Quando la legge distrugge il diritto

morte_giustiziaStudi Cattolici n. 629/30 luglio-agosto 2013

di Gianfranco Morra

Sono ancora possibili la giustizia e il diritto nell’epoca del nichilismo? Nella nostra epoca postmoderna, che ha ibernato la religione e la metafisica, su quali basi si appoggia l’edificio del diritto? La scienza del diritto non ha rottamato la filosofia del diritto? E quale democrazia sarà ancora possibile in un mondo che ha eliminato la grandiosa costruzione europea del diritto naturale della persona?

L’impegno degli organismi internazionali del Novecento, di far trionfare la giustizia nei rapporti tra i popoli, non è reso difficile dalla mancanza di un diritto comune, ridotto alle leggi volute dalle autorità sociali e statali o dalle maggioranze politiche? Non si rischia di ridurre la legge al semplice arbitrario comando («jus non quia justum, sed quia jussum») ?

A queste domande cerca di rispondere un recente studio di Vittorio Possenti, Nichilismo giuridico. L’ultima parola? (Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 220, euro 18). L’Autore, che insegna filosofia politica all’Università di Venezia, da tempo affronta il problema indicato nel titolo. Ora ci offre una densa sintesi, forse di lettura impegnativa, ma di certo convincente e documentata.

Tra religione & metafisica

Insieme con la religione, la famiglia e il diritto nasce la civiltà: «Dal dì che nozze, tribunali ed are / diero alle umane belve esser pietose / di sé stesse e d’altrui», come Foscolo traduceva in versi (Dei sepolcri, 91-3) l’insegnamento di Vico. Per il quale «l’idea del diritto nacque congenita con quella della provvidenza divina; non posson i diritti altronde venire agli uomini che da Dio». La differenza tra le leggi e le condotte riguarda il «fatto» (la storia), non il «vero» (la filosofia). La ragione è in grado di definire un «diritto natural delle genti, un diritto eterno che corre in tempo» (Scienza Nuova Seconda, 398, 1039, 49).

Questa origine divina della giustizia è una certezza antropologica universale, che si trova in tutte le civiltà: dall’indiana, che definisce con la parola rta la giustizia cosmica, il ritum religioso e la legge morale; all’egiziana, che indica l’ordine inserito dal Dio nel cosmo con la parola maat, la giustizia che ciascuno deve seguire nella sua vita e il Faraone incarna in sé e realizza nello Stato; e alla greca, che aveva una dea della giustizia, «Themi la veneranda» (Esiodo, Teogonia, 16). Per non dire dell’ebraismo: Dio è soprattutto giustizia, la sua parola è «La legge» (torah), come vengono chiamati i primi cinque libri della Bibbia; giusto è quell’uomo, che rispetta il «codice» di Jahwè.

La filosofia razionalizzerà queste figure mitiche e la giustizia verrà considerata come la sintesi armonica delle virtù etiche, «che tutte fa nascere e conserva» (Platone, Repubblica, 433 B); per Aristotele la giustizia e la più alta di tutte le virtù: «Né la stella della sera, né quella del mattino sono così ammirevoli» (Aristotele, Etica Nicomachea, 1129 b 29). Una virtù insieme individuale e sociale, che si trova non solo nell’uomo, ma anche in quell’«Uomo in grande» che è lo Stato.

La legge naturale

E con la filosofia greca e romana nasce quella scoperta della «legge naturale», che costituisce un’invenzione e anche un privilegio dell’Europa: Sofocle nell’Antigone (vv. 450 ss.) contrappone ai decreti scritti di Creonte «le leggi non scritte, inalterabili, fissate dagli dèi, che non vivono da ieri, ma da sempre». Cicerone, come già lo stoicismo greco e più tardi Seneca, definisce il diritto naturale come legge della divinità e della ragione: «Una legge vera, ragione retta conforme alla natura, presente in tutti, invariabile, eterna, di cui Dio è l’autore e l’interprete» (De republica, II, 22, 33).

Una lex naturalis che troverà casa, nonostante qualche difficoltà, anche nel primo sistema filosofico del cristianesimo, quello di Agostino: «Una ragione divina, una volontà di Dio, che comanda di conservare l’ordine naturale e vieta di turbarlo» (Cantra Faustum, 22, 27). Toccherà a Tommaso d’Aquino la definizione compiuta della legge di natura, quarta oltre quelle eterna, divina e umana: «È la partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole»; «Ogni legge umana deriva da quella naturale e, come dice Agostino, se non è giusta, non è legge, ma corruzione della legge» (Summa theologiae, I. II, q. 91, a. 2).

Da questa legge naturale greco-cristiana va distinta quella moderna, enunciata dal giusnaturalismo del Seicento. Premeva ai filosofi moderni trovare una via d’uscita dalle terribili guerre di religione e, insieme, garantire i diritti del nuovo ceto sociale emergente, la borghesia imprenditoriale. Il diritto naturale si fonda sulla stessa legge della natura, che porta gli uomini a difendere la loro vita e la loro proprietà (Hobbes).

Esso è tutt’uno con la potenza del singolo, che conserva e afferma sé stesso (Spinoza). Vico si accorse che in questi autori e in altri, come «Epicuro, Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Bayle», che cita più volte nei suoi scritti giuridici, il diritto era reso impossibile dal loro materialismo metafisico, dal loro relativismo gnoseologico e dal loro utilitarismo morale.

Anche gli scrittori classici del giusnaturalismo secentesco non negano la fondazione religiosa del diritto naturale, ma la sospendono, nel senso che la lex naturae coincide con la razionalità dell’uomo e rimane valida in senso assoluto anche nell’ipotesi che Dio non esista (Grozio); essa appartiene «all’uomo in quanto uomo, non in quanto cristiano» (Pufendorf e Seldeno). Vico comprese pienamente questa autonomizzazione del diritto naturale, privato del fondamento teologico: «I tre prìncipi di questa dottrina errarono tutti e tre in ciò: che niuno pensò stabilirlo sopra la provvedenza divina» (Scienza nuova prima, 15).

Il positivismo giuridico

Con il giusnaturalismo secentesco prendeva il via la tendenza della modernità a capovolgere la successione classica: Bene (valore e fine), Norma, Obbligazione, Diritto, Legge. In precisa coincidenza con la crescita della secolarizzazione: «Nel processo di indurimento razionalistico della dottrina della legge naturale si verifica un passaggio dalla legge al diritto: mentre la filosofia politica e giuridica tomista è centrata attorno alla nozione di lex, e la legge è regola e misura delle azioni da compiere e da evitare, in Hobbes e Spinoza assume particolare rilievo il diritto di natura» (Possenti, p. 192).

Al limite estremo, come comprenderà Nietzsche, il diritto diviene arbitrario (willkürliches Rechi): «Esso non è più tradizione, diviene una costrizione, che deve essere imposta» (Umano, troppo umano, 459) da parte della volontà di potenza. È la rivincita di Trasimaco su Socrate. Toccherà al positivismo giuridico definire con decisione questo primato della legge sul diritto. Com’è chiaro nel più noto esponente di questa scuola, Hans Kelsen, per il quale è la legge che fonda il diritto, un diritto ridotto al volere: «Esso è il meccanismo coattivo il cui valore dipende piuttosto dallo scopo che lo trascende in quanto mezzo» (Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1977, p. 71).

La «validità» del diritto deriverebbe dalla sua forza vincolante, ossia dal fatto che viene a essere ubbidito da coloro dei quali regola il comportamento. Viene così meno una della più grandi scoperte dell’Europa, la distinzione tra legittimità (diritto razionale) e legalità (legge scritta). Dato che esistono spesso leggi scritte ingiuste, solo il riferimento a una previa legittimità, fondata sulla perenne lex naturae, consente di riaffermare il diritto opponendosi alla sua negazione.

Ne deriva il diritto di resistenza (obiezione di coscienza), fatto proprio e accentuato dal liberalismo moderno, proclamato da Locke come «appello al cielo» (appeal to Heaverì) e presente in tutte le costituzioni democratiche. Un diritto che perde ogni significato nel positivismo giuridico, per il quale la legge scritta non solo incarna la norma, ma la produce.

Paradossalmente per il positivismo giuridico non esistono né leggi «giuste», dato che lo divengono solo perché statuite dall’autorità, né leggi «ingiuste», dato che ogni legge rimane valida sino a quando non viene sostituita. Il diritto si riduce così al volere e la legge alla decisione con cui, nel «politeismo dei valori» (Max Weber), la voluntas produce una ratio giuridica, con un atto di decisione (Carl Schmitt), che, specialmente negli «stati di eccezione», si sottrae alla «tirannia dei valori». Come ha mostrato con insistenza Carlo Antoni, l’esito del positivismo giuridico non è, come pretende Kelsen, la democrazia, ma il totalitarismo (La restaurazione del diritto di natura, 1959).

Diritto senza persona

Nel secolo XX, come reazione alle due più tragiche e sanguinose guerre della storia dell’umanità, sono nate le grandi organizzazioni sovrannazionali (Società delle Nazioni, Onu, Unione europea), le quali tutte si richiamano ai diritti naturali. Necessariamente, dato che senza diritto naturale quelle organizzazioni si riducono a palestre di interessi economici e politici. Che purtroppo è avvenuto e sta avvenendo largamente, in quanto il Novecento ha accentuato la riduzione del diritto alla legge in termini ancor più negativi di quella naturalistica del positivismo.

Il pensiero del Novecento vede prevalere non solo le tendenze storicistiche e relativistiche, ma anche quelle nichilistiche del «postmoderno». Tutte accomunate, queste ultime, dalla distruzione («destrutturazione») del concetto europeo di persona. L’homo sapiens della tradizione greco-cristiana è ormai «sfondato» (Vattimo), diviene un fascio di desideri senza desiderante, un insieme di eredità biologiche e di tensioni irrazionali, un reperto archeologico da salutare senza amarezza.

Dopo le «antropologie dall’alto» della tradizione greca e cristiana («al principio era il Logos»), ecco quelle «dal basso»: l’uomo è una muffa invecchiata, un primate evoluto, un «ciò che diventa un io». Il Novecento si mostra così come il più antifilosofico secolo della storia europea. Anche nella modernità non sono mancati filosofi che hanno capito a fondo l’esito nichilistico della cultura europea.

Primo fra tutti Antonio Rosmini, il quale ha mostrato che non vi può essere recupero del diritto senza la riproposizione del concetto di persona, che coincide con esso: «La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente» (Filosofìa del diritto, I, 49). Se la persona non viene recuperata come centro del diritto, tutte le leggi inique, contro le quali combattè il Roveretano (come quella sul divorzio e sulla gestione unicamente statale delle educazione), divengono «giuste» per il semplice fatto che sono approvate dalla «dittatura delle assemblee».

Il secolo del revival

II Novecento assiste dovunque a una rinascita del diritto naturale, con autori, per lo più cattolici, come Heinrich Rommen, Friedrich Meinecke, Leo Strauss, Giuseppe Capograssi, Carlo Antoni, Jacques Maritain, Alessandro Passerin d’Entrèves. Fu nel solco di Rosmini che in Italia avvenne questo revival. Le pagine che Possenti vi dedica hanno richiamato chi scrive a sensibilissimi maestri, con i quali ha avuto frequenti dialoghi sul diritto naturale: come Felice Battaglia, Giovanni Ambrosetti, Sergio Cotta (e altri un po’ meno convinti del recupero: Luigi Passò e Pietro Piovani).

Soprattutto con il collega di facoltà Luigi Bagolini, acuto studioso di filosofia del diritto, il quale ha mostrato come senza un riferimento alla Trascendenza non solo non sia possibile il diritto, ma neppure la promessa, che è un impegno «per sempre» (Giustizia e società, 1983). Gli uomini secolarizzati continuano a giurare, ma chi invocano come garante della loro promessa? Anche negli Stati Uniti, dove il processo di secolarizzazione è in aumento, se pur meno che in altri Paesi europei, ancora il giuramento avviene con la Bibbia in mano. Da noi non più ed è una fortuna che non siamo ancora arrivati a giurare sulla Costituzione della Repubblica.

Bagolini fotografava con vivacità la degenerazione della promessa a semplice contratto, ormai avvenuta in tutte le sfere della vita. Il merito di questa opera di Possenti è di avere definito la genesi e le forme del nichilismo giuridico in riferimento agli altri nichilismi della modernità: quello teoretico (oblio dell’essere), quello morale (oblio del bene), quello teologico (oblio della trascendenza) e quello tecnologico (oblio e manipolazione delle essenze).

La sua conclusione giunge convincente: «Nel nichilismo giuridico il sistema normativo manca del fine e del perché. Le leggi sono solo più o meno valide in rapporto al potere della volontà politica che le ha poste. Si apre lo spazio di una assoluta contingenza, che significa la possibilità di ogni scelta e di ogni soluzione. Spentosi l’orizzonte della verità, emerge prepotente la categoria del Produrre e della Tecnica» (p. 97)