al crollo delle vocazioni missionarie nel vecchio mondo corrisponde la vitalità delle giovani Chiese, che si fanno esse stesse missionarie fuori dei propri paesi. In Africa, in Asia, l’espansione del cattolicesimo è più vivace che mai. Ma proprio i leader di queste giovani Chiese sono convinti che il ruolo dei missionari italiani, europei, nordamericani non deve essere consegnato al passato. Padre Gheddo riporta le parole di un vescovo del Camerun: «Abbiamo una fede certamente molto viva e ne ringraziamo il Signore, ma è una fede emozionale, superficiale, non ancora penetrata in profondità. Se non avessimo più missionari stranieri, sono convinto che in venti o trent’anni torneremmo sotto gli alberi a fare sacrifici agli spiriti. I missionari ci portano il respiro della Chiesa universale, che ha una storia e una tradizione che noi non abbiamo».

Con papa Francesco la sfida continua. In questo libro, padre Gheddo ce la racconta come mai nessuno prima di lui ha fatto.