L’Italia non è obbligata ad accogliere immigrati

Abstract: l’Italia non è obbligata ad accogliere immigrati  secondo la legge del mare e le norme internazionali e le  Ong che arbitrariamente favoreggiano l’immigrazione clandestina  anche a costo di mettere a rischio la vita dei migranti non possono arrogarsi il diritto di decidere dove sbarcare coloro che raccolgono.

Il Timone numero 224  Gennaio 2022 

Accoglienza senza fine l’Italia non ha alcun obbligo

I paladini del progressismo affermano che, se il nostro paese rifiuta di accollarsi il peso di tutti gli sbarchi dall’africa, viola la legge del mare. Ma le cose non stanno affatto così

di Pietro Dubolino (*)

Se volete far prevalere la vostra opinione su quella di un altro non c’è niente di meglio che evocare l’autorità di una legge di cui l’altro, presumibilmente, non abbia adeguata conoscenza, guardandovi bene, però, dall’illustre trarne lo specifico contenuto. È questa la tecnica adoperata da quanti sostengono che vanno accolti in Italia tutti i «migranti» che, provenienti dalle coste libiche, siano stati soccorsi dalle navi delle Ong che appositamente li attendono al largo.

La legge da essi evocata è la c.d. “legge del mare” per la quale il comandante di una nave che, nel corso della navigazione, si imbatta in persone che si trovino, per qualsiasi ragione, in situazione di pericolo ha l’obbligo di soccorrerle e di condurle in un «luogo sicuro»; e per tale – si aggiunge – non potrebbe ritenersi alcun porto libico, a causa dei pericoli di torture e vessazioni di ogni genere cui sarebbero ivi esposti i «migranti».

Da qui la ritenuta obbligatorietà della loro accoglienza, quando la richiesta, in un porto italiano e la facile accusa secondo cui sostenere il contrario equivarrebbe a volere che i «migranti» venissero lasciati morire in mare, come avverrebbe senza l’opera delle Ong, alle quali, quindi, dovrebbe andare il plauso alla riconoscenza di tutti. Ma le cose, sotto il profilo giuridico, non stanno affatto in questi termini.

L’arbitrio delle Ong

Coloro che portano avanti il suddetto ragionamento, infatti, ignorano (o fingono di ignorare), che il problema non nasce certo dal fatto che le navi delle Ong soccorrono i migranti che rischiano la morte in mare, non essendovi dubbio alcuno che tale intervento sia giusto e doveroso, quali che siano le responsabilità di quanti abbiano concorso a creare la situazione di pericolo, a cominciare dalle stesse Ong, le quali, proprio con la garanzia offerta dalla loro presenza, incoraggiano consapevolmente i migranti a fare ciò che altrimenti ben difficilmente farebbero: cioè mettersi in mare a bordo di natanti privi di ogni e qualsiasi requisito di sicurezza.

Il problema nasce invece dal fatto che le Ong, dopo aver effettuato il salvataggio, si arrogano il diritto di individuare esse stesse nell’Italia il Paese nel quale condurre i naufraghi, pretendendo quindi dalle autorità italiane l’assegnazione del «porto sicuro» in cui farli sbarcare. Il che però non trova nella “legge del mare”, il benché minimo fondamento.

La legge in questione, infatti, costituita fondamentalmente dalla Convenzione di Amburgo del 1979 e dalle linee guida elaborate nel 2004 dall’Imo (International maritime organization), prevede espressamente che il «luogo sicuro» (Place of safety secondo il testo ufficiale in lingua inglese) deve essere indicato dalle competenti autorità dello Stato responsabile della zona Sar («Search and rescue») in cui il salvataggio è avvenuto. E quasi questo avviene nella zona sardi competenza della Libia, per cui è esclusivamente alle autorità libiche che il comandante della nave soccorritrice dovrebbe rivolgersi per ottenere la suddetta indicazione, e quindi attenervisi.

Chi individua il «luogo sicuro»

Ma, come già accennato, Le Ong considerano “non sicuri” tutti, indistintamente, i porti libici; sul che, in realtà, vi sarebbe alquanto da discutere. Diamo tuttavia per ammesso che il giudizio delle Ong sia fondato. Questo non implica, però, che sia fondata la conseguenza che esse vorrebbero trarne.

Né la Convenzione di Amburgo, infatti, né altre leggi o convenzioni internazionali attribuiscono al comandante della nave soccorritrice, qualora egli, per qualsiasi ragione, non voglio attenersi all’indicazione offertagli dallo Stato nella cui zona Sar è avvenuto il soccorso, il diritto di scegliere, a sua discrezione, un altro Stato dal quale pretendere poi l’assegnazione di un «luogo sicuro» diverso da quello indicatogli.

Ciò significa che egli può soltanto, in detta ipotesi, chiedere le opportune istruzioni alle autorità del proprio Stato di bandiera. Dovranno essere poi quelle autorità, se lo riterranno necessario, a chiedere a un altro Stato, solo in considerazione della sua maggiore vicinanza al luogo in cui si trova la nave, l’assegnazione di un «luogo sicuro» per lo sbarco dei «migranti».

E l’accettazione di una tale richiesta potrà legittimamente essere subordinata alla prestazione, da parte dello Stato richiedente, della garanzia che sarà quest’ultimo, una volta effettuato lo sbarco, ad accogliere poi tutti i «migranti» nel proprio territorio e a provvedere alle loro eventuali richieste di asilo politico o protezione internazionale, anche se avanzate quando essi erano ancora nel territorio dello Stato richiesto; garanzia, quella anzidetta, da ritenersi del tutto compatibile con il Regolamento europeo n. 604/2013, nella parte in cui prevede, agli artt. 18-22, i casi in cui la competenza della trattazione della richiesta in questione possa passare a uno stato diverso da quello in cui le stesse sono state, per la prima volta, formulate.

Lecito presidiare le coste

Deve quindi concludersi che, in assenza di dette condizioni, l’eventuale rifiuto che l’Italia apponga alla richiesta di consentire lo sbarco sul proprio territorio di «migranti» soccorsi in mare in zona Sar di altri paesi, ad opera di navi delle Ong non battenti bandiera italiana non può in alcun modo essere considerato come una violazione della “legge del mare” o di qualsiasi altra norma che l’Italia sia tenuta a osservare, ivi comprese le norme europee in materia di asilo politico e protezione internazionale. Sostenere il contrario, a qualsiasi livello, significa rendersi responsabili di una pura e semplice falsità.

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Li chiamano migranti ma…

di Anna Bono

Già ricercatrice di storia e istituzioni dell’africa all’università di Torino

Quando raggiungono le rive africane del Mediterraneo, il loro viaggio è quasi terminato. Per arrivarci, la maggior parte degli emigranti illegali, privi di documenti, hanno percorso migliaia di chilometri attraversando più Stati e impiegando mesi, a volte addirittura anni. Sanno che una volta sbarcati sulle coste europee devono chiedere asilo, dichiararsi profughi in fuga da guerre, persecuzione o povertà estrema, oppure saranno respinti.

In Italia, all’esame delle commissioni incaricate di decidere se concedere o negare, la maggior parte delle richieste risultano tuttavia infondate e vengono quindi respinte. Nel corso degli anni hanno ottenuto lo status di rifugiato dal 5% a un massimo del 14% degli emigranti illegali che ne hanno fatto richiesta. Ad altrettanti, dal 5% al 14%, e stata concessa protezione sussidiaria: non sono profughi, ma si ospitano ugualmente temendo che possano per qualche ragione subire violenze se rimpatriati,

Non sono neanche poveri senza risorse, spinti dalla fame. Quasi tutti infatti si affidano a organizzazioni criminali di contrabbandieri di uomini per l’organizzazione del viaggio, senza di che rischierebbero ogni giorno di essere intercettati e arrestati dalle forze di sicurezza degli Stati che percorrono clandestinamente. Chi parte da Paesi africani paga i trafficanti migliaia di dollari, in media dall’africa subsahariana circa 4.500 dollari Dall’Asia alle coste europee il prezzo di un viaggio può salire a decine di migliaia di dollari.

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(*) Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione

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Sulla immigrazione:

Immigrazione usata come arma