Genocidio armeno: beatificati due martiri francescani

Il Borghese n. 7 luglio 2022

Giuseppe Brienza

Furono vittime di un’ondata di odio che a «più riprese percorse la fine dell’impero Ottomano e si intrecciò coi tragici eventi della persecuzione contro l’intero popolo armeno e contro la fede cristiana».

Sarebbe stato meglio definirlo “genocidio” come fatto da Papa Francesco nel 2015 e nel 2016 e non semplice “persecuzione” ma, tant’è, le parole del cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione per le cause dei santi, nel beatificare il 4 giugno a Beirut i due martiri cappuccini vittime del Metz Yeghern, il Grande Male che colpì il popoloarmeno nel 1915-16 causando circa 1,5 milioni di morti, sono state comunque molto significative.

I nuovi Beati sono due frati minori francescani, Leonardo Melki (1881-1915), al secolo Youssef Houaise Tommaso Giorgio Saleh (1879-1917), cognome libanese Gériesche, ha ricordato il porporato nella sua omelia, «scelsero di andare in missione nel dicembre 1914 mentre tutti gli altri cappuccini cercarono rifugio in un luogo più sicuro».

Padre Léonard scelse di restare nel convento di Mardine (oggi in Turchia) per continuare a prendersi cura di un anziano confratello ma, il 5 giugno 1915 fu arrestato dai militari ottomani e successivamente «sottoposto a violenze e torture finché, insieme con altri compagni, non fu ucciso a colpi di pietra e poi di pugnale e scimitarra».

Padre Thomas, invece, nel dicembre 1914 fu accolto nel convento di Orfa e, imprigionato con gli altri cappuccini, «fu rinchiuso in varie carceri» e subì dai turchi «tremende torture procurategli anche al fine di farlo apostatare». Naturalmente il frate non tradì la Fede e, tutt’oggi, nella Chiesa libanese «si tramandano la sua serenità e la sua fortezza».

Se umanamente i due francescani sono stati vittime, «nella prospettiva della fede cristiana sono stati dei vincitori», ha affermato il cardinal Semeraro, capaci infatti di custodire quel «dono spirituale della fortezza, che nella dottrina cattolica è indicata quale terza virtù cardinale; una di quelle, cioè, che costituiscono i cardini di una vita virtuosa» (Vittime ma vincitori nella fede, L’Osservatore Romano, 6 giugno 2022, p. 11).

P. Saleh, deportato in pieno inverno a Marash, insieme ad altri detenuti, sotto la scorta di un plotone di soldati turchi, prima di morire di stanchezza e di malattia lungo la strada il 18 gennaio 1917, poté ripetere per l’ultima volta: «Ho piena fiducia in Dio, non ho paura della morte».

Nell’omelia alla Messa di beatificazione, che è stata preceduta da una settimana di processioni, Vie Crucis, serate evangeliche e concerti organizzati dalla Chiesa latina in Libano, il card. Semeraro ha anche richiamato le riflessioni sul martirio cristiano scritte da Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi del 2007: «nelle prove veramente gravi della vita, specialmente quando ci accade di dovere far nostra la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza», proprio allora «abbiamo bisogno di testimoni, di martiri».

Il Cardinale Semeraro ha quindi letto il decreto apostolico di beatificazione, in lingua latina, firmato da Papa Francesco, alla presenza del Patriarca maronita cardinale Bechara Boutros Raï, del Patriarca siro-cattolico Ignace Joseph III Younan, del Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi cardinale Mario Grech che sta visitando il Libano, del Vicario Apostolico Latino Monsignor Cesar Essayan, del nunzio apostolico nel Libano Joseph Spiteri e di vari rappresentanti dei capi delle confessioni cristiane, vescovi di diverse chiese, superiori generali, sacerdoti, monaci e semplici fedeli laici.

Hanno partecipato alla cerimonia anche il ministro libanese del turismo Walid Nassar rappresentando il presidente Michel Aoun e il ministro libanese della gioventù e dello sport Georges Kallas rappresentando il primo ministro Najib Mikati.

La beatificazione dei due frati libanesi nel grande convento della Croce (Jal el-Dib – Metn), in effetti, arriva significativamente a pochi giorni dalla riapertura, dopo più di due anni di chiusura forzata per pandemia, del parlamento di Beirut.

A Place de l’Étoile, nel centro della Capitale, è stato quindi subito rieletto per la settima volta consecutiva a presidente dell’Assemblea Nazionale il leader sciita Nabih Berri che, in carica dal 1992, è un alleato-chiave dei terroristi islamici Hezbollah.

Questa volta Berri è stato rieletto con un numero di voti appena sufficiente al raggiungimento della maggioranza assoluta ma, scandalosamente, gli sono andati in soccorso alcuni tra i dissidenti del Partito cristiano maronita del presidente della Repubblica Michel Aoun, a ulteriore dimostrazione che la difesa dell’identità e della vocazione cristiana del Paese dei Cedri non è in buone mani (politicamente parlando, s’intende). 

Al Regina caeli del 5 giugno Papa Francesco ha rievocato la testimonianza dei nuovi Beati Melki e Saleh,«uccisi in odio alla fede»e che,«in un contesto ostile, diedero prova di incrollabile fiducia in Dio e di abnegazione per il prossimo. Il loro esempio rafforzi la nostra testimonianza cristiana. Erano giovani, non avevano 35 anni» (Papa Francesco, Non portare l’umanità alla rovina, L’Osservatore Romano, 6 giugno 2022, p. 11).

All’età nella quale, in Italia, si entra ormai in seminario, questi missionari sono stati uccisi come ricordato dal Santo Padre solo perché cristiani e consacrati.

Arrestati entrambi e selvaggiamente torturati per giorni per fargli rinnegare la fede in Cristo ed abbracciare quella in Maometto, vanno ricordati anche loro come martiri di quello che san Giovanni Paolo II e il patriarca supremo di tutti gli armeni Karekin II hanno definito concordemente il 27 settembre 2001 il «primo genocidio del XXmo secolo».

Mantennero fede alla loro identità libanese ma, soprattutto, alla parola data in un giorno luminoso davanti all’Altare… Restituire quindi oggi ai francescani ed alle altre congregazioni cattoliche chiese e proprietà distrutte e requisite all’inizio del Novecento, costituirebbe un primo vero passo per sanare almeno in parte il crimine del genocidio.

Si consideri che la presenza francescana in Libano è molto antica e, probabilmente, risale al tempo dello stesso san Francesco d’Assisi.

I frati minori hanno rappresentato nei secoli una sorta di “ponte” fra Roma e la Chiesa maronita per mantenere l’unità anche nei momenti più difficili, e ci sono riusciti!

Oggi i francescani sono ancora presenti a Beirut, Harissa, Tripoli e sono responsabili di due parrocchie nel sud del Paese, a Tiro e Deir Mimas.

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