Le tappe della rivoluzione nell’economia

capitalismoArticolo pubblicato sul n. 15 di Cristianità

Verso la socializzazione universale

di Luiz Mendonça de Freitas

1. Dal Medioevo ai nostri giorni

La maggior parte delle persone, al giorno d’oggi, è propensa a credere che il ritmo agitato della vita quotidiana, e la particolare importanza che in essa assumono le preoccupazioni di ordine economico, costituiscano un elemento costante nelle società umane, e derivino necessariamente da certe insopprimibili tendenze degli uomini. Specialmente quanti abitano nelle grandi città moderne e non conoscono la pace e la tranquillità della vita in certe zone non ancora coinvolte nel progresso materiale, ascoltano con sorpresa e scetticismo l’affermazione secondo cui una tale concezione non corrisponde alla realtà.

L’attuale predominio delle preoccupazioni di carattere economico è una caratteristica della nostra epoca ed è sorto con essa. Questa situazione corrisponde alla condizione spirituale propria di quanti hanno contribuito direttamente o indirettamente alla realizzazione del mondo capitalista e socialista.

L’uomo non è una creatura con una natura semplice, la cui vita sia determinata istintivamente, come accade negli animali. Egli è dotato di una intelligenza che orienta la sua azione. Il suo modo di agire corrisponde sempre a una dottrina o almeno a uno stato d’animo. In ogni epoca storica si possono indicare certe idee e forme di pensiero predominanti, che a essa danno il suo aspetto specifico, perché l’essere razionale tende sempre a conformare i suoi atti alle sue idee.

Percorrendo la storia economica e sociale della civiltà occidentale, in essa si possono distinguere chiaramente due epoche. La prima – il Medioevo – è caratterizzata dalla vigorosa presenza di istituzioni ispirate dai princìpi del diritto naturale.

In questa epoca si può dire che la civiltà cristiana ha trovato la più completa realizzazione da essa fino a oggi raggiunta. La seconda – che abbraccia quello che si è convenuto di chiamare Evo Moderno ed Età Contemporanea – si distingue per un progressivo indebolimento delle istituzioni ereditate dal periodo precedente, parallelamente a un graduale rafforzamento di idee e dottrine anticattoliche. Siccome l’uomo tende naturalmente a vivere come pensa, nella misura in cui la civiltà occidentale accetta questi nuovi princìpi, si cerca in tutti i modi di adattare alle nuove opinioni le istituzioni nate nel Medioevo, ed esse si indeboliscono.

Nel Medioevo il cattolicesimo occupava una posizione centrale nella vita degli uomini. Gli aspetti economici e sociali dei rapporti umani erano affrontati alla luce della morale e della religione. Con l’avvento del mercantilismo e i progressi dell’assolutismo e del centralismo monarchico, le considerazioni di ordine puramente economico assumono un ruolo sempre più preponderante nell’esistenza quotidiana. Le epoche posteriori al Medioevo sono caratterizzate da un grande sviluppo del pensiero economico, e da una influenza sempre maggiore degli interessi materiali nell’insieme della politica dei paesi europei.

Chi scorre un qualsiasi manuale di storia delle dottrine economiche è portato a credere che esistano profonde divergenze tra le correnti dominanti dopo il Medioevo. Infatti, mercantilismo, capitalismo e socialismo sembrano separati gli uni dagli altri da un abisso insuperabile. In realtà le divergenze derivano da elementi occasionali e concreti che non giungono ad annullare il denominatore comune che li unisce.

Soggiacenti a questi tre sistemi sono la stessa concezione della società e gli stessi presupposti riguardanti la natura e i fini dell’uomo. Ma, nel mercantilismo, questi princìpi operano su di una struttura sociale ed economica ancora molto organica e incontrano una forte resistenza, e questo obbliga il sistema ad adattarsi. Si costituisce così un regime ibrido, antiche forme di organizzazione della vita economica (per esempio, corporazioni di mestiere) sussistono accanto a nuove istituzioni (imprese di tipo capitalistico come le compagnie di navigazione).

Ma l’ulteriore sviluppo della organizzazione sociale ed economica dell’Occidente sarà caratterizzata da un progresso continuo dello spirito mercantilistico. Si giunge così al capitalismo che rappresenta una tappa più avanzata, poiché in esso vi è maggiore coerenza tra le istituzioni e le idee economiche. Nel socialismo, infine, troviamo il pieno sviluppo di queste idee, poiché i princìpi utilitaristici si estendono a tutti i campi della vita umana.

La presentazione dei tratti che caratterizzano le epoche posteriori al Medioevo è molto istruttiva, e offre una riprova del progressivo sviluppo e dominio delle nuove concezioni economiche.

Nel Medioevo abbiamo visto istituzioni ispirate dai princìpi dell’autentico ordine naturale; una società nella quale le forze economiche svolgevano un ruolo secondario; dove le diverse classi si strutturavano in una gerarchia (clero, nobiltà, borghesia e popolo), il cui principale fondamento non stava nella ricchezza; dove la politica economica, nel senso moderno della parola, non esisteva, ed era compito delle corporazioni orientare e sorvegliare l’esercizio dei diversi mestieri; dove, nella maggior parte dei casi, i mercati erano locali e limitati a determinati prodotti, permettendo alle operazioni economiche di svolgersi secondo norme tradizionali; dove, infine, le teorie economiche si fondavano su princìpi morali, in modo tale da svolgersi attorno alle nozioni di giusto prezzo, di salario, di usura, ecc.

Nell’epoca mercantilistica la borghesia incomincia a crescere di importanza e a soppiantare a poco a poco l’aristocrazia rurale. Ha inizio la politica che mira a potenziare economicamente lo Stato. Si ampliano lentamente i mercati, che da locali diventano regionali e quindi nazionali. Le teorie economiche assumono caratteri in contrasto con la loro epoca, perché sono nello stesso tempo liberali e favorevoli al dirigismo statale.

Nel capitalismo liberale, che si sviluppa dopo le guerre napoleoniche e acquista pieno vigore a partire dalla metà del secolo XIX, le concezioni fondamentali sono le stesse che avevano informato lo Stato mercantilista, con l’unica differenza che ormai gran parte delle nuove dottrine si era infiltrata nell’organizzazione economica, dando origine a istituzioni e a tipi di comportamento nuovi. Ormai lo Stato autoritario non era più necessario, e quindi si liberalizza.

Nasce infine il socialismo, come la forma concreta più perfetta delle idee sorte all’alba del mondo moderno. Abbiamo allora come operatore economico un burocrate che riceve ordini; una società nella quale la gerarchia è condizionata dalle funzioni economiche esercitate dagli individui; dove la politica economica è fatta tramite organismi statali pianificatori; dove i mercati sono diretti dallo Stato; una società i cui membri sono modellati nel loro comportamento e nelle loro inclinazioni dalla propaganda; una società nella quale l’individuo assomiglia sempre più all’uomo astratto delle teorie economiche.

In questi tre sistemi incontriamo gli stessi presupposti che informano di volta in volta situazioni storiche diverse: nel mercantilismo è necessario l’intervento dello Stato per provocare il crollo del sistema medioevale; nel capitalismo vi è una prima fase liberale per il consolidamento delle conquiste precedenti, e una seconda interventista e concentrazionista che prepara l’avvento del socialismo, il quale a sua volta costituisce lo stadio più avanzato di questa evoluzione.

In un certo senso si può dunque dire che tutti questi sistemi sono socialisti, e che la differenza esistente tra mercantilismo, capitalismo e socialismo è una differenza di grado e non di natura. Ognuno di essi realizza in un modo più completo e più coerente del precedente i massimi desiderata della società materialista e naturalista.

La stessa evoluzione si rivela dall’analisi dei tipi umani che meglio caratterizzano queste diverse epoche, attraverso i quali si può osservare come l’asse della vita si vada lentamente spostando dalla religione alla economia, fino al completo predominio di quest’ultima.

In una economia organica come quella medioevale, gli uomini non consumavano l’esistenza nell’esercizio febbrile e ambizioso di attività lucrative. Tutto era incomparabilmente più calmo di oggi. La società era organicamente gerarchizzata in gruppi sociali distinti, e ogni individuo e ogni famiglia doveva guadagnare soltanto quanto bastava a conservare la sua posizione sociale. Le sue spese raggiungevano un livello tradizionalmente stabilito e che variava assai poco.

Di conseguenza non esisteva l’avidità – così comune ai nostri giorni – di remunerazioni sempre più elevate, che trasforma l’esistenza in una vera lotta. In quell’epoca, dice Sombart, «l’economia […] è sottomessa al principio della soddisfazione dei bisogni» (1). «[…] contadini e artigiani, con la loro normale attività economica, cercavano il proprio sostentamento e nulla più» (2).

Con l’avvento del mercantilismo gli spiriti subiscono, a poco a poco, un profondo mutamento. Si interessano sempre più della ricerca del denaro, considerato in un primo momento come un semplice mezzo che permetta di raggiungere una posizione sociale più elevata e una vita più confortevole.

Fatta questa prima concessione al demone dell’economia, gli uomini si lasciano dominare sempre più da esso, fino a diventare suoi schiavi. Così come succede per qualsiasi tentazione, questa non si è presentata fin dall’inizio in tutta la sua abiezione. Ai figli dell’Evo Moderno, che ambiscono la ricchezza, si consiglia di dedicare soltanto un breve periodo della loro vita agli affari, al fine di acquisire una fortuna che procuri a essi un ozio «cum dignitate» lungo e confortevole.E’ quanto si può osservare nel mercantilismo.

Questa fase di transizione tra il Medioevo e il capitalismo è stata magistralmente descritta da Sombart: «In tutti i libri commerciali italiani si trova la nostalgia di una vita tranquilla in campagna: il Rinascimento tedesco rivela nei commercianti la stessa propensione a nobilitarsi e tale propensione la troviamo immutata nelle abitudini dei mercanti inglesi nel secolo decimottavo. L’ideale della rendita ci appare dunque qui […] come un segno comune a tutto l’atteggiamento economico paleo-capitalistico. Come dominasse ancora il mondo commerciale inglese, nella prima metà del secolo decimottavo, ce lo dimostra […] Defoe nelle sue riflessioni, con le quali accompagna la consuetudine palesemente generale dei mercanti inglesi di ritirarsi per tempo dagli affari» (nel capitolo XLI della quinta edizione del Complete English Tradesman).

«Così egli opina: quando uno ha guadagnato 20.000 sterline, è ben giunto per lui il momento di ritirarsi dagli affari. Con questi denari egli può già comperarsi una discreta proprietà, e così entra a far parte della gentry. A questo gentleman di nuovo conio, egli dà come guida questi insegnamenti: 1. egli deve continuare anche in avvenire la sua vita economica: della sua rendita di mille sterline deve consumarne al massimo 500, e con le economie deve ingrandire la stia proprietà; 2. non deve abbandonarsi a speculazioni e non deve prendere parte a fondazioni: si è ben ritirato per godere quel che ha guadagnato (retyr’d to enjoy what they had got): perché rimetterlo in gioco in imprese temerarie?» (3).

In queste parole è descritta la nascita dell’uomo d’affari dinamico, dello speculatore di borsa, del capitalista che non sa fare altro che affari e a cui piacciono solo gli affari, del socialista pianificatore che in tutto il complesso della vita politica e sociale coglie soltanto gli aspetti economici. Come abbiamo visto, la tentazione era presentata molto bene. Non si chiedeva neppure che gli uomini mutassero le loro abitudini. Il loro modo di vita continuava a essere ampiamente influenzato dai modelli antichi.

«Il comportamento dignitoso, l’apparenza alquanto rigida e pedantesca del borghese vecchio stile erano soltanto l’espressione esteriore di quella calma intima e di questa misura. Non possiamo immaginarci un uomo frettoloso con indosso le lunghe zimarre del Rinascimento o i calzoni corti e le parrucche dei secoli successivi. Contemporanei degni di fede ci descrivono il mercante come un uomo che avanza sempre ponderatamente, mai in fretta, e proprio “perché” fa qualche cosa. Sappiamo che nella Firenze del secolo decimoquinto, “soleva dire messer Alberlo, omo destissimo et faccentissimo, che mai vide omo diligente andare se non adagio» (4).

Ma con l’evolvere di queste tendenze e con lo sviluppo del capitalismo, l’uomo attivo in campo economico si lascia assorbire sempre più dagli affari, e in questo modo vengono dimenticati, e relegati in secondo piano, quegli obiettivi più elevati che, precedentemente, cercava di raggiungere dopo una certa età e un certo tempo di attività.

Il demone economico ha lasciato la fase della tentazione: adesso, nel capitalismo, è signore di schiavi, molto ben descritto dallo stesso Sombart: «nell’animo dell’imprenditore [capitalista], in conseguenza dell’eccesso di lavoro, e specialmente dell’ingolfarsi in questioni di affari che non gli lasciano tempo per altre cose, tutti gli altri interessi scompaiono: natura, arte, letteratura, Stato, amici, famiglia non possono più esercitare alcuna seduzione su di lui, che perciò si sente pervaso da un insopportabile senso di fastidio e di desolazione quando abbandona il mondo delle cifre che lo sostiene e gli dà calore e vita. Nel mondo degli affari, invece, trova tutto quanto gli dà sollievo, gli dà coraggio, lo fa felice; ha la sensazione di trovare lì la sua vera patria, la fonte di giovinezza che gli dà nuove forze, la sorgente che gli dà nuova vita, quando è assetato. Non meraviglia quindi che finisca per consacrare il suo amore a questo mondo» (5).

Tuttavia non termina ancora qui l’evoluzione che analizziamo. Dopo la schiavizzazione dell’uomo agli affari, la tappa seguente consiste nei sottomettere alla economia tutto l’ordine sociale e politico. Di questo compito si incarica il socialismo, che porta così alle sue ultime conseguenze la concezione economica della vita. Allora tutto si burocratizza. Non vi è più posto per la religione, per il pensiero, l’arte e tutti i valori morali e intellettuali.

L’unica finalità della civiltà diventa l’accelerazione dello sviluppo economico dei popoli e il rafforzamento degli Stati. Di conseguenza tutti gli uomini si dividono in due categorie: quella costituita da coloro che pianificano nei minimi particolari la vita della collettività, e quella formata da quanti eseguono tali piani. I paesi moderni assumono così la forma di gigantesche imprese industriali e commerciali, mentre i governi assumono l’aspetto di direzioni amministrative e vi è posto soltanto per individui con inclinazione al puro sapere pratico.

Così si sono istituzionalizzate le dottrine economiche sorte al tramonto del Medioevo. E così, di conseguenza, è nato l’attuale modo di vita – che pone le preoccupazioni di ordine materiale sopra qualsiasi considerazione di ordine spirituale -, diametralmente opposto ai princìpi dell’ordine naturale ispiratori delle istituzioni medioevali.

2. Il capitalismo

Ripercorrendo le tappe della rivoluzione ugualitaria nell’economia dei paesi occidentali, abbiamo avuto modo di mettere in evidenza che il capitalismo è stato, nei secoli XIX e XX, uno dei tratti di questa evoluzione. Ammessa questa tesi storica, non ne segue però che noi cattolici dobbiamo assumere nei confronti del capitalismo lo stesso atteggiamento di rifiuto integrale che assumiamo verso il socialismo e il comunismo.

Non sono di questa opinione i cosiddetti cattolici di sinistra, che condannano il capitalismo considerato in sé stesso e lo attaccano almeno con la stessa violenza con cui criticano certi aspetti del marxismo o dei sistemi socialisti. Perciò ora ci proponiamo di sottoporre il regime capitalista a una breve analisi critica, alla luce della dottrina della Chiesa, che ci metta in grado di indicare quale delle due posizioni ricordate possa essere giudicata ortodossa. Cominciamo prendendo in esame che cos’è concretamente il capitalismo.

Per un esame approfondito, affrontiamo il problema sotto diversi aspetti: quello economico, quello sociale e quello morale.

Dal punto di vista economico, il capitalismo è il sistema caratterizzato dall’accettazione del principio della libera iniziativa nell’azione economica degli individui. La molla propulsiva di questa iniziativa si trova nel desiderio di guadagno. Gli individui costituiscono imprese e cercano di espandere le loro attività avendo di mira il ricavo di guadagni. Quanto maggiore è l’ambizione, tanto maggiore sarà il numero delle iniziative, delle intraprese, delle invenzioni, ecc.

Altro istituto tipico del capitalismo è quello del salariato, che consiste nell’affitto del lavoro, mediante remunerazione in denaro o, in casi eccezionali, in beni. Che il salariato non sia per nulla contrario alla dignità della persona umana, lo ha già dichiarato il Papa Pio XI, affermando che in sé non presenta nulla di intrinsecamente cattivo (Quadragesimo anno).

Dal punto di vista economico, e prendendo in considerazione soltanto i suoi princìpi, nel capitalismo non abbiamo niente da condannare.

Dal punto di vista sociale, si nota che in questo sistema la differenziazione delle classi si basa quasi esclusivamente sulla predominanza dei valori monetari. Gli strati superiori della popolazione cessano, per gran parte, di essere costituiti secondo il criterio del sangue e dei servizi prestati al re o ad altri superiori gerarchici, come nel Medioevo, per nascere come una conseguenza dei possesso di ricchezza.

In conseguenza dell’azione di questo principio di selezione delle classi alte, nel capitalismo si osserva una accentuata capillarità sociale, cioè sono molto numerosi i casi di ascesa rapida ai vertici della società, e di rapido decadimento di membri della oligarchia dominante. Questo fenomeno, molto evidente negli Stati Uniti, dove il capitalismo ha raggiunto un elevato grado di coerenza e di sviluppo, è forse meno visibile in altri paesi di qua della cortina di ferro, ma opera in tutti.

Evidentemente questa forte capillarità si traduce in una periodica e celere rotazione delle élites. E’ evidente l’instabilità che questo fatto comporta per la vita sociale.

La preservazione della civiltà cattolica esigerebbe un sistema diverso, capace di garantire per molte generazioni la trasmissione dei caratteri, delle abitudini e dei progressi morali acquisiti dagli individui e dalle famiglie. Evidentemente, l’umanità come tale non potrà mai superare in tutto le deficienze derivanti dal peccato originale ma, nella misura in cui una civiltà si cristianizza, tende a convertire in abitudine sociale le virtù cristiane.

Tali abitudini devono impregnare la vita sociale al punto da trasformarsi in una seconda natura, che gli individui acquisiscono quasi insensibilmente, per il solo fatto di vivere in questo ambiente sano e cattolico. Ma, a questo scopo, è necessario che le famiglie, specialmente quelle aristocratiche, possano mantenersi, per molte e molte generazioni, senza doversi impegnare in attività economiche troppo assorbenti.

Non vogliamo dire che il denaro debba essere assolutamente condannato come elemento differenziante delle classi sociali. Intendiamo solo affermare che esso non è l’unico e non può essere il principale elemento di questa differenziazione. Nel Medioevo e nell’Antico Regime l’accesso alla nobiltà era possibile soltanto dopo che la famiglia che pretendeva questo stato avesse provato che per tre o quattro generazioni aveva avuto fortuna e aveva mantenuto un modello di vita corrispondente a quello di nobile, e che, inoltre, aveva prestato al re servizi tali da giustificare la promozione. In questo modo, le élites si depuravano lentamente, e avevano il tempo (contato in generazioni) di assorbire le abitudini, i sentimenti e, in un certo senso, l’atteggiamento psicologico dell’aristocrazia.

Quando a distinguere e a differenziare le classi è principalmente o quasi esclusivamente il denaro, cessa di svolgersi questo accurato processo di selezione e di perfezionamento. Le famiglie si mantengono in primo piano per poco tempo, poi o trascurano i propri beni per dedicarsi alla cultura, e sono così condannate a impoverire e a perdere la propria posizione, oppure, per evitare questo, sono assorbite dalla vita economica e abbandonano la vita della cultura. Per un processo o per l’altro le élites dirigenti sono destinate a un continuo rinnovamento delle famiglie che le compongono.

La stabilità necessaria al raffinamento e al perfezionamento della cultura cessa di esistere. Questo sistema di intensa capillarità sociale porta con sé il gusto delle novità, inclinazione che, se esagerata, contribuisce a rompere i vincoli che devono normalmente legare le generazioni, e che al contrario sono molto fortificati dalla conservazione di oggetti e di ambienti antichi, specialmente quando hanno appartenuto a una stessa famiglia per secoli.

In campo morale non si può passare sotto silenzio un principio che è stato frequentemente accettato dal capitalismo come una verità indiscutibile: quello della indipendenza della economia dalla morale. Vi è stato un trattatista che è giunto a trarre da questo postulato tutte le sue conseguenze, al punto da affermare che commette un errore economico chi, potendo rubare, non ruba. In realtà, pochi sottoscriverebbero questa affermazione, il che non impedisce che il sistema capitalista, considerato in concreto, sia vissuto più o meno sotto l’imperio di questo principio.

Dal punto di vista morale non si può accettare lo sfruttamento di passioni umane inferiori come molle propulsive dell’economia. E’ quanto è stato fatto, da tanti capitalisti, con l’ambizione di arricchire e l’invidia dei superiori. Vi è in ogni uomo un desiderio, che può essere sano e ordinato, di migliorare le condizioni materiali della propria vita, ma il capitalismo ha cercato di esacerbare questa inclinazione, suscitando negli individui necessità fittizie che li portano ad applicare alla attività economica tutte le loro energie e capacità, e li sviano da qualsiasi altra manifestazione della loro personalità. Vita di famiglia, cultura, religione, tutto è sacrificato al “grande ideale” dell’arricchimento, che a sua volta garantisce agli individui l’ascesa sociale.

Come si vede, questi apprezzamenti morali toccano il capitalismo come è storicamente esistito. Però, considerando questo regime senza gli abusi a cui si è prestato, e solamente nei suoi aspetti più essenziali, non si può dire che abbia qualche aspetto contrario alla giustizia e alla carità.

L’elenco degli aspetti del capitalismo che abbiamo presentato è esemplificativo, e non pretende di esaurire le caratteristiche di questo sistema: ma è soddisfacente per i propositi di questo articolo. Questa enumerazione ci sembra già sufficiente per giustificare l’affermazione secondo cui il capitalismo non corrisponde all’ideale di una civiltà cattolica, ma non è neppure la realizzazione del suo estremo opposto.

Si tratta, in via di principio, di un sistema legittimo, benché sia lontano dall’essere perfetto. In esso sono almeno rispettati due valori o diritti fondamentali della persona umana, cioè la proprietà privata e la preminenza dell’individuo sullo Stato. Il capitalismo permette che sussista la disuguaglianza sociale, benché tenda ad alterare costantemente, attraverso una rotazione rapida e continua, la composizione delle élites e delle classi superiori.

La proprietà e la libera iniziativa costituiscono in esso un potente ostacolo alla realizzazione dell’ugualitarismo sociale, perché entrambe implicano l’accettazione del principio che gli uomini possono avere modelli di vita molto diversi, a seconda dei loro sforzi, della loro capacità di lavoro e della loro intelligenza. Se vi sono condanne da rivolgere al capitalismo non è perché difende la proprietà privata e l’iniziativa individuale.

Quelli di sinistra, anche cattolici, combattono questo sistema non per i suoi aspetti ugualitari, ma per quello che conserva di tradizionale e che impedisce la piena instaurazione dell’ugualitarismo, ossia, soprattutto, per la conservazione dell’istituto della proprietà privata. Infatti, nel linguaggio delle sinistre, capitalismo e proprietà privata sono sinonimi, e le critiche dirette al primo in ultima analisi sono attacchi alla seconda.

Un cattolico non può combattere il capitalismo con questi argomenti. La sua critica sarà opposta a quella delle sinistre. Il cattolico condannerà questo sistema per la sua tendenza al livellamento sociale, mentre quello di sinistra lo condanna proprio perché ostacola la fioritura del pieno ugualitarismo, attraverso l’istituto della proprietà privata e il principio della libera iniziativa.

Indicando nel capitalismo, così come si è realizzato secoli XIX e XX, un passaggio importante per la rivoluzione universale, non possiamo tuttavia misconoscere che in esso sussistono istituti ispirati dal diritto naturale e che lo fanno difendibile da parte dei cattolici, senza nessun scrupolo coscienza.

Si dice che Marx fosse solito affermare che il capitalismo era un male di fronte al socialismo, ma un bene di fronte al Medioevo, perché rappresentava un passo nella direzione contraria a quest’ultimo.

Invertendo i termini, noi cattolici possiamo usare questa formula: rispetto al Medioevo il capitalismo rappresenta un male, ma paragonato al socialismo è un bene, e come tale difendibile.

Note:

(1) WERNER SOMBART, Il borghese, trad. it., Longanesi, Milano 1950 p. 14.

(2) Ibid., p. 16.
(3) Ibid., pp. 220-221.
(4) Ibid., pp. 222-223.
(5) IDEM, El apogeo del capitalismo, trad. spagnola, Fondo de Cultura Economica, Mexico 1926, p. 43.