Sulla terapia riparativa

di Giancarlo Ricci

ALCUNE PREMESSE

Il cosiddetto “approccio ripartivo” nella cura dell’omosessualità maschile è basato principalmente sulla teoria delle relazioni oggettuali, sull’analisi delle dinamiche e delle strutture familiari, sul recupero della relazione con la figura paterna, sull’elaborazione del senso di colpa. Questi sono alcuni ambiti, non certo esaustivi, che entrano in gioco nella “terapia riparativa”, come del resto accade, in modo non molto differente, anche in ogni lavoro psicoterapeutico.

Occorre tuttavia un chiarimento terminologico relativo alla terapia riparativa. Come vedremo più avanti, la nozione di “riparazione” e di “impulso riparatore” nella letteratura psicanalitica sorge verso gli anni ’40, si consolida negli anni ’50 e, a partire dagli anni ’60, diventa un riferimento abbastanza diffuso nella comunità psicanalitica anglosassone per interpretare  l’insorgenza dell’orientamento omosessuale in soggetti maschi.

Agli inizi degli anni ’90, dopo una lunga pratica clinica, Charles Socarides e Joseph Nicolosi fondano in America (a Encino in California) un’associazione chiamata NARTH (National Association for Research and Therapy of Homosexuality), in cui la teoria riparativa costituisce il riferimento teorico centrale nella cura dell’omosessualità maschile.

Nella terapia riparativa il lavoro con il paziente cerca di individuare e di interpretare l’insorgenza e il funzionamento dei sintomi omosessuali come l’esito, più o meno riuscito, di un tentativo di riparazione.Divenuto ben presto oggetto, non solo in America, di critiche e attacchi, il NARTH, con varie sedi e iniziative, risulta di fatto l’unico approccio che, in seno alle psicoterapie e al mondo psichiatrico, dichiara apertamente che l’omosessualità è curabile, beninteso per chi lo desideri e lo richieda.

Nicolosi nota che “ogni psicoterapia che tenti di sottoporre a trattamento l’omosessualità rischia di suscitare scetticismo” . Tale scetticismo in effetti sembra crescere all’ombra di una confusione terminologica: la cura non coincide con la guarigione, e guarire non significa magicamente ripristinare l’eterosessualità. Inoltre grava, da sempre, il luogo comune secondo cui dall’omosessualità non si esce.

Non ci sembra nemmeno importante (in questa sede) stabilire se l’omosessualità sia o no una malattia, fermo restando che a tutt’oggi, nel DSM, rimane rubricato il disturbo relativo all’omosessualità egodistonica . Parlare, del resto, di cura o di psicoterapia rivolte all’omosessualità prescinde dal considerare quest’ultima una malattia o meno.

Nel primo lavoro di Nicolosi pubblicato Italia nel 2002 la traduttrice (Simona Cavalleri) rende il termine “reparative” con ricostituiva, invece che riparativa. Al di là delle considerazioni linguistiche, il senso rimane quello di una terapia che individua tra le cause principali dell’orientamento omosessuale il meccanismo psichico della riparazione e che, nella strategia terapeutica, punta alla ricostituzione della funzione del padre

In effetti chiamarla terapia riparativa risulta una sorta di contrazione che è entrata ormai nell’uso corrente. Infatti, semplificando, sono due gli aspetti implicati: da una parte l’aggettivo “riparativa” si riferisce alla teoria del meccanismo della riparazione, nozione che appartiene a pieno titolo al lessico e alla letteratura psicanalitica.

Si parla di terapia riparativa nel senso che l’omosessualità viene individuata e interpretata, in generale, come un tentativo di riparazione del mancato rapporto con il padre. C’è inoltre una seconda accezione dell’aggettivo “riparativa” che si aggiunge alla precedente e che rinvia, lungo lo svolgimento del percorso terapeutico, al lavoro di riconciliazione con la figura paterna, pertanto alla reintegrazione simbolica del suo statuto e della sua funzione.

Né in Nicolosi né in altri autori o scuole che si rifanno alla terapia riparativa, troviamo mai la ridicola idea di “riparare gli omosessuali” o di costringerli a “ritornare eterosessuali”. Sono note a tutti infatti le drammatiche stagioni storiche in cui l’omosessualità è stata (e ancora oggi in alcuni paesi) stigmatizzata e talvolta perseguitata.

Non ci sembra nemmeno che in generale nelle società occidentali il tema dell’omofobia sia così drammaticamente presente. Tutt’altro: ci pare piuttosto che le attuali società industriali, in nome del modernismo, favoriscono una sorta di omofilia, ossia la propensione alla stessità, al livellamento che rende tutto uguale e che omologa le condotte, i comportamenti, i consumi, i piaceri . Non possiamo qui approfondire questi accenni che richiederebbero un approccio molto articolato .

Le battute beffarde di coloro che, per partito preso, discreditano la terapia riparativa dicendo che pretende di “riparare” gli omosessuali non appartengono a una dibattito teorico e clinico. Piuttosto provengono dall’ideologia, gay, e in particolare da quell’ideologia di genere che propugna, in nome di un’adeguamento al modernismo, l’uguaglianza e quindi l’indifferenziazione tra i sessi, che fa coincidere il sesso con il genere cancellando il processo di sessuazione, ossia il complesso percorso psichico che struttura le identificazioni e le idealizzazioni attraverso le quali un soggetto assume una propria identità sessuale e una propria identità di genere. Quest’ultimi due termini, contrariamente a quanto ritiene il costruttivismo, in realtà non coincidono, non sono sinonimi .

Le implicazioni dell’ideologia di genere sono ampie, coinvolgono aspetti sociali, giuridici, istituzionali, etici, morali. Lo scientismo ha aperto le porte agli “studi sul genere”. Infatti la direzione verso cui vanno le biotecnologie sembra dischiudere la possibilità che l’uomo possa modificare e trasformare ciò che la natura gli ha assegnato, un sesso per esempio. La fantasia onnipotente secondo cui “tutto è possibile” pretende di aprire nuovi scenari: in realtà propone in modo ancor più subdolo e irriconoscibile una visione biopolitica globalizzante.

Non entriamo in merito qui alla ricorrente questione se, quanto e in che misura l’omosessualità abbia un’origine organica o genetica. Nonostante le allusioni, le probabilità e le “imminenti prove scientifiche” che non giungono mai, l’omosessualità (nelle sue forme più consuete) non ha un’origine organica, biologica o genetica. La tesi organicistica, invece, viene sbandierata da parte dei detrattori della terapia riparativa, come estrema ratio per dimostrare irrevocabilmente il principio di un’immutabilità “naturale” che appartiene all’ordine genetico

LA TERAPIA RIPARATIVA

Oltre al meccanismo della riparazione, nella reparative therapy sono centrali, dal punto di vista teorico e clinico, almeno altri due punti: la riconciliazione con il padre e il meccanismo del “distacco difensivo”. Approfondiamo questi tre aspetti.

Il meccanismo della riparazione.

La terapia riparativa si basa su un’interpretazione del sintomo dell’omosessualità secondo cui quest’ultima costituisce un tentativo di riparazione inteso come un meccanismo psichico che, dopo aver attuato uno spostamento, ripropone un modo particolare di ripristinare (riparare) ciò che in precedenza non ha potuto avere luogo. “L’omosessualità che ne deriva – precisa Nicolosi – risponde all’esigenza di porre rimedio al danno originario nel processo di identificazione sessuale” . Il presupposto dunque è che ci sia un “danno primario”.

Il meccanismo della riparazione rappresenta la via maestra che spiegherebbe l’orientamento omosessuale. Certamente il concetto di riparazione non è né esclusivo né esaurisce la complessità clinica della genesi dell’omosessualità maschile. L’assunto da cui parte Nicolosi è che “in tutta la letteratura psicoanalitica l’omosessualità è motivata come un tentativo di riparare, di rimediare a una carenza dell’identità maschile, e questa teoria ha una lunghissima tradizione”. In effetti, se tale affermazione può sembrare un po’ perentoria, l’autore subito dopo aggiunge: “In realtà, non è esatto spiegare tutti i casi di omosessualità con la teoria dell’impulso riparatore, ma per la maggior parte degli uomini omosessuali rappresenta una motivazione fondamentale” .

Socarides, nel 1978, aveva ipotizzato che l’omosessualità maschile insorga nei primi tre anni di vita del bambino a causa di un rapporto problematico con la madre. In particolare la fase più importante sarebbe quella individuata da Margareth Mahler, la fase di “separazione-individuazione”: l’intensa simbiosi del bambino con la madre, che non riesce a canalizzarsi nella normale separazione e individuazione, cioè nel vedere se stesso e la madre come due persone separate e distinte, spingerebbe il bambino verso un’identificazione primaria con la madre.

Nicolosi, in un certo senso, percorre la stessa via di Socarides ma procedendo, per così dire, in un movimento contrario. Invece di esplorare la relazione della madre con il bambino, la sua attenzione si sofferma sulla funzione simbolica del padre, così come interviene nella relazione triadica. Ciò comporta, per esempio, interrogarsi anche sul posto che la funzione del padre viene ad assumere nel discorso e negli atteggiamenti della madre.

Alcuni psicanalisti, per spiegare alcune patologie, hanno infatti posto l’accento sul fatto che qualora nel discorso della madre la funzione di padre sia sistematicamente espunta, anche il figlio riterrà, garante la madre, che il padre non ha alcun significato simbolico, e che quindi la sua funzione risulterà simbolicamente forclusa .

In sintesi, il passo essenziale di Nicolosi è quello di situare il meccanismo della riparazione nell’ambito della relazione con il padre e quindi nell’ambito delle mancate identificazioni relative all’identità sessuale del figlio. Il meccanismo di riparazione procede dunque da un “danno” situabile nella mancata o nella problematica relazione con il padre.

La riconciliazione con il padre.

La riconsiderazione e la reintroduzione della figura del padre, in tutta la sua portata simbolica relativa alla strutturazione del soggetto, permette al paziente, nella terapia riparativa, di elaborare il distacco dall’onnipotenza materna in cui è stato coinvolto, e non senza pesanti conseguenze psichiche. Dal grado e dal modo di questo coinvolgimento si scrive nella vita psichica del bambino gran parte delle identificazioni originarie. Ma l’esito di queste identificazioni dipenderanno, nel corso dello sviluppo, dal confronto con l’istanza terza del padre

In questo contesto accenniamo appena alla portata, sempre più estesa nella società occidentale, relativa al declino della funzione del padre e al radicale mutamento simbolico implicato a livello sociale, istituzionale, soggettivo, nella vita sessuale. Su tale inquietante declino, non solo da oggi diversi psicanalisti pongono l’accento.

Quando Nicolosi pone l’accento sulla riconciliazione verso il padre, così essenziale per l’articolazione del sintomo dell’omosessualità, in effetti sottolinea parecchie cose. In primo luogo, sicuramente, il posto che il padre ha avuto (o non avuto) nella storia del soggetto, ossia le diverse implicazioni in merito alle frustrazioni o ai rifiuti provenienti dall’esistenza o meno della funzione paterna che veicola e instaura la funzione della legge simbolica (il Superio). Secondariamente, ma si tratta di un versante implicato nel precedente, il riposizionamento della madre e del legame con lei secondo una modalità relazionale non più dominata dalla distruzione o dal divoramento.

Nel processo terapeutico si tratta di procedere lungo una sorta di percorso a ritroso: dall’oggetto riparatore a ciò che tale oggetto avrebbe dovuto riparare. Tale processo esplora il tempo logico che precede l’insorgenza della riparazione, ossia cerca di individuare quelle situazioni in cui le identificazioni con la figura maschile è venuta a mancare, e pertanto a non strutturarsi nella costituzione dello psichismo.

Se questa inscrizione della funzione del padre non avviene significa che pre-domina la relazione madre-figlio come una relazione simbiotica, ossia come una relazione in cui il figlio risponde e corrisponde a un fantasma materno di onnipotenza. Evidentemente questo processo non lo troviamo mai pienamente in atto, ma si sviluppa secondo modulazioni, gradazioni, specificità e temporalità che variano in ciascun caso.

Nei testi di Nicolosi non è raro trovare riferimento a quel “sistema triangolare” in cui può accadere che l’“entità madre-padre-figlio nel suo complesso generi lo sviluppo omosessuale, dove una madre molto amorevole, dominatrice e possessiva si combina a un padre assente, debole e ricusante” . In questo complesso processo psichico è importante cogliere, ulteriormente, la portata di quel meccanismo chiamato “distacco difensivo” e che riguarderebbe il modo con cui il bambino riesce, in un certo senso, a fare a meno del padre e, al tempo stesso, a difendersi da questa mancanza o assenza.

Il distacco difensivo.

Coniata dallo psicanalista britannico John Bowlby, l’espressione “distacco difensivo” si riferisce all’”espediente infantile, autoprotettivo, sviluppato da un bambino contro i danni di carattere emotivo” . In seguito all’introduzione di questo termine, la psicologa Elizabeth Moberly ha proposto la teoria secondo cui il bambino svilupperebbe un “distacco difensivo” nei confronti del padre che lo ha respinto e della mascolinità in generale.

Tale vicissitudine della carenza nel processo dell’identificazione con il padre, carenza che ha una natura sia simbolica sia reale, produce quel “distacco difensivo” che ulteriormente promuove e rafforza l’orientamento omosessuale. “L’omosessuale – osserva Nicolosi – è lacerato fra due tendenze in competizione: il bisogno naturale di soddisfare le esigenze emotive con gli uomini e il distacco difensivo, che perpetua la paura e la rabbia nelle relazioni maschili”.

Osserva Nicolosi che soltanto con il contributo della teoria del distacco difensivo sono state poste le basi per una nuova concezione terapeutica. Essa si svolge dunque come un lavoro che rimette in questione “la protezione contro le ferite subite nell’infanzia da parte di maschi, e che nell’età adulta diviene una barriera verso una vera intimità e reciprocità con gli uomini”.

“La causa primaria dell’omosessualità – afferma Nicolosi in un altro testo – non è l’assenza della figura paterna, bensì il distacco difensivo del bambino in conseguenza di un rifiuto” . E ancora: “Il trattamento dell’omosessualità è l’annullamento della resistenza del distacco difensivo dai maschi” . Dunque il sintomo dell’omosessualità prende forma e si modula nelle sue diverse specificità (praticata, agita, fantasticata, ecc.) mediante il meccanismo della riparazione, ma quest’ultimo costituisce l’esito finale, il risultato che affiora nella vita psichica del soggetto, dopo che il distacco difensivo è già avvenuto e si è già consolidato.

In altri termini il distacco difensivo è ciò che permette di confermare l’orientamento omosessuale come se fosse la soluzione che offre, dal punto di vista del principio di piacere, la maggior “stabilità” narcisistica e la migliore difesa. Il distacco difensivo dal padre è avvertito come una “presa di posizione finale che è sentita soggettivamente come un mai più. E’ come dire: io rifiuto te e tutto quello che tu rappresenti, vale a dire, la tua mascolinità” .

Un’ultima riflessione riguarda la dialettica tra riparazione e distacco difensivo. La riparazione, dicevamo, procede da una sorta di spostamento: da una mancanza avvertita come danno viene ricostruita sintomaticamente una riparazione. Il distacco difensivo è già avvenuto e adesso tenta di padroneggiare l’impulso distruttivo, di diminuirne l’intensità cercando di ricostruire un’identità narcisistica intesa come (paradossale) autonomia affettiva.

In altri termini: la riparazione avviene solo dopo che il danno è stato “confermato”, “riconosciuto” e “superato” dal punto di vista dell’investimento psichico. La riparazione, ovvero una sorta di paradossale “risarcimento”, può avvenire solo a distacco difensivo avvenuto. Viceversa è il distacco difensivo a fissare e a stabilizzare quella particolare forma di riparazione che il soggetto si è trovato ad attuare, sintomaticamente, per risarcirsi del danno.

DA DOVE PROVIENE IL CONCETTO DI RIPARAZIONE

La nozione di riparazione, che tanta ironia suscita in coloro che osteggiano e rifiutano qualsiasi approccio che metta in gioco una trasformazione del sintomo dell’omosessualità, fa parte fin dall’inizio del lessico psicanalitico. Il concetto di riparazione lo ritroviamo nei classici del pensiero psicanalitico : in Sigmund e Anna Freud, in Winnicott e successivamente in diversi altri studiosi che, nell’area anglosassone e americana, hanno ripreso e riformulato questo termine soprattutto a partire dagli anni ’50 in poi. In particolare è stata principalmente Melanie Klein negli anni ‘40 a porre la riparazione come uno tra gli aspetti più significativi della sua teoria della clinica.

Procediamo con ordine. Il percorso che proponiamo si riferisce principalmente ai fondatori del pensiero clinico appena citati, anche se sarebbero diverse decine gli studiosi che fanno riferimento al concetto di riparazione.

Partiamo da Sigmund Freud. Nel suo saggio Introduzione al narcisismo (1914) è celebre la notazione secondo cui “l’uomo può amare […] quel che egli stesso è, quel che egli stesso era, quel che egli stesso vorrebbe essere, la persona che fu una parte del proprio sé” . Qualche anno prima tale notazione era stata formulata in modo ancora più preciso quando nel saggio “Un ricordo d’infanzia” di Leonardo da Vinci (1910) aveva affermato che “il ragazzo rimuove l’amore verso la madre ponendo se stesso al suo posto, identificandosi con la madre e prendendo a modello la propria persona, a somiglianza della quale sceglie i suoi nuovi oggetti d’amore.

E’ così diventato omosessuale; in verità è di nuovo scivolato nell’autoerotismo, giacché i ragazzi che egli, adolescente, ora ama non sono che sostituti e repliche della sua stessa persona infantile, da lui amata come sua madre lo amò da bambino” . Poche righe più avanti nota ulteriormente che l’omosessuale “si affretta ogni volta a trasporre l’eccitamento suscitato dalla donna su un oggetto maschile, ripetendo continuamente in questo modo il meccanismo attraverso il quale ha acquisito la sua omosessualità”.

Certo qui Freud non parla di riparazione, ma i termini che ne costituiscono la logica, seppure nella relazione con la madre, ci sono tutti: il sentimento della perdita, il tentativo di riprodurre narcisisticamente ciò che è andato perduto, il meccanismo della sostituzione e della trasposizione, infine la ripetizione. Da una parte abbiamo la perdita (la ferita narcisistica come danno), dall’altra il ritrovamento (la restituzione, la gratificazione) attraverso una sostituzione. La ripetizione di tale sostituzione convalida e compie appieno il processo di riparazione.

La notazione freudiana secondo cui il soggetto, in tale spostamento narcisistico, “scivola di nuovo nell’autoerotismo” è alquanto significativa in quanto afferma che l’omosessualità ripete in realtà una scelta autoerotica. In effetti l’autoerotismo, nella teoria freudiana delle tre fasi della sessualità (orale, anale, fallica), riguarda le prime due, ossia quella orale e anale, che corrispondono ai primi momenti evolutivi del bambino.

Sarà Anna Freud nella sua descrizione (1952) di quattro casi di omosessualità risolti a interpretare l’omosessualità in termini di impulso riparatore. Già altri ricercatori tuttavia si erano mossi in direzioni simili, prima Fenichel e Adler, e successivamente Nunberg, Rado e altri. Anna Freud si era avvalsa delle teorie di Melanie Klein. Costei, a partire dal 1934, aveva introdotto nella sua elaborazione il concetto di “posizione depressiva” che svilupperà in successivi saggi.

La “posizione depressiva” si produce nel bambino come effetto relativo alla capacità di provare la perdita di un oggetto quale la madre rappresenta. “Il senso di depressione mobilita il desiderio di riparare gli oggetti. Credendosi responsabile della perdita di sua madre, il neonato immagina anche, grazie al suo amore e alle sue premure, di poter annullare i misfatti della sua aggressione” .

Dunque la riparazione è un tentativo di porre rimedio ai fantasmi distruttivi che si riferiscono all’oggetto d’amore ripristinando l’integrità dell’oggetto materno. Quando il bambino avverte di poter distruggere o di aver distrutto con i propri impulsi aggressivi la madre, è assalito dall’esperienza della perdita e della colpa. Il processo di riparazione si basa su uno spostamento: come l’impulso distruttivo ha annientato l’oggetto d’amore, così l’amore per l’oggetto potrà ricostruirlo. Le fantasie e le azioni riparative rappresentano pertanto momenti fondamentali lungo la via di una maggiore integrazione dell’Io.

I diversi modi di attuare la riparazione sono formalizzati nel 1940 da Klein nel suo saggio “Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi”. Essa individua tre forme di riparazione: “La riparazione maniacale, che porta con sé una nota di trionfo […] e mira ad umiliare i genitori; la riparazione ossessiva, che consiste nella ripetizione coatta di azioni […] e mira soltanto a placare, spesso in modo magico; infine una forma di riparazione basata sull’amore e il rispetto per l’oggetto che suscita autentiche azioni creative”. In questa tripartizione sottolineiamo appena qualche connotazione clinica relativa alle prime due modalità: l’aspetto maniacale, la nota di trionfo narcisistico e di umiliazione verso i genitori, la compulsività ossessiva.

Un’ultima notazione ci sembra rilevante nell’elaborazione della Klein. Pensare che attraverso la riparazione si compia il lavoro del lutto, la porta ad affermare che un effetto di questo compimento consiste nello “stabilire in maniera stabile, al centro dell’Io, un seno buono (una buona madre), un buon padre e una buona coppia generatrice” .

E ancora: “la distinzione fatta dal bambino tra i due protagonisti della coppia annuncia che l’accesso all’eterosessualità può essere una risoluzione ottimale della posizione depressiva” . E’ rilevante insomma la notazione secondo cui l’accesso all’eterosessualità procede lungo la differente posizione tra “i due protagonisti della coppia” genitoriale.

Passiamo a Donald Winnicott. E’ di notevole interesse la ripresa che questo psicanalista britannico, a metà strada tra la scuola di Klein e quella di Anna Freud, propone del termine riparazione. Il suo approccio consiste in una visione fiduciosa nelle capacità di adattamento del soggetto e nelle sue tendenze naturali a risolvere i conflitti, dunque nelle sue capacità riparative.

Nel suo interessante saggio del 1954 “La riparazione in funzione della difesa materna organizzata contro la depressione” egli procede dalla seguente constatazione: “[…] nel corso delle analisi possiamo cogliere la relazione tra sentimento di colpa, pulsioni e idee di aggressività e di distruzione, ed osservare la comparsa del bisogno di riparazione non appena il paziente diventa capace di comprendere, tollerare e sostenere il sentimento della colpa” . In generale la sua articolazione ripercorre l’impianto kleiniano che, dicevamo, parte dalla posizione depressiva, effetto di una situazione di lutto, di distacco o di mancanza.

Contrariamente a Klein che ravvisava in un certo aspetto della riparazione un meccanismo propulsivo di creatività e di integrazione dell’Io, Winnicott parla di situazioni cliniche in cui è constatabile una “falsa riparazione”. “Questa falsa riparazione la si scopre nell’identificazione del paziente con la madre, e il fattore dominante non è tanto la colpa del paziente, quanto la difesa organizzata della madre contro la propria depressione e la propria colpa inconscia” .

L’ipotesi, in sintesi, è che “la depressione del bambino possa essere il riflesso di quella della madre. Il bambino se ne serve per sfuggire alla propria depressione o a quella materna, operando così una falsa restituzione e riparazione in relazione alla madre e ostacolando lo sviluppo di una capacità di restituzione personale” . Se, in questa situazione, la riparazione è “operata in relazione alla depressione materna piuttosto che alla depressione personale”, permane il rischio – precisa Winnicott – di “un’instabilità associata alla dipendenza del bambino alla madre, e può capitare che vi si sovrapponga una tendenza omosessuale”.

Notazione, quest’ultima, che mette in rilievo le vicissitudini della riparazione. Pensando al processo psichico di “restituzione e riparazione” (i due termini compaiono spesso associati) qui descritto da Winnicott a proposito della relazione madre-bambino, proviamo a situarlo nella relazione tra padre-figlio: abbiamo i termini essenziali che lasciano intravedere la dinamica psichica e rela-zionale entro cui si muove la terapia riparativa di Nicolosi. L’omosessualità sarebbe leggibile come una falsa riparazione, ossia, in un certo senso, come una sorta di aggiramento. In effetti anche il distacco difensivo potrebbe essere letto come un aggiramento, come un evitamento operato dal soggetto a titolo di difesa.

Con il concetto di falsa riparazione, Winnicott intende soffermarsi sulla difficoltà di riconoscere la misura della riuscita o del fallimento della riparazione e, in un certo senso, della sua “autenticità” psichica. Nel saggio citato propone alcune notazioni cliniche in merito a un caso in cui “veniva inscenato un falso successo” della riparazione. In tale direzione non è difficile ravvisare nelle premesse psichiche del “falso successo” una modalità “classica” con cui talvolta viene “assunta“ l’omosessualità, come se fosse paradossalmente una vera identità. Del resto anche Nicolosi osserva che “spesso la madre ha promosso nel figlio una falsa identità, cioè quella del bravo bambino, e ha sviluppato una relazione con lui caratterizzata da un eccesso irrealistico di intimità”.

Tale modalità, che se a livello soggettivo emblematizza la complessità relativa alle vicissitudini dell’identificazione, pare invece facilitare, nell’immaginario ideologico, la conquista di una identità e di un’appartenenza di genere. Quasi si trattasse di ancorarsi a una garanzia esterna, sociale, socializzata e socializzabile, in grado di sostituire un’autentica soggettività. Notiamo di sfuggita che tutto il tema dei “diritti sessuali”, del riconoscimento delle coppie omosessuali o dell’orgoglio gay, ma anche quello dell’omofobia o della condanna morale, sorge dall’equivoco e dalla confusione tra questi due livelli, quello soggettivo e quello sociologico .

Oltre a questi autori classici della letteratura psicanalisi, molti altri studiosi hanno ripreso e utilizzato il concetto di riparazione. Altre istanze nella clinica psicanalitica svolgono una funzione riparativa. Per rimanere nell’ambito winnicottiano, basti evocare la nozione di fenomeni o oggetti transizionali, ossia quegli oggetti che facilitano il passaggio da uno stato di onnipotenza illusoria a uno stato di percezione obiettiva in cui la “vera” madre fa parte simbolicamente di una realtà autonoma . L’oggetto transazionale assume quindi una funzione ripartiva: rimedia, protegge rispetto alle ansie che si generano nel bambino durante l’assenza della madre, mantenendo una continuità di presenza simbolica rassicurante.

Non possiamo soffermarci su tutti gli autori che hanno fatto riferimento alla teoria riparativa. In questo breve percorso ne abbiamo esplorato gli aspetti più rilevanti. A partire da Anna Freud la nozione di riparazione trova una sempre maggiore articolazione teorica e clinica principalmente nell’ambiente anglosassone. Viene ripresa e sviluppata da Klein, poi da Winnicott, e successivamente, riarticolata con un riferimento esplicito (ma non esclusivo) all’interpretazione della genesi psichica dell’omosessualità, da psicanalisti come Sandor Rado , Lionel Ovesey , Kaplan, Barnhouse, Tripp, Gottlieb, Socarides, Van den Aardweg, Moberly, Fridman e Stern e tanti altri.

Ma soprattutto è Irving Bieber , verso gli anni ’60, e in seguito l’olandese Van den Aardweg , a consolidare questa nozione nell’ambito della clinica dell’omosessualità maschile e fornendone un’interpretazione forte attraverso la terapia riparativa. Più avanti, Robert Spitzer, influente psichiatra americano – colui che nel 1973 era stato presidente della “Sezione Nomenclatura” dell’APA (American Psychiatric Association) e fautore dell’eliminazione dell’omosessualità egosintonica dal DSM – pubblica nel 2003, suscitando aspre polemiche, due articoli sulla rivista Archives of Sexual Behavior in cui espone la casistica in cui soggetti (200 casi) a orientamento prevalentemente omosessuale, in seguito alla terapia riparativa, sono ritornati in modo predominante a una scelta eterosessuale.

DOMANDA, TERAPIA, GUARIGIONE

Domanda, terapia, guarigione sono tre termini che spesso vengono confusi, usati a sproposito o mistificati. Qualche precisazione per cercare di restituire loro una dignità di pensiero.

La domanda.

I detrattori della terapia riparativa non parlano quasi mai della domanda soggettiva del paziente. Dipingono la terapia riparativa come un’imposizione, come un trattamento costrittivo in cui la soggettività viene forzata, la tendenza omosessuale (considerata “naturale”) soffocata e repressa violando addirittura i diritti umani della persona.

Spesso si dimentica che prima di qualsiasi approccio terapeutico c’è una domanda, ossia una richiesta che procede da un disagio, un desiderio soggettivo di trasformazione e di progettualità. La domanda non può che essere formulata dal paziente stesso. Differentemente dalla nozione di cura nella medicina, la sua struttura, la sua logica e le sue premesse concorrono e determinano in gran parte l’esito del percorso terapeutico e del processo di guarigione.

La questione è precisamente quella della valutazione della domanda, valutazione che non coincide propriamente con una definizione diagnostica, ma la precede. Inoltre ciascun caso è un caso singolare e il tema dell’omosessualità, che clinicamente si modula secondo modalità particolari e specifiche, non può essere ricondotto a una categoria sociale o sociologica. I movimenti gay tendono invece a riportare il tema dell’omosessualità a un livello sociologico e politico e quindi a generalizzare i dati clinici individuali facendoli rientrare nello stessa categoria. Si tratta, nell’analisi della domanda, di fare un lavoro inverso.

Spesso i detrattori della terapia riparativa quando espongono le loro critiche affermano che tale terapia è dannosa, pericolosa e alludono al fatto (non dimostrato) che talvolta la terapia riparativa può addirittura portare al suicidio. E’ una sorta di alone macabro, un maldestro deterrente, che risuona come una minaccia. In realtà i riferimenti scientifici mancano, altrettanto la casistica. Dimenticano di far presente che comunque il tema del suicidio (fantasticato o agito) può intervenire in molte altre situazioni cliniche o in gravi patologie psichiatriche che nulla hanno a che fare con l’omosessualità.

L’evocazione del tema del suicidio sembra piuttosto nascondere un’altra questione relativa alla diagnosi differenziale. Riferita all’ambito dell’omosessualità la diagnosi differenziale dovrebbe permettere di situare il posto del sintomo dell’omosessualità nell’ambito in una particolare struttura psichica (nevrosi, psicosi, perversione, borderline, ecc.).

Permette, in sintesi, di esplorare e cogliere la relazione tra il sintomo e la struttura psichica in cui esso nasce e radifica. Talvolta questa relazione risulta esplorabile, altre volte meno, alcune volte addirittura può rimanere inaccessibile o inanalizzabile. Capita anche che il sintomo dell’omosessualità sia qualcosa che protegga il soggetto da un’importante deriva psicotica o consenta (nei casi borderline) di mantenere una situazione psichica in una fragile compensazione.

Un’ultima considerazione. Occorrerebbe, al posto di evocare il tema del suicidio, riflettere seriamente sul tema della distruttività e dell’autodistruttività presenti in alcune modalità, tra giovani e giovanissimi, relative a una certo modo di praticare in modo estremo la sessualità e la ricerca del piacere. Il tema della distruttività oggi emerge prepotentemente e si impone all’ordine del giorno sulla scena sociale, per esempio (ma non solo) per l’incremento epidemiologico relativo alla sieropositività.

La terapia.

Nonostante sia dato per scontato, è improprio parlare di “terapia degli omosessuali”. Innanzitutto perché coloro che si definiscono tali non costituiscono un insieme omogeneo (nonostante gli sforzi dei movimenti gay). Secondariamente si tratterebbe, semmai, di un processo terapeutico che verrebbe volontariamente richiesto da un soggetto per articolare e superare il disagio dell’omosessualità (egodistonica, come ancora risulta rubricata nel DSM).

Un altro luogo comune: la terapia del disagio omosessuale non significa che la guarigione possa o debba essere riscontrata solo e soltanto se è verificabile un ritorno o un approdo (duraturo) all’eterosessualità. “Questo tipo di terapia – afferma Nicolosi – non si pone l’obiettivo di cancellare tutti gli impulsi omosessuali, bensì di migliorare la capacità di mettersi in relazione con gli altri uomini e di rafforzare il processo di identificazione maschile” .

Nella nostra società ipertecnologica sempre più il concetto di terapia viene fortemente contaminato da una concezione finalistica o utilitaristica che proviene essenzialmente dal modello medico. In effetti, come la letteratura psicanalitica ha da sempre affermato, il lavoro terapeutico non garantisce a priori l’eliminazione del sintomo.

I detrattori della terapia riparativa, partendo dal postulato che “l’omosessualità è una variante naturale della sessualità”, ritengono invece che l’unica e vera terapia non possa che essere “affermativa” (TAG): confermare l’omosessualità, sostenerla, integrarla facendo convivere il soggetto con tale tendenza (anche se non desiderata). Sono proprio questi postulati a lasciare intatto il sintomo, a confermarlo, a “istituzionalizzarlo”, a farne l’emblema di un’identità “differente”.

Il cosiddetto approccio terapeutico affermativo propone una nozione di terapia che non corrisponde a quella che la psicoterapia e la psicanalisi hanno teorizzato in parecchi decenni di esperienze. In esso infatti è come se il lavoro terapeutico evitasse di mettere radicalmente in questione il sintomo o il disagio, ma si accomodasse in una sorta di conferma e quindi di stigmatizzazione del sintomo in quanto tale.

Il suo presupposto, che risente di un modello direttivo-suggestivo del trattamento , è che la direzione dell’articolazione del sintomo possa essere orientabile, manipolabile, indirizzabile. Le cose in realtà sono ben più complesse. E non tutto dipende dal terapeuta, dalle sue convinzioni o dalla sua etica.

Sulla guarigione.

Un lavoro terapeutico è autenticamente tale se davvero coinvolge e attraversa l’ambito psichico e inconscio del soggetto, se procede in modo imprevedibile, se sfugge pertanto ad ogni finalismo predeterminato. L’effetto di guarigione non può essere un a priori già dato, una garanzia o una promessa. Non è (solo) un traguardo quanto un punto di partenza.

In molta letteratura psicanalitica emerge la considerazione secondo cui la guarigione (a differenza dal discorso medico) non corrisponde ad una restitutio ad integrum. Il lavoro verso la guarigione non restituisce un soggetto senza più sintomo, un soggetto cioè identico a come era prima. Semmai il lavoro di guarigione si misura, passo dopo passo, con una consapevolezza più ampia in cui la storia e la vita psichica del soggetto non hanno più bisogno di quel determinato sintomo per colmare o mediare le ferite, le inibizioni o le fobie dell’Io.

Accenniamo, per concludere, a un particolare paradosso della libertà. In termini psichici la libertà di scelta del paziente (di scegliere a quale terapeuta rivolgersi) si riduce, ancor prima di colorarsi di una valenza etica o morale, alla forza e all’estensione con cui il sintomo, nella sua struttura, attua una sorta di costrizione sull’Io.

Ossia: il soggetto, del proprio sintomo, può dichiarare di farne ciò che vuole, ma il sintomo è Altro, si svolge Altrove, su un’altra scena in cui è implicato l’inconscio, la storia soggettiva, la vita pulsionale, il modo con cui si inscrive il suo godimento. Il sintomo insomma non è nella disponibilità dell’Io. Si aprirebbero qui molte notazioni , ma ci limitiamo ad accennare come la nozione di sintomo non si risolve semplicemente nei termini di disturbo.