La rivoluzione nel diritto dal 1789 ad oggi (note)

relazione alla Scuola di Formazione promossa da Alleanza Cattolica
La moderna crisi del diritto e dello stato

(Napoli, 18-21 aprile 2013)

di Giovanni Formicola

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NOTE

1) François Furet, Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Bari 1980, p. 205.
2) Probabilmente il primo ad usare tale endiadi per stigmatizzare la Rivoluzione nel diritto è stato Leone XIII (1878-1903), nell’enciclica Immortale Dei, dell’1 novembre 1885. La locuzione ricorre frequentemente nel corpus leoniano, cfr. Massimo Introvigne, La dottrina sociale di Leone XIII, Fede & Cultura, Verona 2010, in particolare pp. 84-90.
3) Secondo Carl Schmitt (1888-1985), uno dei più grandi giuristi e filosofi del diritto del XX secolo, di quel «fenomeno specificamente europeo», che è la scienza giuridica, «padre è il rinato diritto romano, […] madre la Chiesa di Roma» (Ex Captivitate Salus. Esperienze degli anni 1945-47, trad. it., Adelphi, Milano 1987, pp. 71-72).
4) Secondo Bodin, «la legge dell’età nuova appartiene alla dimensione della volontà e non della attività conoscitiva del Principe, è pertanto qualcosa di auto-referenziale, che si autogiustifica all’interno della psicologia del soggetto volente, identificandosi puramente e semplicemente con ciò che al soggetto piace» (Paolo Grossi, La legalità costituzionale nella storia del diritto moderno, Discorso all’Accademia dei Lincei, 11 giugno 2009).
5) Francesco Calasso Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, Giuffrè, Milano 1965, pp. 259-260.
6) Juan Vallet de Goytisolo, L’influsso della Rivoluzione francese sul diritto pubblico e privato attuale, relazione a convegno, inedita, p. 3.
7) Cit. in ibidem, p. 7. «[…] dalle viscere stesse di una nazione che aveva appena abbattuto la monarchia si vide uscire a un tratto un potere più esteso, più minuzioso, più assoluto di quello che mai fosse stato esercitato da uno dei nostri re» (Alexis de Tocqueville [1805-1859], L’antico regime e la rivoluzione, Einaudi, Torino 1989, parte prima, libro terzo, capitolo VIII,  p. 302)
8) «La teoria della sovranità illimitata del re in Francia […] aveva condotto alla lotta contro i diritti feudali – per lo meno sotto il loro profilo politico – in favore della sovranità assoluta. […] Questa tendenza […] trova […] durante la Rivoluzione la sua espressione più completa» (Bernard Groethuysen [1880-1946], Filosofia della Rivoluzione francese, il Saggiatore, Verona 1967, p. 290)
9) Cit. in A. de Tocqueville, op. cit., parte prima, libro primo, capitolo II,  p. 57.
10) P. Grossi, Discorso cit..
11) Cfr. Heinrich Rommen (1897-1967), L’eterno ritorno del diritto naturale, Studium, Roma 1965.
12) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it, presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009.
13) Va qui notato soltanto come, non avendo mantenuto le sue promesse, questo processo rivoluzionario si stia concludendo – essendo partito dall’esaltazione della potenza della ragione resa autonoma da qualunque autorità, finanche da quella del fatto – nella negazione alla stessa ragione di ogni possibilità non già di conoscere la verità, ma anche solo di pensarne l’esistenza (cfr. Lettera enciclica di Papa Giovanni Paolo II, Fides et ratio).
14) Jean Jacques Rousseau (1712-1778), Contratto sociale, IV, II. «Di fronte alle singole volontà individuali dominate dalle passioni, dall’istinto, dall’egoismo, la volontà generale, frutto del sottostante fondo comune, costituisce una volontà obiettiva, razionale, morale. È la più vera, la più profonda volontà dell’uomo, quella in cui l’uomo ritrova davvero se stesso e celebra la sua natura umana e razionale» (Giorgio Balladore Pallieri [1905-1980], Dottrina dello Stato, CEDAM, Padova 1964, p. 26).
15) Ibidem, p. 27 (la sottolineatura è mia).
16) Ibidem, p. 28.
17) Luigi Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 20 (le sottolineature sono mie).
18) «Il popolo […] era il nuovo monarca» (Paolo Viola, È legale perché lo voglio io. Attualità della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 129). «La rivoluzione francese […] si preparava a riprendere la frase di Luigi XVI: “È legale perché lo voglio io”. Solo che stava cambiando l’”io”, cioè il sovrano, che non era più il re ma la nazione» (Ibidem, pp. 33-34).
19) «Dal momento che il Popolo è il sovrano assoluto, Dio incarnato – una immagine che non è troppo forte – la sua volontà è il criterio supremo del Bene e del Male». (Jean Baechler, Prefazione a Augustin Cochin [1876-1916], Lo spirito del giacobinismo. Le «società di pensiero» e la democrazia: una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese, Bompiani, Milano 1981, p. 23).
20) «È un’ovvietà, per l’utopia, che l’antica religione, la quale in larga misura ha prodotto lo stato di cose superato, non funga più da guida nel mondo unificato. Al posto di Dio onnipotente […] si fa avanti il popolo onnipotente, gli attributi della divinità spettano ora al genere umano […]. Per la nuova umanità, la legge del vero sovrano, il genere umano, prende il posto di Dio: “La Loi bienfaisante remplacera un DIEU insignificant”» (Roman Schnur [1927-1996], Rivoluzione e guerra civile, Giuffrè, Milano 1986, pp. 69-70).
21) «Si contrappone alla “souverainité une et indivisible” del monarca assoluto la “souverainité une et indivisible” del genere umano. […] Di conseguenza, il nemico per l’utopia non è la sovranità in quanto tale, bensì la sovranità del signore monarchico. Ciò che importa non è quindi la protezione del singolo davanti alla sovranità o al potere in generale, ma che un altro domini in maniera assoluta: la verità e con essa il genere umano. Questo sovrano è però ancora più assoluto, se si può dire così, del sovrano assoluto del passato, perché è limite a se stesso, mentre quello conosceva ancora una responsabilità davanti a Dio. Il nuovo sovrano conosce come norme soltanto quelle poste dall’io nella sua assoluta libertà» (ibidem, pp. 70-71).
22) «È solo l’uomo che giudica, ma giudica su tutto, perché vuole essere signore di tutto; pertanto egli deve anche assumere la totale responsabilità. Il nuovo sovrano non conosce dunque alcuna barriera, il dominio della verità e della  morale è nel vero senso del termine sconfinato; per esso non vi sono spazi liberi dalla morale o almeno moralmente indifferenti, per altre opinioni qui non vi è alcun posto» (ibidem, p. 71).
23) «Il Codice napoleonico, al suo articolo 4, considerava colpevole di rifiuto di dare giustizia il giudice che si fosse rifiutato di giudicare adducendo silenzio, oscurità oppure insufficienza della legge […]. Il suo postulato fondamentale è il principio della sua completezza, poi riferita all’ordinamento giuridico positivo» (J.V. de Goytisolo, rel. cit., pp. 7-8).
24) «Il popolo […] rispettava le forme che si era dato, ma travolgeva gli ostacoli, e se trovava delle barriere al fluire della sua maestosa volontà, le distruggeva, cambiava le regole, le definizioni del suo ambito, in definitiva imponeva come “legale quello che voleva Lui”» (P. Viola, op. cit., pp. 129-130). In altri termini, come «riconosce» uno studioso marxista non «pentito», Luciano Canfora, in una sua riflessione sulla «democrazia radicale» nell’Atene del V secolo, che assimila alla «concezione giacobina della dittatura “in nome del popolo”», secondo questa «il popolo è al di sopra della legge e questa può anche essere “sospesa” – e finanche le garanzie giuridiche – se questo “giova al popolo”. Tratto inquietante del dottrinarismo giacobino, adoratore della “volontà popolare”, per cui la legge è solo uno strumento, non un valore in sé. All’origine, ovviamente, c’è Rousseau» (Luciano Canfora, La democrazia come violenza, in Anonimo Ateniese, La democrazia come violenza, Sellerio, Palermo 1982, pp. 59, 60-61).
25) Emanuel Joseph Sieyès (1748-1836), Che cosa è il terzo stato?, con in appendice il Saggio sui privilegi, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 63
26) François Furet e Mona Ozouf, Dizionario Critico della Rivoluzione Francese, Prefazione, Bompiani, Milano 1989, p. XI. «Nel 1793, per qualche mese, il processo tocca il culmine: sotto la finzione del “Popolo”, il giacobinismo si sostituisce contemporaneamente alla società civile e allo Stato. Attraverso la volontà generale, il popolo-re coincide ormai miticamente col potere, e questa convinzione è l’origine del totalitarismo» (F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, cit., p. 201. La sottolineatura è mia).
27) C. s. I, VII: «Il sovrano essendo formato dai privati che lo compongono non ha e non può avere interessi contrari ai loro; in conseguenza il potere sovrano non ha alcun bisogno di garanzie verso i sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri […]. La volontà generale è sempre retta e tende sempre alla pubblica utilità; la legge non può essere ingiusta, perché nessuno è ingiusto verso sé medesimo».
28) «Laddove la coscienza regna infallibile, ogni pensiero diverso non può che essere privo di coscienza e quindi anche di diritto. Di conseguenza, a questo pensiero nessun asilo appare necessario, nessuno spazio per l’emigrazione, dal momento che davanti al dominio della verità universale solo il suo nemico può voler fuggire, e questo non ha diritti, perché è amorale. […] Non esiste, per l’utopia, che ha il monopolio della verità, alcun diritto all’essere altrimenti» (R. Schnur, op. cit., pp. 71-72). Cfr. anche Josef  Pieper 81904-1997), Sulla fine del tempo, Morcelliana, Brescia 1953, p. 123.
29) «La differenza tra nemico e criminale viene soppressa, […] il nemico non merita di essere trattato come un uomo (“tout les ennemis de la liberté seront effacés de la liste des hommes”) […]. Solo cancellando questo nemico del genere umano il combattente per la pace si rivela nella sua qualità di filantropo, vero promotore dell’umanità»; «e infatti gli uomini vengono annientati solo in quanto portatori di idee» (R. Schnur, op. cit., p. 85). Non è difficile capire, a questo punto, il «perché» dei GULag e dei Lager di questo tragico e sanguinario secolo (cfr. Stéphane Courtois, «Perché?», in AA. VV., Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998, pp. 679-705).
30) «La nuova guerra, dice un oratore giacobino, è una guerra della nazione contro dei “briganti”. Ecco il termine che resterà a designare i nemici dell’umanità; in senso proprio, non si tratta di uomini. […] La nuova guerra è brutale […]. Essa erige a principio l’indegnità dell’avversario, come l’onore antico supponeva il suo valore. I nemici sono dei “mostri”, degli “animali feroci che cercano di divorare il genere umano”. […] “Colpisci senza pietà, cittadino”, dice a un giovane soldato il presidente dei giacobini, “colpisci tutto ciò che ha a che fare con la monarchia. Non deporre il tuo fucile se non sulla tomba di tutti i nostri nemici – è il consiglio dell’umanità”. È per umanità che Marat [Jean Paul, 1743-1793] reclama 260.000 teste. “Che mi importa essere chiamato bevitore di sangue!” grida Danton, “ebbene beviamo il sangue dei nemici dell’umanità, se è necessario!”. Carrier [Jean Baptiste, 1756-1794] scrive alla Convenzione che la “disfatta dei briganti è così completa che essi arrivano a centinaia ai nostri avamposti. Ho deciso di farli fucilare. Ne vengono altri da Angers, gli assegno la stessa sorte e invito Francastel a fare altrettanto…”» (A. Cochin, op. cit., pp. 190-191).
31) «Lo ius in bello, che Vitoria [Francisco de, 1483-86-1546] aveva fondato sulla rigida esclusione di ogni violenza inutile o eccessiva, e in particolare di quelle contro le popolazioni civili, perde […] ogni limite, essendo lecito […] ai belligeranti uccidere tutti coloro che si trovano in territorio nemico, incluse le donne e i bambini e perfino i prigionieri» (ibidem, p. 21). «In certe epoche, si è manifestata perfino la tendenza a trasformare l’arte della guerra a un gioco piuttosto convenzionale. La moderna arte della guerra data dalla rivoluzione francese; […] questa annullò di colpo le convenzioni sorpassate […] precedenti» (Victor Serge [1890-1947], L’Anno primo della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1991, p. 92).
32) Emerge presto «il senso estremamente preciso del termine rivoluzionario, […] termine dotato di “una potenza magica”, dice Mallet du Pan [Jacques, 1749-1800]. Si chiama rivoluzionario ogni atto e ogni decisione che emani direttamente dal sovrano [il potere popolare], e tutti quelli del regime delle società hanno questo carattere. Essi sono, come tali, al di sopra di ogni legge, di ogni giustizia, di ogni morale convenuta. Così esistono leggi rivoluzionarie che violano le prime regole della giurisprudenza, a esempio quelle della retroattività, e i diritti e le libertà più elementari. Così esistono massacri rivoluzionari e dunque legittimi; eserciti rivoluzionari che hanno come tali il diritto di entrare nelle case dei singoli, di farvi e di prendervi ciò che vogliono; una polizia rivoluzionaria che apre le lettere, ordina e paga la delazione; una guerra rivoluzionaria che è al di sopra del diritto delle genti» (A. Cochin, op. cit., p. 125).
34) F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, cit., p. 196. «A questo punto […] la società di pensiero diventa un partito politico, che teoricamente incarna la società e insieme lo Stato, in situazione di reciproca identificazione» (ibidem, p. 199): la «partitocrazia» ha radici antiche e profonde.
35) Cfr. P. Viola, op. cit., p. 118.
36) A. Cochin, op. cit., p. 89.
37) Ibidem, p. 91.
38) Come accadde all’epoca della Rivoluzione: «con un gioco di prestigio sconcertante per la sua facilità, il piccolo popolo delle società di pensiero si era sostituito al popolo reale e si presentava a Versailles come il suo legittimo rappresentante. L’avanguardia del proletariato incarnava la volontà profonda e autentica del proletariato o, come si diceva allora, la volontà generale aveva trovato il suo organo» (J. Baechler, Prefazione, cit., p. 31).
39) Ibidem, pp. 32-33.
40) «A dire il vero, la tirannia del Piccolo Popolo sul grande è diventata così evidente che esso stesso rinuncia a negarla. La “mancanza di uomini” è la sua maggiore preoccupazione […]; scrive […] per chiedere […] “una colonia di patrioti […] su questa terra straniera” in cui i patrioti sono “in una situazione di minoranza spaventosa” […]. Non c’è città che non venga descritta dal suo club come una Sodoma e su cui non si invochi il fuoco del cielo, l’armata rivoluzionaria, la ghigliottina. Si condanna a morte un villaggio come un uomo […]. Del resto i puri sarebbero turbati se avessero dalla loro parte il numero; si sentirebbero meno puri. È noto il famoso motto di Robespierre [Maximilien de, 1758-1794], “la virtù è minoranza sulla terra” […]. Nella piccola Città si conviene a questo punto che una società numerosa non potrebbe essere una società rivoluzionaria» (A. Cochin, op. cit., pp. 129-130).
41) «Tutte le differenze debbono essere eliminate, altrimenti non si perviene alla vera unità. Ma ciò significa anche che tutte le istituzioni esistenti saranno eliminate […]; di conseguenza si deve tendere al “nivellement final”. […]: il divenuto storico […] deve far posto, in quanto contro-natura, all’unità. Cloots [Jean Baptiste du Val de Grace, barone di, 1755-1794] [sosteneva che] “La république universelle remplacera l’église catholique, et l’assemblée nationale fera oublier les conciles écoumeniques; l’unité de l’état vaudra mieux que l’unité de l’église”. […] L’unità politica produrrà ogni bene. Si spodestino le frazioni sociali, e si vedrà la totalità, il despota par excellence, la legge universale, realizzare le favole dell’età dell’oro. È questo il dominio del genere umano. […] Una volta instaurata l’unità, il problema politico apparirà risolto, in quanto la politica verrà abolita. Essa ha infatti, nella concezione degli utopisti, il suo fondamento nel fatto che l’uomo ha rinnegato la natura, è diventato moralmente cattivo, al punto che ciascuno è nemico di ciascuno. Nel mondo unificato, invece, la politica diventa obsoleta, perché il suo fondamento è eliminato. Regnerà pertanto la pace mondiale totale» (R. Schnur, op. cit., pp. 66-68).
42) F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, cit., p. 208.
43) A. Cochin, op. cit., p. 126.
44) Ibidem, p. 148. Così prosegue Cochin: «Il codice dei Diritti dell’Uomo conviene soltanto ai cittadini del mondo del pensiero, non agli abitanti del mondo reale. Nel mondo reale, la patria giacobina sarà sempre in pericolo, costretta di conseguenza a usare la violenza per conservarsi: al primo abbandono della sorveglianza e della costrizione, la folla tornerebbe da sola agli “interessi particolari”, cioè a quelli della vita reale»: «Tirannia di fatto al servizio della libertà di principio: ecco tutta la Rivoluzione» (ibidem).
45) Ed invero, se la «volontà generale» si esprime in forma di legge, la sanzione comminata agli oppositori non può essere inflitta che attraverso le forme del processo, concepito quindi come strumento dell’azione rivoluzionaria.
46) Ibidem, pp. 125-126. «La vicenda del governo rivoluzionario, passato alla storia col nome di “Terrore”, quello vero, comincia all’inizio di marzo 1793, quando la giustizia popolare sovrana aveva ormai esaurito la sua spinta […]. Furono creati allora gli ingranaggi fondamentali […]. Questi ingranaggi furono il tribunale rivoluzionario, una magistratura d’eccezione, competente per tutto il territorio nazionale, in grado di giudicare senza appello i delitti contro la rivoluzione, e di comminare (sic) come unica pena la morte, e i comitati rivoluzionari, o comitati di vigilanza, che dovevano esercitare capillarmente il controllo del territorio in ogni quartiere cittadino o in ogni piccolo comune» (P. Viola, op. cit., pp. 106-107).
47) Salvatore Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, pp. 11-14.
48) Ibidem, pp. 18-21.
49) L. Ferrajoli, op. cit., p. 20.
50) Ibidem, pp. 22-23.
51) Gustav Radbruch (1878-1949), Rechtphilosophie, 1950, p. 347
52) Hans Kelsen (1881-1973), Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano 1954, p. 114.
53) Rudolf von Jhering (1818-1892), Der Zweck im Recht, vol. I, Lipsia 1882, p. 318, cit. in Reginaldo M. Pizzorni O. P., Filosofia del diritto, Pontificia Università Lateranense-Città Nuova, Roma 1982, p. 152. Il beato Giovanni Paolo II ricorda, invece, che è Stato di diritto quello in cui «è sovrana la legge, e non la volontà arbitraria degli uomini» (Centesimus Annus, n. 44), con chiaro riferimento ad una legge superiore che non è in potestà dello Stato ignorare, modificare, contraddire.
54) F. Furet e M. Ozouf, op. cit., p. XIII.
55) Cfr. Estanislao Cantero Núñez, Il realismo giuridico di J. Bms. Vallet de Goytisolo, trad it., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2011.
56) Hugo von Hoffmannsthal (1874-1929), Das Schrifttum als geistiger Raum der Nation (1926), cit. in Damir Barbarić, Presentazione a H. von Hoffmannsthal, La rivoluzione conservatrice europea, Marsilio, Venezia 2003, p. 22.
57) C. Schmitt, op. cit., p. 75.
58) Ibid., pp. 75-77.
59) Questo il titolo – felicemente e sinteticamente descrittivo del senso della decisione della Cassazione – di un dottissimo e puntuale articolo del professor Francesco Gazzoni, pubblicato in Diritto di famiglia e delle persone, n. 1/2008, pp. 107-131, dal quale mi pare utile trascrivere che «il magistrato dovrebbe praticare quotidianamente la virtù dell’umiltà, per sconfiggere tendenze narcisistiche e esibizionistiche, talvolta con sconfinamenti nel delirio di onnipotenza. Il magistrato […] dovrebbe fare propria l’affermazione dell’Ovidio di Tristia, secondo cui Bene qui latuit, bene vixit [«Chi bene si è nascosto, bene ha vissuto»], […] e non già, assumendo provvedimenti clamorosi, aspirare alla notorietà, ad essere citato, ad occupare gli schermi televisivi e la carta stampata, dando sfogo al proprio Ego ipertrofico. Non diversamente, non vi è niente di peggio del giudice che va alla ricerca di un preteso diritto “giusto” o “umanitario” che dir si voglia, un giudice che ritiene di avere una missione da compiere, piuttosto che doversi limitare ad applicare con umiltà la legge, per quel che essa, piaccia o non piaccia, dispone. In tal modo l’umanità o l’aequitas cui egli pretenderebbe di ispirarsi è quella canonica, per l’identificazione di sé con il Creatore (Nihil aliud est aequitas quam Deus) [«L’equità non è nient’altro che Dio stesso»], identificazione che il giudice “missionario” opera inevitabilmente, reputandosi legibus solutus e dunque creatore egli stesso di leggi, secondo la propria arbitraria volontà» (pp. 130-131).
60) «[…] come se, sposata l’idea di una “sapienza professionale vincolante”, la giurisprudenza […] si fosse trasformata in una versione […] del judge made law» (C. Schmitt, La tirannia dei valori. Riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori, Introduzione all’edizione del 1960, trad. it. Adelphi, Milano 2008, p. 17).  
61) «[…] a porre i valori è […] l’individuo umano nel suo totale libero arbitrio puramente soggettivo» (ibid., p. 50)