America Latina, fu vera evangelizzazione?

americhe_conquistaStudi Cattolici n.624 febbraio 2013

Si è molto discusso, e non solo recentemente, sulla natura dell’evangelizzazione dell’America. Non manca chi la vede come un’imposizione straniera che avrebbe sottratto agli indigeni i culti ancestrali; oppure come una sostituzione dei contenuti religiosi senza che ciò comportasse una vera conversione a Cristo; altri invece vedono una deriva sincretista presente fin dall’inizio. Per contro ci sono le testimonianze degli stessi evangelizzatori – e la storia dei fatti – a sostenere il contrario. La realtà è che il processo di cristianizzazione fu assai variegato, data la reale differenza tra le diverse etnie autoctone. Martìnez Ferrer, docente presso la Pontificia Università della Santa Croce, analizza il fenomeno.

Luis Martìnez Ferrer

Se per «identità culturale» intendiamo «l’insieme di tratti che permette a un gruppo di riconoscersi nella propria originalità e di essere percepito dagli altri come diverso» (1), è chiaro che negli ultimi duecento anni il processo di costruzione dell’identità latinoamericana è stato molto articolato. Ma qui vogliamo partire semplicemente dal considerare l’Iberoamerica una grande regione meticcia.

Il meticciato ha inizio molto prima dell’arrivo degli europei, ed è forse più intenso nella cosiddetta America nucleare (Mesoamerica e l’Incario), rispetto all’America intermedia (Colombia, Equador) e, a maggior ragione, in riferimento all’America marginale (popolazioni del Nord del Messico e del Sud degli attuali Stati Uniti, del Brasile ecc.). Nell’America nucleare per millenni ci furono scambi tra gruppi umani di diverse razze. Con lo sbarco degli spagnoli e dei portoghesi il processo di meticciato si intensificò e sperimentò un cambio qualitativo, al quale si aggiunse più tardi l’apporto di schiavi africani in Brasile e in altre zone come i Caraibi, Messico, Colombia ecc. Saranno i meticci a diventare col tempo la colonna dei nuovi Paesi.

Il vero significato di questo meticciato è un tema controverso. Riferendosi al Perù, l’editorialista di una rivista di Arequipa commenta: «II Perù sorse come una nuova realtà e si costituì a partire dalla sintesi dell’eredità spagnola e indigena. Anche se in alcuni aspetti e in alcuni momenti le due realtà si sovrappongono sincreticamente, maggiore è stata la dinamica integratrice e riconciliatrice che ha forgiato una sintesi culturale meticcia che unisce entrambi i legati» (2).

Sono in molti a non trovarsi d’accordo con questa visione «d’integrazione» e insistono sul predominio della differenza. Il nostro autore arequipeno comunque continua: «II Perù è una realtà meticcia. Non si tratta di una giustapposizione di culture, come diceva il messicano Leopoldo Zea in riferimento a tutta l’America Latina, ma di un meticciato o una “sintesi vivente”». A partire da un pensiero di Victor Andrés Belaùnde l’editorialista si riferisce a una «sintesi incompiuta e in svolgimento […], ma totalmente reale». In definitiva la domanda è: la prima evangelizzazione è riuscita a penetrare nelle anime degli indigeni, o ha soltanto sfigurato le loro culture?

Tra evangelizzazione & culture

Qual è stato il rapporto della prima evangelizzazione con le culture indigene? Si tratta di una questione formalmente storica, teologica e antropologica, ma che porta con sé una carica pastorale, culturale, persine affettiva, di enorme rilevanza per l’attuale America Latina. «I popoli devono volgere lo sguardo agli eventi fondanti […] della loro storia per comprendere la propria identità» (3), hanno ribadito recentemente i vescovi messicani. Per questo si tratta di una domanda cruciale perché, dalla sua risposta, dipenderà in qualche misura l’impostazione dell’odierna pastorale indigena, e non solo. Semplificando al massimo, segnaliamo tre interpretazioni:

a) la posizione «trionfalistica» sottolinea senza sfumature il fondamento cattolico dei popoli latinoamericani, originato da una prima evangelizzazione efficace e profonda, pienamente riuscita;

b) la posizione «della resistenza» sostiene che l’evangelizzazione fu un’imposizione esterna che non attecchì nelle popolazioni americane, le quali continuarono a praticare nel loro cuore i riti ancestrali;

c) la linea che si potrebbe chiamare «dell’umiltà storiografica», delle sfumature realistiche, che non rinunciano a coniugare i dati storici con le istanze teologiche e antropologiche; essa cerca di capire fino a che punto la fede cattolica fu interiorizzata dagli indigeni.

Quest’ultima è, a nostro avviso, l’unica via percorribile, ma anche la più impegnativa. Va notato che la fede cattolica personale dello studioso può diventare, se si agisce con buon senso e con rispetto verso le fonti, un valore aggiunto assai utile nella lettura dei dati storici.

La corrente che abbiamo chiamato «trionfalistica» è facile da controbattere, benché continui a essere presente in alcuni discorsi istituzionali o accademici. A mio parere si tratta di una posizione autoreferenziale, eccessivamente segnata da atteggiamenti difensivi. A questo riguardo, per esempio, non si può considerare trionfalista Giovanni Paolo II quando parla della prima evangelizzazione dell’America Latina.

Nei suoi giudizi si può rilevare un profondo rispetto, quasi una venerazione, per la verità storica, pur riconoscendo le mancanze nell’opera missionaria. Non cade in facili manicheismi fra politica e Chiesa, e tanto meno nasconde gli errori commessi. Ma tutto questo non diminuisce la sua positiva valutazione dell’evangelizzazione fondante, ove furono «luci e ombre», ma «più luci che ombre, se pensiamo ai frutti duraturi di fede e di vita cristiana nel Continente» (4). È interessante l’attenzione ai «frutti di vita cristiana», non sempre considerati dagli studiosi.

Un panorama geopolitico i molto articolato

Veniamo alla seconda posizione. È universalmente ammesso che il rapporto tra fede e cultura nella prima evangelizzazione dell’America Latina presenta grande complessità  (5). Intanto occorre distinguere gli àmbiti geopolitici. Sin dall’inizio, il processo nella Nuova Spagna (semplificando, l’attuale Messico) e nel grande Perù sono diversi, e lo è ancora di più il percorso brasiliano.

La Nuova Spagna godeva, nella grande regione dell’altipiano centrale, di un clima mite e di una conformazione priva di grandi ostacoli naturali ed era poi ben collegata con la penisola iberica. Il processo di conquista fu, per quanto riguarda la zona centrale, relativamente breve. I movimenti di resistenza non furono maggioritari. Le élite autoctone, dopo la conquista, accettarono la soggezione alla corona e alla fede. Il popolo ne seguì l’esempio.

Molteplici sono le ragioni della veloce conversione: il vuoto spirituale negli indios dopo il trauma anche culturale della conquista, i contenuti non aggressivi della nuova religione, la connessione con la loro profonda religiosità ancestrale, l’esempio di virtù e di solidarietà dei primi missio-nari e il loro impegno nella difesa dei diritti dei nativi ecc. Il risultato, alla fine del XVI secolo, fu probabilmente una religione in parte ancora ibrida, ove la maggioranza degli indios era sinceramente cattolica e sinceramente seguace delle antiche pratiche (6).

Difficile da valutare la rilevanza dei «falsi cristiani», per i quali il Vangelo era un qualcosa di superficiale. Non si può nemmeno escludere che ci siano stati indios con una fede integra e interiore, come Juan Diego Cuauhtlatoatzin, figura di grande importanza nell’irradiazione del messaggio della Madonna di Guadalupe, uno dei perni della spiritualità messicana.

Significativa in proposito è stata la testimonianza del missionario domenicano Diego Duràn ( + 1588), che nella sua Historia de las Indias de Nueva Espana e Islas de Tierra Firme racconta il dialogo con un indiano azteco. La conversazione ebbe origine da un rimprovero che il missionario aveva fatto all’indiano, a causa della sua incoscienza: dopo aver tanto faticato a raccogliere i soldi per il suo matrimonio, li aveva spesi tutti per invitare l’intero paese alla festa di nozze.

La risposta dell’indigeno fu: «Padre, non ti meravigliare, noi siamo ancora nepantla». Duràn sapeva benissimo che la parola nahuatl nepantla significava «in mezzo», ma voleva capire con esattezza che cosa intendesse l’azteco. La conclusione del missionario fu: «Dal momento che essi [gli indios] non erano ben radicati nella fede, non ci si doveva meravigliare del fatto che fossero ancora neutri […], credendo in Dio e allo stesso tempo praticando i costumi antichi e i riti del demonio». Questo racconto ci mostra come, alla fine del XVI secolo, gli stessi indios erano consapevoli di non aver recepito integralmente il cristianesimo. Tuttavia non vedo una connessione diretta tra la condotta eccessivamente prodiga dell’indigeno e il sincretismo; il testo di Duràn è molto interessante ma non privo di mistero (7).

Secondo Jaime Lara, sarà all’inizio del Seicento che le popolazioni indigene, soprattutto quelle in costante contatto con le città spagnole, diventeranno veramente cristiane. Per dirla con questo autore, in questo periodo si entra in un secondo livello della storia sociale e spirituale, dove «le parole e i concetti spagnoli di tipo religioso, così come i santi cristiani, erano penetrati profondamente nei nahuas, che non li consideravano più come strani e imposti […]; i templi e le antiche e crudeli cerimonie, erano soltanto ombre di un passato appena ricordato da pochi indigeni come qualcosa di imbarazzante» (8).

Secondo questa interpretazione – non condivisa da tutti -, verso la fine del Cinquecento il fenomeno della «piena» conversione divenne prevalente. Generazioni di nativi nascevano e morivano abituati a recitare le formule dei catechismi, a pregare con i loro rosari, a portare la croce nelle processioni, a danzare nella festività del Corpus Domini, a confessare i loro peccati in Quaresima, a ricevere regolarmente la Comunione.

Perù, Cile & Brasile, tre casi esemplari

Nel Perù il processo di evangelizzazione avvenne più lentamente. La catena delle Ande poneva enormi difficoltà alle comunicazioni, pur tenendo conto degli incredibili ponti che la sapienza tecnica indigena aveva distribuito lungo le montagne. L’isolamento di molte comunità della sierra era la norma. La regione soffri inoltre il lacerante fenomeno delle guerre civili, che impedì a lungo l’integrazione sociale. Soltanto nel 1550 iniziò metodicamente l’evangelizzazione, con vent’anni di ritardo rispetto a quella del Messico. I gesuiti, a partire dagli anni Sessanta, diventarono uno dei gruppi missionari più importanti, con figure della portata di José de Acosta (1540-1600).

Nelle montagne, la religiosità popolare si esprimeva soprattutto nel culto della Madre Terra (Pacha Marna) e degli spiriti protettori delle montagne (Apus e Wamanis). Lungo la costa, invece, la conformazione orografica più clemente permise una più facile ricezione del messaggio evangelico da parte di popolazioni più numerose e consolidate rispetto a quelle della sierra. Da Santa Fé de Bogotà fino a Quito, e giù verso Arequipa e oltre ancora, i missionari lottarono per desacralizzare la Pacha Marna.

Per l’antropologo Manuel Marzal, il risultato di questi sforzi missionari fu che, verso la seconda metà del Seicento, «la maggior parte della popolazione peruviana, non soltanto era stata battezzata, ma aveva accettato la nuova religione, in modo tale che il Paese ebbe la maggior trasformazione religiosa della sua storia» (9). Approfondendo tale affermazione questo autore segnala che gli andinos, considerati nell’insieme, accettarono i nuovi parametri «di credenze, riti, forme di organizzazione e norme etiche di origine cristiana, anche se non sempre allo stesso modo, né con la stessa intensità in tutte le etnie».

Inoltre, sottolinea sempre Marzal, nel Sud delle Ande predominò l’integrazione del vecchio sistema religioso con il cristianesimo, «costituendo un sistema più o meno sincretico». Si può affermare con sicurezza che il sincretismo fu molto più alto nell’Incarto rispetto alla Nuova Spagna, tenendo sempre presente il divario costa-sierra nel Perù. In ogni caso, nel complesso le fonti storiche mostrano che una gran parte degli indios si incorporò con vera sincerità alla fede cattolica, mentre gradualmente si integrava nella vita amministrativa e burocratica del vicereame. Molti documenti dimostrano che i veri problemi degli indigeni erano principalmente di tipo giuridico, sociale, economico, e non di violenza religiosa, come si constata, per esempio, nelle molte cause che gli indios facevano presso le istanze giudiziali del vicereame, per protestare contro diverse ingiustizie (10).

Un caso diverso è quello delle regioni dell’estremo Sud cileno, dove si sperimenta un divario tra l’evangelizzazione più riuscita in area costiera e nelle grandi isole come Chiloé, e quella dell’Arance dove gli indiani Mapuches e altri gruppi furono capaci di tener testa alle milizie spagnole durante l’intero periodo coloniale, e la cristianizzazione penetrò con molta difficoltà.

In Brasile grandi figure accompagnarono tutto il processo di evangelizzazione, come il beato José di Anchieta (1534-1597), o il poliedrico Antonio Vieira (1608-1697), entrambi gesuiti. La situazione politica era diversa, e la presenza di potenze cattoliche non portoghesi, come la Francia, facilitò, almeno per un periodo, l’ingresso di frati cappuccini, che arrivarono in alcuni casi a stabilire un vero dialogo religioso con i nativi tupi del Maranhào, come racconta Yves d’Evreux (1557-1650) (11).

Ma torniamo alla domanda principale: ci fu un processo d’inculturazione della fede nella prima evangelizzazione dell’America? Ovvero, si verificò un’incarnazione del Vangelo nelle culture americane e l’incorporazione di esse nella vita della Chiesa universale?

A mio parere, nell’intero territorio americano durante il Cinquecento non si trova un fenomeno d’inculturazione parallelo a quello guadalupano. Riscontriamo in alcune metodologie missionarie tendenze all’adattamento dei metodi missionari al modo di essere indigeno. Di questo lavoro rende testimonianza una ricca letteratura di tipo linguistico, storico o catechistico: vocabolari, grammatiche, storie, catechismi, guide per confessori, raccolte di sermoni ecc.

Era lo sforzo di penetrare nel mondo interiore degli indigeni per far loro accogliere pienamente il Vangelo. Come diceva Marzal per il Perù, nell’intera America va tenuto conto della regione e della modalità peculiare del processo evangelizzatore onde poter fare una valutazione che non cada nelle semplificazioni.

La tesi della resistenza

La «resistenza degli indigeni» è diventata ormai un termine tecnico. Una qualche resistenza è innegabile, soprattutto all’inizio della conquista (12). Lo stesso dicasi del sincretismo, fenomeno spirituale e psicologico ampiamente documentato, e tuttora presente tra molti indigeni. Nell’Incario, per esempio, è stato scoperto qualche anno fa un Confesionarìo [manuale del confessore] pagano del XVI secolo dove il redattore, probabilmente un leader religioso andino, basandosi sulla struttura dei manuali cattolici ne confezionò uno pagano, con i corrispettivi peccati, tra cui quello di avere contatti con gli spagnoli (13).

In sintesi, il problema non è tanto il sincretismo in sé, ma il suo consolidarsi nel tempo. Tale fatto significherebbe la sconfitta dell’evangelizzazione, non compatibile con una religione con forti accenti fatalistici e frutto di un amalgama di elementi mitici, come quella presente tra i mesoamericani, e nell’Incario, prima dell’arrivo degli europei. D’altra parte, è pur vero che non sempre l’opera di cristianizzazione arrivò alla piena valorizzazione di molti tratti culturali indios, che potevano essere visti come praeparatio evangelica.

A tale proposito bisogna dire che gli evangelizzatori agirono in senso «negativo» rispetto agli orientamenti della Teologia India, di cui parleremo in seguito: volevano raggiungere il profondo dell’anima india neutralizzando qualsiasi elemento incompatibile con il cristianesimo.

Teologia India e prima evangelizzazione

Negli ultimi decenni del XX secolo si è sviluppata in America latina una corrente chiamata Teologia India (14). Dal punto di vista teologico non si tratta di «una riflessione particolare e specifica, ma piuttosto di un mondo complesso, con diverse sfumature e diverse accezioni» (15). Nella Teologia India convivono elementi più o meno «moderati» con altri piuttosto «radicali», alcuni di essi addirittura non cristiani, i quali considerano l’opera di evangelizzazione in America come un’imposizione intollerabile che portò alla distruzione delle religioni pre-ispaniche, vero sostegno dell’identità indigena. In questa linea, alcuni movimenti estremi auspicano un ritorno alle religioni pre-ispaniche, senza escludere gli aspetti violenti.

Altri, in una linea moderata e all’interno della Chiesa cattolica, intendono arrivare a un «accordo» tra le culture indigene e il cristianesimo, cercando di evitare l’etnocentrismo. Questa è la linea più generale della Teologia India, anche se all’interno di essa non mancano sfumature diverse. Invece di definire che cos’è la Teologia India possiamo descriverla, partendo dalle riflessioni di mons. Felipe Arizmendi, vescovo di San Cristóbal de Las Casas, nella sintesi degli incontri di «Pastoral indìgena y Teologìa India» tenutisi nel 2002 a Oaxaca (México) e Riobamba (Equador): «II Signore Gesù Cristo, Verbo incarnato, ci conceda i doni del suo Spirito, affinchè scopriamo la sua presenza nei nostri popoli originari, offriamo loro la pienezza della sua manifestazione affinchè vivano il mistero pasquale e raggiungano la vita degna che Dio Padre vuole per tutti».

Abbiamo qui, mi pare, gli elementi essenziali della ricchezza della Teologia India nella Chiesa: partire dai valori presenti nelle culture indigene per dar loro compimento nella rivelazione del Dio cristiano, uno e trino. Non possiamo in questa sede addentrarci nella galassia della Teologia India, ma è possibile accennare ad alcuni aspetti che si riferiscono alla prima evangelizzazione. Per alcuni si trattò di un modello non valido, quello che possiamo chiamare un modello «no», in contrasto con un modello «sì» da proporre oggi: un sistema di alleanza con le culture ancestrali, con i loro valori religiosi, con i loro semina Verbi.

A questo proposito è interessante la posizione di Eleazar Lopez Hernàndez, sacerdote messicano zapoteco, uno dei rappresentanti più noti della Teologia India. In uno scritto del 1999 affermava: «All’arrivo degli europei nel continente Anahuac, Tahuantinsuyu o Abya Yala, chiamato adesso “America”, le possibilità di incontro del mondo europeo cristiano con il mondo indigeno “pagano” erano abbastanza propizie. E questo per due motivi: non soltanto perché i nostri popoli anelavano profondamente al ritorno di Quetzalcoatl, ma perché avevano elaborato schemi culturali e religiosi che permettevano l’interrelazione di popoli diversi. Nei nostri nonni c’era la coscienza che esistevano molte modalità per capire la vita e per capire Dio, che potevano sommarsi in insiemi polisintetici» (16).

In questo e in altri scritti l’autore sottolinea una comune identità del mondo indigeno del continente, che indica con diversi nomi alternativi a quello di America.

Quetzalcoatl & Wiracocha, i miti della speranza

Come abbiamo visto, Lopez Hernàndez segnala la speranza dei popoli indigeni nel ritorno di Quetzalcoatl; esisteva, aggiungiamo, un analogo fenomeno nell’Incario sotto il nome di Wiracocha. Erano miti di speranza, di fiducia nel ritorno di un eroe scomparso, più o meno divinizzato, che sarebbe tornato a portare la felicità. Come non vedere in questi miti una possibile preparazione provvidenziale all’accoglienza del Vangelo in America?

Lopez Hernàndez va oltre: afferma che la saggezza degli antenati aveva creato una sorta di piattaforma d’integrazione religiosa, dove tutte le credenze potevano confluire in una sintesi, nell’ambito di una specie di indifferentismo mistico, di tipo orientale. In realtà questo tipo di saggezza pre-ispanica non era in una situazione ottimale: coesisteva con sistemi politici socialmente ingiusti dove non mancavano manipolazioni sanguinose delle religioni per fini di espansione imperialista.

Più che puntare su questi circoli polisintetici, si dovrebbe far leva sui veri semina Verbi, che si trovano nelle manifestazioni di religiosità genuina, come per esempio nella letteratura poetica texcocana e in autori come Nezahualcoyotl (1402-1472), che cercava l’amicizia con l’unico Dio, Ipalnemouani, il Datore della vita. Riprendiamo il testo di Lopez Hernàndez. «Il Dio cristiano poteva sedersi, senza nessun problema, sul petate (tappeto) religioso dei nostri popoli. Perché era perfettamente compatibile con le nostre credenze ancestrali. […] Tuttavia, da parte degli europei non ci fu lo stesso atteggiamento dialogante.

L’aver vinto la guerra dava loro la certezza che il loro Dio era l’unico Dio vero. E di conseguenza il Dio indigeno doveva essere annichilito». Il brano, di grande forza retorica, rimane però problematico a livello storico e teologico. In primo luogo, il modo di fare il paragone tra il Dio cristiano e il petate (tappeto) religioso «dei nostri popoli» fa pensare a un’antecedenza delle credenze ancestrali sul «Dio cristiano»; secondo l’autore, è il «Dio cristiano» che deve salire sul petate (tappeto) pre-ispanico, e sedersi come un ospite. Da parte degli americani, l’ospite poteva sedersi «perché era perfettamente compatibile con le nostre credenze ancestrali», ribadendo ulteriormente l’antecedenza delle culture ancestrali sul «Dio cristiano».

C’è da domandarsi: si può affermare che il Vangelo fosse perfettamente compatibile con le credenze ancestrali senza forzare sia il kerygma evangelico sia le stesse credenze ancestrali? Si può pensare che, senza negare forti parallelismi in certi aspetti, non è ammissibile mettere in un’unica tipologia religiosa le credenze ancestrali tradizionali dell’America. In verità si conoscono abbastanza bene le dissomiglianze tra le differenti regioni culturali e la molteplicità di manifestazioni religiose presenti in ognuna di esse, difficili da accordare in un unico sistema religioso.

Il che non vuoi dire che non si possano individuare alcuni aspetti generali comuni, molto importanti: in primo luogo la religiosità «mitica», che implica l’alienazione della persona singola, incapace di superare le passioni e le forze della natura.

Religiosità «mitica» che porta alla creazione di divinità e potenze spirituali alle quali si indirizzano riti di scongiuro. Una religiosità che spesso confluisce nell’accentramento del potere politico. Nessuno mette in dubbio però – così fecero tra l’altro molti missionari della prima ora – che nelle culture ancestrali americane non mancassero tratti genuinamente religiosi — semina Verbi — che aspettavano il completamento cristiano, come per esempio la generosità nell’offrire sacrifici personali agli dèi, la tendenza al monoteismo in alcuni circoli di saggi, le virtù famigliari e sociali, la giustizia nel lavoro, l’ospitalità, la creatività artistica ecc.

Ma non si può neanche negare che sussistevano molti elementi da purificare, sia a livello religioso sia umano, come l’ambiguo rapporto religioso con la terra (Pacha Marna) e con gli spiriti intermedi, la poligamia, le devianze sessuali, la sepoltura di mogli e schiavi con il marito defunto, la crudeltà, i sacrifici umani.

In tale contesto è utile considerare il seguente brano di padre Eleazar, riguardo all’accettazione del Vangelo da parte degli indios: «Ci furono alcuni nelle comunità indigene che interiorizzarono le conseguenze dell’evangelizzazione intollerante. E accettarono di seppellire per sempre le loro antiche credenze, al fine di sopravvivere all’ecatombe della conquista». In seguito è ancora più esplicito: «Questa distruzione del mondo indigeno, all’inizio della prima evangelizzazione, ebbe anche per la Chiesa disastrose conseguenze, giacché allora perse la possibilità d’inculturarsi nell’ambiente indigeno».

Siamo qui arrivati, credo, al nucleo del pensiero di Lopez Hernàndez sul nostro tema. L’evangelizzazione, che è un processo teologico di annuncio della Parola e di chiamata alla conversione, per lui fondamentalmente è un’altra cosa: è sedersi aproblematicamente sul petate (tappeto) delle credenze ancestrali. È accettare di essere un ospite che dialoga, magari che offre dei regali, ma soprattutto che ascolta, che conversa. Un’evangelizzazione che annunzia eventi storici, che non trascura la chiamata alla conversione, al cambiamento, al riconoscimento del peccato per ricevere la liberazione è, in quest’ottica, qualcosa di intollerante. E la migliore risposta a questo atteggiamento è la resistenza.

La conversione è quasi una resa, un tradimento della propria identità. La prima evangelizzazione è, in definitiva, un modello «no», un modello anti-inculturazione. E di conseguenza, con le parole di Lopez Hernandez, «la sfida attuale della Chiesa è mostrare che con la nuova evangelizzazione è possibile superare l’intolleranza della prima»: dev’esserci un nuovo modello «sì» attuale che cancelli il modello «no» della prima evangelizzazione. In tale contesto, è vero che oggi non è proponibile un annuncio del Vangelo senza un’attenzione per i valori culturali e religiosi dei popoli. La Chiesa cattolica è da tempo impegnata lungo questa linea, anche se – a ben vedere – la tensione verso quella che oggi chiamiamo inculturazione proviene dall’evento della Pentecoste.

Ma oggi, più che mai, la comprensione della storia delle popolazioni locali è fondamentale per gli operatori pastorali, i quali dovranno cercare sempre di appurare la verità dei fatti storici, senza modelli pregiudiziali, senza cadere in una logica oppressori-oppressi, meccanismi che non giovano alla ricerca della verità, e che conducono a forzature di tipo trionfalistico o demonizzante.

Forse un criterio positivo può essere quello di considerare che l’inculturazione, pur necessaria, sia un aspetto subordinato, secondario, al servizio dell’evangelizzazione. L’inculturazione ha quindi senso se la si riferisce all’evangelizzazione. Quando viene separata dall’evangelizzazione, l’inculturazione perde le proprie coordinate, e diventa una priorità che fa saltare gli equilibri: la cultura si mette al centro, al di sopra della persona stessa.

Al riguardo, può essere sostenuto che l’evangelizzazione dell’America «diede luogo a una nuova sintesi» (17), un meticciato a più livelli, che recava una nuova visione del cosmo e dell’essere umano, radicata nella fede cristiana. La prima evangelizzazione si può considerare, dunque, un contributo di identità, perché ha animato e continua a vivificare tutte le culture latino-americane attraverso un humus cattolico, che è sopravissuto nel corso degli ultimi cinquecento anni.

Note

1) Hervé Carrier, Dizionario della cultura. Per l’analisi culturale e l’inculturazione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vati-ano 1997, p. 222.

2) In «Persona y cultura», 4/4 (2005), p. 7.

3) Lettera Pastorale dei Vescovi Messicani, Conmemorar nuestra historia desde la fé, para comprometernos hoy con nuestra patria (1 settembre 2010), n. 8.

4) Giovanni Paolo II, Lettera ai religiosi e alle religiose dell’America (26 giugno 1990), n. 8.

5) Raccomandiamo Ricardo Acosta Nassar – Luis Martinez Ferrer, Inculturación: magisterio de la Iglesia y documentos eclesiàsticos, Promesa (Teologìa 5), San José, Costa Rica 2011, 2a ed. (la: 2006). In particolare la mia Introducción generai. Enraizamineto y universalidad. La belleza del reto de la inculturación, pp. 29-95.

6) Così la pensano Pedro Borges per tutta l’America e Robert Ricard per l’area messicana: Pedro Borges Moràn, Métodos misionales en la cristianización de America, sigio XVI, CSIC (Departamento de Misionologìa Espanola), Madrid 1960, pp. 521-525; Robert Ricard, La conquista espiritual de México: ensayo sabre el apostolato y los métodos misioneros de las órdenes mendicantes en la Nùeva Espana de 1523-1524 a 1572, Fondo de Cultura Econòmica, México 1986, pp. 387-407.

7) Cfr una riflessione sulla questione del nepantla in Jaime Lara, Chrìstian Texts or Aztecs. Art and Liturgy in Colonia! México, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 2008, p. 258. Dal punto di vista antropologico è importante José Rubén Remerò Galvàn, «“Padre no te espantes, pues todavia estamos nepantla”. La evangelización como experiencia indigena», in: Alicia Mayer (ed.), El historiador frente a la historia. Religión y vida cotidiana, Universidad Nacional Autònoma de México (Instituto de Investigaciones Históricas. Serie Divulgación, 4), México 2008, pp. 149-165.

8) Jaime Lara, Chrìstian texts, cit, p. 261.

9) Manuel Marzal, La Transformación Religiosa Peruana, in: Fernando Armas Asìn (ed.), La construcción de la Iglesia en los Andes, Pontificia Universidad Católica del Perù, Lima 1999, p.143.

10) Sulla questione del rapporto indigeni e diritto è fondamentale Ana de Zaballa Beascoechea (ed.), Los indios, el Derecho Canònico y lajusticia eclesiàstica en la America virreinal, Iberoamericana, Vervuert (Tiempo emulado. Historia de America y de Espana, 15), Madrid – Frankfurt a. M. 2011.,

11) Yves d’Evreux, Viagem ao Norie do Brasil: fetta nos anos 1613 a 1614, com colaboracào de Ferdinand Denis, traduzida por Cesar Augusto Marques, Siciliano, Sào Paulo 2002.

12) Un’opera rappresentativa di questa tendenza è quella di Pierre Duviols, La destrucción de las religiones andinas (durante la Conquista y Colonia), Universidad Nacional Autònoma de México (Serie Historia General 9), México 1977. Per una serena visione critica, cfr Pedro M. Guibovich Pérez, Visitas eclesiàsticas y extirpación de la idolatrìa en la diócesis de Lima en la segunda mitad del sigio XVII, in Zaballa Beascoechea (ed.), Los indios, cit, pp. 178-181.

13) Studiato in Josep-Ignasi Saranyana, Teologìa profètica americana: diez estudios sabre la evangelización fundante, cap. 9: Fenómenos de religión yuxtapuesta en el Incario, Universidad de Navarra (Colección teològica 77), Pamplona 1991, pp. 227-248.

14) Cfr l’opera fondamentale: Javier Garcìa Gonzàlez, Teologìa India de America, Editorial Nueva Evangelización, México 2001.

15) Octavio Ruiz Arenas, Reflexiones sabre el mètodo teològico, ante el surgimiento de la Teologìa India, relazione pronunciata nel II Simposio de Teologìa India, Riobamba, Equador, ottobre 2002.

16) Eleazar Lopez Hernandez, Pueblos Indios e Iglesia – Historia de una relación dificil, Centro Nacional de Ayuda a Misiones Indìgenas, enero de 1999.

17) Paul Poupard, Novedad y tradición de la evangelización de las culturas, conferenza pronunciata nell’Universidad Popular Autònoma del Estado de Puebla, Puebla de los Àngeles, México, 16 giugno 1988.