Anche il rabbino capo di Roma è contro le nozze "gay"

Ricardo Di Segnichiesa.espressonline.it 15 gennaio 2013

Non è solo il gran rabbino di Francia ad essere d’accordo col papa nella difesa della famiglia fatta di padre, madre e figli. Ecco che cosa scrive il rabbino Riccardo Di Segni, guida spirituale degli ebrei d’Italia.

di Sandro Magister

CITTÀ DEL VATICANO, 15 gennaio 2013 – L’immensa folla che ha invaso le vie di Parigi, domenica 13 gennaio, per manifestare contro la legalizzazione dei matrimoni “gay” voluta dalla presidenza Hollande ha stupito per la varietà della sua composizione. C’erano cristiani e atei, musulmani ed ebrei, conservatori e progressisti. C’erano anche degli omosessuali. Tutti accomunati dalla difesa della famiglia naturale composta da padre, madre e figli.

Ma l’elemento che più ha impressionato, già prima della manifestazione, è stata la comunanza di visione tra Benedetto XVI e il gran rabbino di Francia Gilles Bernheim, nell’argomentare le ragioni della protesta: Il papa e il rabbino contro la filosofia del “gender”

“Accuratamente documentato e profondamente toccante”: così papa Joseph Ratzinger ha definito il testo scritto dal gran rabbino Bernheim contro il riconoscimento giuridico del matrimonio omosessuale. Ma non c’è solo il leader spirituale degli ebrei di Francia ad aver manifestato questa contrarietà.

Anche a Roma la guida di quella che viene considerata la più antica comunità ebraica d’Occidente la pensa allo stesso modo. Lo ha messo in evidenza il portale degli ebrei italiani Moked, entrando in polemica con un articolo pubblicato dal principale quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, che lascerebbe intendere – scrive Moked – “che il documento del rabbinato francese costituisca una rara e coraggiosa novità nel quadro di un ebraismo solitamente silente, soprattutto in Italia, sulle grandi questioni civili”.

In realtà, tiene a precisare Moked, “l’ebraismo italiano, e con esso il suo rabbinato, è stato silente solo per chi non ha voluto ascoltarlo”. Per comprovare questa affermazione, il portale degli ebrei italiani richiama alla memoria il fatto che “il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni usò oltre cinque anni fa argomenti solidi e parole ben chiare, per alcuni anche troppo chiare, per dire le stesse cose che oggi ci ripete il rav Bernheim”.

Il riferimento è a una nota che Di Segni scrisse nel 2007 quando il parlamento italiano discuteva di un progetto di legge sostenuto dal governo di Romano Prodi, poi non andato in porto, in cui si dava riconoscimento giuridico alle coppie di fatto, comprese quelle omosessuali. Da questo intervento del 2007, oggi tornato di attualità, si ricava infatti che sull’opposizione al matrimonio tra omosessuali la voce del rabbino di Roma è all’unisono con il gran rabbino di Francia e col papa, ferme restando le divergenze – che il portale Moked ribadisce – su altre questioni con forti implicazioni morali come la fecondazione assistita.

Scrive Di Segni nel passaggio centrale della sua nota: “Secondo la Torà gli ebrei devono osservare 613 regole, ma questo non vuol dire che i non ebrei non debbano avere alcuna regola, perché in realtà le hanno anche loro, inquadrate in sette capitoli fondamentali, i cosiddetti precetti Noachidi, legge naturale”.

Sono parole che documentano come l’esistenza di una “legge naturale” valida per tutti i discendenti di Noè, cioè per tutti gli uomini, non è una fissazione del papa, dei vescovi e della Chiesa cattolica. Ma, secondo l’autorevole parere del rabbino capo di Roma, è una verità fondamentale anche per l’ebraismo.

E questo ha delle conseguenze anche nella vita pubblica. Scrive Di Segni: “È nostro dovere come ebrei indurre i non ebrei a rispettare le loro regole. Non possiamo rimanere indifferenti al superamento di determinati limiti, acconsentendo per esempio che la legge dello Stato ammetta l’omicidio, il furto, l’incesto” e ora anche le “coppie omosessuali”. Quando la società “supera abbondantemente limiti illeciti è nostro dovere opporci a queste scelte”.

La nota del rabbino capo di Roma è tutta da leggere. Eccola qui di seguito riprodotta integralmente.

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SUL RICONOSCIMENTO DELLE COPPIE OMOSESSUALI

di Riccardo Di Segni

C’è uno strano silenzio dei diversi esponenti dell’ebraismo italiano su un tema che è stato tanto dibattuto in Italia, quello della legge sui “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”, in sigla DICO, la legge sulle unioni di fatto [che è stata presentata nel 2007 dal governo Prodi].

Qualcuno, forse non bene informato, ha sostenuto che un presunto nostro silenzio sarebbe dovuto alla riluttanza a non condividere pubblicamente le posizioni della Chiesa cattolica. È vero e anche strano che le istituzioni ebraiche non siano finora intervenute in un dibattito che coinvolge più in generale i temi delle politiche dello Stato sulla famiglia. Ma ci sono due buoni motivi perché questo silenzio debba essere rotto.

Il primo dei due buoni motivi è esterno, nel senso che coinvolge la responsabilità dell’ebraismo verso la società esterna. L’altro è interno, riguarda la struttura e il futuro della nostra comunità. Vediamo il primo.

Uno dei temi più delicati e controversi nella proposta di legge sui DICO è il riconoscimento giuridico delle convivenze tra persone anche dello stesso sesso. Non è certo il matrimonio omosessuale accettato formalmente in altri Paesi, ma in ogni caso è una prima forma di riconoscimento legale di unioni omosessuali. Nel dibattito su questo tema entrano in gioco elementi di principio dei fondamenti della società moderna, la questione della laicità dello Stato, le libertà individuali, l’interferenza dei principi religiosi eccetera.

Che cosa ha da dire in proposito la tradizione ebraica? Una posizione politica abituale tra gli ebrei e spesso condivisa anche tra i più osservanti è quella di non intervenire nelle scelte di libertà che lo Stato fa per i suoi cittadini, riservando solo alla coscienza individuale il diritto e dovere di fare scelte rigorose personali su argomenti nei quali la legge dello Stato concede spazi permissivi e di libertà.

Ma questa non è una regola che può valere sempre. Secondo la Torà gli ebrei devono osservare 613 regole, ma questo non vuol dire che i non ebrei non debbano avere alcuna regola, perché in realtà le hanno anche loro, inquadrate in sette capitoli fondamentali, i cosiddetti precetti [di Noè o] Noachidi, legge naturale. Ed è nostro dovere come ebrei indurre i non ebrei a rispettare le loro regole.

Come questo si possa realizzare è difficile dirlo. Certo è che non possiamo rimanere indifferenti al superamento di determinati limiti, acconsentendo per esempio che la legge dello Stato ammetta l’omicidio, il furto, l’incesto.

L’argomento di cui ora si dibatte rientra per certi suoi aspetti (non le convivenze in generale, quanto specificamente le coppie omosessuali maschili) in limiti ritenuti insuperabili.

Il problema non sembra neppure tanto nuovo, come testimonia un passaggio del Talmud Babilonese (Chulin 92b) nel quale si dice che tra i pochi limiti che le nazioni del mondo non hanno superato c’è quello che non hanno ancora consentito di “scrivere la Ketubbà ai maschi”, anche se non stanno certo attenti a rispettare il divieto delle pratiche omosessuali. La Ketubbà è il contratto nuziale nel quale lo sposo si impegna con la sposa. “Scrivere la Ketubbà ai maschi” significa sancire l’unione omosessuale con un regime di garanzie giuridiche ed economiche.

Insomma, anche se questo atteggiamento potrà essere considerato poco “politically correct” secondo la sensibilità attuale, non dobbiamo ignorare che secondo la nostra tradizione la società che sta per compiere queste scelte supera abbondantemente limiti illeciti ed è nostro dovere opporci a queste scelte, non rimanere indifferenti.

Ovviamente gli unici nostri strumenti sono quelli della democrazia: la parola, il voto. Ma non possiamo fare a meno di usarli. L’obiezione fondamentale è che in questo modo andiamo contro il libero diritto alle scelte individuali. Ma su temi di “frontiera” come questi, che non sono affatto condivisi da ampie maggioranze, c’è anche il diritto e il dovere al dissenso. Non esistono mai diritti illimitati e alla definizione del limite si è chiamati collettivamente a decidere.

Il secondo motivo per il quale il dibattito in corso non ci deve lasciare indifferenti riguarda le tematiche generali della famiglia.

La legge sulle unioni di fatto è l’espressione di un mutamento radicale nelle strutture della società contemporanea, nella quale il tradizionale istituto della famiglia non rappresenta più il modello assolutamente prevalente di organizzazione.

La società cambia e la legge ne deve tenere conto. Quindi non avrebbe senso accanirsi contro una legge che cerca di dare qualche tutela e sicurezza, nonché di garantire delle forme di solidarietà verso i deboli che nella nostra tradizione sono di importanza essenziale. Quindi, salvo la riserva principale espressa sopra, se il problema è la difesa dei deboli dobbiamo essere favorevoli. Ma bisogna vedere se questo è veramente il problema, e se la legge proposta sia in grado di risolverlo.

Il problema per noi è un altro, perché il dibattito generale in corso ha deformato le prospettive, riducendo la questione all’opposizione tra i difensori delle libertà civili e i difensori, come la Chiesa cattolica, del modello tradizionale di famiglia. È un dibattito appassionante, ma se ci si ferma a queste due polarità si rischia di ignorare quello che deve essere il vero problema per noi, che sta all’origine della legge e che ci coinvolge come ebrei italiani in un modo devastante, anche se sembra che non ce ne siamo ancora accorti.

La società ebraica italiana, come nel resto del mondo occidentale, ha fatto propri i modelli di organizzazione della società non ebraica, anzi molto spesso li ha anticipati. Ma il prezzo che ha pagato e sta pagando per questa sua scelta collettiva è l’evoluzione verso la drastica contrazione numerica, in alcuni luoghi quasi l’estinzione.

In alcune comunità c’è stata una riduzione fino al 45 per cento. Solo Roma sembra essersi un po’ salvata dal “ciclone” demografico, ma i risultati attesi a medio termine non sono incoraggianti. Le cause del disastro sono molteplici: ci si sposa di meno e molto più tardi, si fanno molti meno figli, i vincoli matrimoniali sono molto instabili (separazioni, divorzi), la popolazione generale invecchia e il numero dei morti ogni anno supera quello dei nati. A questo si aggiunge il problema dei matrimoni misti che, quando ci sono, molto spesso sono solo convivenze.

Senza entrare nel merito delle problematiche religiose, è innegabile dal punto di vista sociale che queste unioni miste sono il segno di un rapporto debole con l’ebraismo e che da due partner, uno non ebreo e l’altro debolmente legato all’ebraismo, nella grande maggioranza dei casi la discendenza sarà ancora più debolmente legata all’ebraismo e a ben poco servirà, in termini ebraici, la conversione formale richiesta da un genitore.

Questo è ciò che per noi significa modificazione o crisi del modello tradizionale della famiglia. Forse la società circostante si può permettere (fino a un certo punto) di rimodellarsi secondo le modificate condizioni economiche e sociali. Noi no. E allora deve essere chiaro che se facciamo del dibattito sui DICO una bella questione di diritti civili non abbiamo ancora capito niente dei nostri veri problemi. È urgente una presa di coscienza di tutti e della leadership in particolare, e l’inizio di una politica seria sul tema della famiglia.

Roma, 2007

Il “portale dell’ebraismo italiano” su cui è uscita questa nota del rabbino capo di Roma:  Moked