Libia 1922, un deserto di sangue

Libia_italianaStudi cattolici n.623 gennaio 2013

È stato presentato lo scorso 18 dicembre a Milano presso la Scuola Militare Teuliè il nuovo libro di Federica Saini Fasanotti Libia 1922-1931. Le operazioni militari italiane (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’esercito, pp. 436, euro 25). La ricerca, grazie a una mole impressionante di materiali inediti, ricostruisce passo dopo passo le tappe della riconquista della colonia libica dopo la prima guerra mondiale e le tecniche di controguerriglia adottate dal Regio Esercito italiano. Abbiamo incontrato l’Autrice che qualche anno fa aveva iniziato la sua avventura di storico militare pubblicando con Ares La gioia violata. Crimini contro gli italiani 1940-1946.

di Alessandro Rivali

Lo studioso libico A. A. Ahmida ha affermato che la politica coloniale italiana è stata di gran lunga la più brutale, fra tutte quelle europee, nei confronti della resistenza armata. Dopo aver setacciato per anni gli archivi militari italiani è anche questo il suo parere?

Assolutamente no, io credo che tutte le occupazioni coloniali siano state dure. Fare a gara per trovare quella più brutale è una pratica che non condivido: qualunque occupazione, proprio perché tale, non può essere ben accettata dalle popolazioni locali, come dimostrano tutte le guerre combattute dagli altri Paesi europei per il possesso dei territori africani. Ma è una regola che vale in tutto il mondo e in qualunque epoca storica.

La storiografia libica, pur avendo ottimi studiosi, come per esempio il prof. S.H. Sury, deve ancora emanciparsi, a mio giudizio, da una certa vulgata di regime che l’ha appiattita sulla memorialistica, piuttosto che sulla ricerca e su un approfondimento oggettivo dei fatti. Quando questi due momenti fondamentali vengono a mancare, rimane solo una visione di parte, come abbiamo sperimentato anche noi in un passato non così lontano.

Ho spesso sentito, tanto per fare un esempio chiaro, accostare i campi di concentramento in Libia con quelli di sterminio nazisti in Polonia… è evidente che il paragone in questo caso non sussiste. Per tutta una lunga serie di motivi che spiego all’interno del mio studio.

DOCUMENTI SCOMODI

Nelle considerazioni finali del suo libro scrive: «Leggendo la recente bibliografia italiana e straniera sull’argomento, è impossibile non farsi un’idea negativa di ciò che è stata la colonizzazione italiana della Libia […] ma approfondendo l’enorme massa di documenti presenti negli archivi italiani, è interessante notare come alcuni documenti, piuttosto scomodi, non siano stati presi in considerazione o, peggio ancora, siano stati oggetto di una interpreta-zione discutibile nell’ottica della dimostrazione di determinate tesi…». Un esempio concreto?

Per la Libia, posso citare il caso di Slonta, quando nel 1927 Ornar al-Mukhtar con i suoi uomini entrò nell’accampamento delle tribù Braasa sottomessesi e fece fuoco sulle tende. Morirono 33 civili -tra cui ovviamente anche donne e bambini — e ne rimasero feriti 35, ma per altri studiosi questi 33 si sono trasformati in morti della banda «militare» che difendeva l’accampamento: fa una bella differenza in termini di storia militare e di crimini di guerra.

Ma anche l’attenzione data all’allontanamento violento a opera di Mohamed el-Fgheni di 30mila berberi della Tripolitania tra il 1921 e il 1922 che per un anno si sono rifugiati dietro le linee italiane e poi proprio dagli italiani – Graziani in primis – sono stati riportati ai luoghi d’origine, è, a mio modesto parere, un episodio a cui non si è riservata abbastanza attenzione. Se lo avessero fatto gli italiani ci sarebbero state decine di libri a riguardo. Ci sono molti casi di «interpretazione discutibile» dei documenti anche per l’Etiopia, ovviamente.

Carte alla mano, che cosa emerge dall’operato militare di Graziani e Badoglio?

Bisogna fare una distinzione necessaria fra morale comunemente sentita e strategia militare. Se ci soffermiamo sulla prima è indubbio che il loro operato sia assolutamente condannabile; ma se noi analizziamo le operazioni in termini prettamente militari, esse sono state un successo. Lo spostamento dei nomadi e la costruzione del grande reticolato al confine con l’Egitto, strategicamente parlando, sono stati risolu­ivi.

La stessa «dottrina Petraeus» della cosiddetta counter-insurgency, quella che noi chiamiamo per intenderci controguerriglia, non si allontana da ciò che hanno fatto Badoglio e Graziani: isolare i ribelli dalla popolazione e assicurare i confini nazionali. Petraeus, ovviamente, è molto più attento ai bisogni e all’incolumità dei civili, ma sono passati anche 80 anni… Graziani non era certo uno sprovveduto, almeno per quanto riguardava le azioni di controguerriglia. Più di una volta si è tentato di farlo passare come tale.

Uno studioso (preferisco sorvolare sul nome…), per esempio, in merito a una operazione su Sebha, inseribile in quelle per la conquista del Fezzan, davanti a un improvviso cambio di direzione e di meta di Graziani, lo accusa di incompetenza, dato che in quel modo egli aveva allungato di molto la marcia. In realtà, se solo avesse letto i documenti, avrebbe capito che quel cambio di programma era stato deciso a tavolino, che si era appositamente detto che ci si sarebbe mossi verso un’oasi per poi invece cambiare programma con lo scopo di prendere di sorpresa l’avversario.

Che situazione trovarono gli italiani dopo la fine della Prima guerra mondiale quando dovettero riconquistare i territori perduti?

La situazione che si presentò loro era veramente drammatica: praticamente più nulla di quello che era stato conquistato durante la guerra italo-turca del 1911-1912 si poteva dire ancora italiano. Gli avamposti erano caduti gli uni dopo gli altri sotto la spinta di nuovi avversari, i libici, che si dimostrarono molto più motivati dei turchi, anche se non sufficientemente uniti fra loro, soprattutto in Tripolitania, dove le tensioni fra berberi e arabi erano ataviche.

UNA SCELTA CASUALE

Per le operazioni di controguerriglia ci sono analogie e differenze con l’Etiopia?

Possiamo ovviamente trovare sia analogie sia differenze. Basti dire, però, che è proprio in Libia che si venne a creare quella classe di ufficiali coloniali di assoluto valore che poi ritroveremo compatta in Etiopia, a dimostrazione che la scelta della colonia, per alcuni, non era casuale.

I nomi in questo caso sono tanti, a prescindere dai più discussi per crimini di guerra – come Graziani, Maletti e Tracchia – troviamo Nasi e Amedeo di Savoia, tanto per citarne due famosi. E poi l’utilizzo di mezzi moderni e nuove tecnologie – aerei, autoblindo mitragliatrici, radio e telefoni – oltre che un sempre maggior rilievo alle truppe cosiddette «di colore», cambiarono il modo di fare controguerriglia.

Nel libro si legge che «la riconquista del Fezzan può essere considerata una delle operazioni militari più significative in ambito coloniale, perché sviluppatasi in pieno deserto attraverso un’estensione di 6 paralleli e 5 meridiani». Quali furono le maggiori insidie?

Il deserto era il nemico più temuto, perché il più pericoloso: bastava poca accortezza da parte di un singolo comandante per mettere in pericolo la vita di migliaia di uomini. Tutto doveva essere programmato con anticipo e come se ci si fosse trovati sull’oceano, in completo isolamento e senza possibilità alcuna di rifornimenti. Le operazioni del Fezzan, svoltesi tra il 1929 e il 1930, sono le più esemplificative.

Oltre, infatti, alla vastità e alla difficoltà del territorio — appunto completamente desertico gli italiani si trovarono schierati davanti diversi gruppi tribali di avversari: Misciascia, Aulad Suleiman, Zintan, Orfella, tanto per fare i nomi più conosciuti. In quest’occasione vennero preparate colonne con salmerie al seguito in grado di sopravvivere in pieno deserto per anche due settimane: le basi sarebbero state lontane circa 600 km.

Ecco perché muli e cavalli vennero esclusi, così come i classici battaglioni di fanteria e le truppe appiedate: le truppe sahariane furono le vere protagoniste, insieme all’aviazione e alle sezioni autoblindo.

Come si  comportarono le truppe indigene?

Le truppe indigene, come in Etiopia, si dimostrarono risolutive; apprezzatissime dai comandanti italiani che le conducevano, furono il vero nerbo delle operazioni in Africa. Leggerezza, aggressività e somiglianza all’avversario le resero ben presto l’arma vincente. Un elemento tipico delle operazioni in Libia furono ovviamente le «truppe cammellate», rappresentate al meglio dai reparti meharisti.

Erano uomini che vivevano a strettissimo contatto col proprio cammello e che sapevano di dovergli la vita. I meharisti sono stati i veri eroi del deserto, abituati a ogni privazione e a combattere con gli ascari per l’acqua… È risaputo, infatti, che spesso ascari e cammellieri bucavano le ghirbe, borracce in pelle di capra, per placare la sete. Fu così che dopo numerose denunce, si decise di sostituirle con più sicuri barili di legno…

Qual è il suo giudizio sull’impiccagione del «vecchio Ieone» Ornar al-Mukhtar, l’avversario più risoluto che incontrarono gli italiani? De Bono stesso non credeva alla sua cattura se in un telegramma scrisse: «Non credo che Ornar Al-Mukhtar sia stato così idiota da farsi catturare.  Stop. Occorre  quindi sincerarsi in tutti i modi circa la sua identità…».

Impiccare Ornar al-Mukhtar è stato un errore dalla portata inimmaginabile. Era un uomo con profonde motivazioni, non solo politiche, ma anche religiose. La sua morte fece  insorgere il mondo arabo; l’impiccagione, poi, venne vista come qualcosa di barbaro e lo innalzò a martire della Patria e a eroe nazionale. L’esatto opposto di ciò che si voleva.

LA VERGOGNA DELL’OCCUPAZIONE

Tra le ombre più scure dell’occupazione italiana in Libia ci sono le deportazioni della popolazione civile e i campi di concentramento. Dalla documentazione consultata il quadro diventa ancora più fosco?

Purtroppo sì. La deportazione di 100mila semi-nomadi della Cirenaica è la vergogna dell’occupazione italiana in Libia, qualcosa di talmente grande da aver obnubilato anche tutto ciò che di buono, soprattutto nei decenni successivi, gli italiani hanno fatto, costruendo un Paese dal nulla. Si parla sempre troppo poco, secondo me, di quei ventimila che in Libia avevano investito tutto e che Gheddafi ha sbattuto fuori dal Paese in pochi giorni, senza tante remore.

E in parte lo si deve proprio agli errori del 1930-1931. Ritornando alla sua domanda, i campi di concentramento furono una quindicina, sparsi su tutto il territorio della Sirtica e differenziati in base a chi erano destinati. Il campo di el-Agheila, per esempio, era il più duro di tutti, perché riservato ai parenti dei guerriglieri. C’erano poi el-Abiar, Sidi ahmed el-Magrun, Marsa Brega, Soluch, Agedabia, Derna, Apollonia, Barce, Driana, en-Nufilia, Sidi Chalifa, Corfia; Guarscia; Suani el-terria… in essi vennero stipate almeno 80mila persone.

Un calcolo approssimativo delle vittime tra gli insorti e tra la popolazione civile? E tra le truppe italiane?

È impossibile fare una distinzione fra insorti e popolazione civile, proprio perché chi combatteva non aveva una divisa militare assimilabile a un esercito regolare. Le cifre non sono precise, possono soltanto darci delle indicazioni e, anche in questo caso, come per l’Etiopia, si tratta di decine di migliaia di morti che vanno dai 30rnila ai 70mila in base allo studio a cui si fa riferimento, contro le cifre dello schieramento italiano che non raggiungono i 10mila morti.

II comandante Pietro Maletti scrisse per la Rassegna italiana nell’ottobre del 1926 che il colonialismo doveva «esser forte, esser giusto, avvantaggiare il Paese». Gli italiani furono forti, giusti e avvantaggiarono il Paese?
Allora certamente no. Ma, successivamente, dal 1933 in avanti, fecero anche loro qualcosa di buono in Libia, anche se quando se ne parla si viene tacciati di filocolonialismo.

Lo studio della Libia di ieri può aiutare a comprendere la Libia di oggi e la confusione dopo la caduta di Gheddafi?

Assolutamente sì, ma studiare la storia è una pratica che da molti politici nostrani – e non – viene vista come una perdita di tempo, e i risultati si vedono.