LETTURE/ Storie d’amore nel comunismo: (anche) il dramma è una culla di eternità

Il Sussidiario.net

30 maggio 2022

La resistenza (e la risposta) dell’amore tra un uomo e una donna all’isolamento sovietico. L’ultimo libro di A. Bonaguro, M. Dell’Asta, G. Parravicini

Giovanna Parravicini

L’arma più raffinata e potente di ogni potere è l’isolamento in cui esso rinchiude la persona, trasformandola in individuo che, oltre a percepire tutta la propria impotenza di fronte alla gigantesca macchina del sistema, rischia di divenirne succube e addirittura connivente. Per questo, da subito, nel mirino del potere sovietico vi fu la famiglia, luogo di legami autentici che aiutavano a riscoprire l’umanità e i suoi valori fondamentali.

Sia pure in un contesto storico-politico completamente diverso, di fronte all’invadenza del potere anche don Giussani avrebbe indicato la “famiglia cristiana come una vera dimora per l’uomo: aiuto, ricovero, ospitalità, canto”.

Una definizione, questa, che mi è capitato di leggere recentemente e che mi ha sorpreso perché formula esattamente ciò che accomuna le storie d’amore narrate nel nuovo libro pubblicato da Russia Cristiana (Angelo Bonaguro, Marta Dell’Asta, Giovanna Parravicini, Insieme. Storie d’amore nel comunismo): otto storie d’amore vissute in epoca sovietica, al di là della cortina di ferro, che testimoniano, nella freschezza e nell’intensità di legami che sfidano le peripezie e i drammi della storia, la potenza finale del bene. 

Nell’ambito di questo amore, infatti, la persona rinasce, cambia, comincia a vedere ciò che prima non vedeva, a vivere per amore dell’altro, e in tal modo diviene finalmente se stessa. Paradossalmente, a constatare che “l’amore è più forte” sono uomini e donne messi duramente alla prova dalla vita: colpiti da arresti e condanne, costretti a vivere lunghi periodi di separazione, provati dalla difficoltà di crescere i figli in un contesto ostile, nella povertà e tra le violenze della rivoluzione e delle guerre.

Di queste storie d’amore e di vita familiare non ricordiamo tanto vessazioni e sofferenze, che pure si incontrano ad ogni passo, ma una sorprendente pienezza di vita, che si esprime nella tenerezza di un amore sponsale vissuto sulla soglia dell’eterno, in una paternità e maternità che si dilatano ad abbracciare il mondo e divengono il germe di una rinnovata società civile, nell’amore della poesia e nel senso della bellezza.

Davanti al lettore sfilano personaggi celebri anche in Occidente, come Nadežda e Osip Mandel’štam, uno dei più grandi poeti del XX secolo, oppure Kamila e Vaclav Benda, uno dei filosofi più acuti che in Cecoslovacchia hanno preparato la “rivoluzione di velluto”. Ma anche testimoni e fautori nascosti di una resistenza e di una rinascita umana e cristiana, operatori di scelte coraggiose che non di rado li hanno portati a scontrarsi con difficoltà e restrizioni di ogni genere, fino alla reclusione o addirittura alla fucilazione e al martirio.

 La precarietà delle circostanze esteriori fa meglio risaltare che l’eternità si cela in ogni istante della vita, come nella vicenda degli Osorgin: Georgij, brillante ufficiale appartenente a una famiglia di alto lignaggio, ha modo di dimostrare la propria “aristocrazia” spirituale nel lager delle isole Solovki, dove – essendo stato destinato all’infermeria – riesce ad aiutare e sostenere numerosi detenuti, che in seguito lo ricorderanno nelle loro memorie. Il suo matrimonio dura, in libertà, circa un anno e mezzo, nel corso del quale nasce la figlia Marina.

La giovanissima moglie Lina riuscirà a brigare per ottenere per ben due volte la possibilità di fargli visita in lager, affrontando tutte le peripezie del lungo viaggio. Nella prima visita (agosto 1928) concepiranno il figlio Michail (che anni dopo si sarebbe fatto sacerdote).

Durante la seconda visita, nell’ottobre 1929, Georgij è al corrente di un terribile segreto: è stato condannato alla fucilazione, ma decide di non dir nulla alla moglie per non offuscare quei pochi giorni di felicità che rimangono loro da vivere, consapevole che la loro unione è per sempre, vive la dimensione dell’eterno: a Lina verrà successivamente riferito che Georgij è andato alla fucilazione cantando l’inno pasquale “Cristo è risorto dai morti”.  

Vera e Sergej Fudel’

I coniugi Vera e Sergej Fudel’ ci testimoniano, in particolare, la confidenza nell’aiuto che Dio non lascia mai mancare ai suoi. È questo il messaggio che ci giunge da Vera, sola a portare il peso della famiglia nei lunghi periodi di assenza del marito, più volte condannato per il suo impegno nella vita della Chiesa e il suo aiuto ai sacerdoti e monaci perseguitati.

La figlia Marija ricorderà una giornata particolarmente triste, in cui in casa erano finiti soldi e provviste: “Fu la prima e l’ultima volta che vidi sul volto di mia madre una specie di disperazione”. Proprio quel giorno la bambina trovò casualmente per strada uno strano oggetto metallico e corse a mostrarlo alla mamma, nella speranza che fosse un tesoro in grado di risolvere i loro problemi. In realtà era un antico poppatoio di metallo, su cui erano incisi un angelo e la scritta: “Dio ha pietà dei suoi piccoli e li nutre”.

A quella vista Vera si rianima tutta: “Signore, e io che mi stavo perdendo d’animo. Ce la faremo, ecco la risposta ai miei pensieri, il messaggio dell’angelo”. Anni dopo, relegato al confino lontano dalla famiglia, nel 27esimo anniversario di matrimonio Sergej Fudel’ riceve dalla moglie un telegramma: “ricordo ti bacio tutto bene”.

Poche parole, che lo rendono felice. “Vuol dire che il tempo non le fa paura, non le fanno paura dolori, distacco e fatiche, vuol dire che l’amore è più forte di tutto, che la nostra gioia è immutata”. Una gioia che si nutre di fedeltà, abnegazione, della consapevolezza di avere scelto l’unum necessarium, ma soprattutto della certezza di un amore più grande che contiene anche il loro amore.

Per questo, può scrivere a Vera: “Che cosa chiedere, se non di ‘entrare insieme nell’alba radiosa della Pasqua’? Ho fatto Pasqua da solo, ma sapendo con certezza che tu saresti andata alla liturgia ci sono stato anch’io, e ho provato una grande pace, un grande benessere. Vuol dire che eravamo insieme”.

Inoltre, questi nuclei familiari testimoniano, in un mondo atomizzato e dominato dal sospetto come quello sovietico, la possibilità di un’autentica paternità e maternità: è il caso dei coniugi Vedernikov, intorno ai quali si raccoglie un vasto gruppo di giovani desiderosi di attingere alla loro biblioteca ma soprattutto assetati di un’esperienza di fede e di umanità.

Queste due persone, diversissime tra loro, sposatesi ormai cinquantenni dopo vite travagliate, divengono per molti giovani (tra cui, ad esempio, la celebre scrittrice Ljudmila Ulitskaja) i genitori capaci di educarli e introdurli alle grandi scelte della vita, che la realtà sovietica aveva loro negato nelle famiglie naturali. Come ricorderà in seguito una giovane ospite: “Veniva voglia di portare anche i propri amici, e si aveva sempre il permesso di portarli, poi anche i nuovi mettevano radici e portavano a loro volta degli altri…”.

La poesia, la bellezza sono una componente ineliminabile di queste storie: è l’ormai anziano Anatolij Vedernikov che ogni giorno fa trovare alla moglie un mazzo di fiori freschi del giardino sul tavolo della sala da pranzo, o “tiene tra le sue mani virili, anzi contadine, una viola del pensiero, e ammirandola esclama: ‘E poi dicono che Dio non esiste…’”.

È il giovane Il’ja Šmain, che in prigione riceve dalla fidanzata Marija delle splendide poesie che fanno sì che si converta alla fede cristiana, anche se in cuor suo pensa che, tornato in libertà, non potrà mai sposarla, non è alla sua altezza. In realtà, Marija gli rivelerà che quelle poesie – spacciate per sue per sfuggire alla censura del carcere – appartengono al grande poeta Pasternak.

Boris Pasternak

Ed è, infine, la splendida storia d’amore di Nadežda e Osip Mandel’štam, di cui la poesia costituisce il filo conduttore: Nadežda, che ama e serve devotamente il marito e la sua arte nei diciannove anni della loro unione, rimasta vedova nel ’38, consacrerà la sua vita a custodirne la memoria, ripetendo per anni nella mente le poesie di Osip che non osava affidare alla carta per timore di perquisizioni.

Prima dell’addio definitivo si erano scelti una «preghiera degli sposi» che recitavano spesso insieme. “Questa adesso è la mia preghiera – scriverà Nadežda nelle sue memorie – perché anche ora non sono sola, ma sono sempre con Mandel’štam. Diceva la verità quando mi scrisse: ‘Nessuno può toglierci chi amiamo’”.