EUTANASIA: l’impercettibile passaggio dal “diritto” al “dovere” di morire  

Family day 24 Febbraio 2022       

Sta nascendo un altro “nuovo” diritto che consentirebbe di ridurre il proprio corpo e la propria vita ad una macchina il cui uso, come per qualsiasi altro bonus, è regolato in base ai criteri di efficienza ed economicità.

di Aldo Ciappi

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum per l’abrogazione dell’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente) e questo è un buon segnale.

Ma non è il caso di abbassare la guardia; tutt’altro, perché in agguato c’è il disegno di legge unificato cd. “Bazoli-Provenza” (“Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” – MVMA), approvato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e presto all’esame dall’Aula (dove può contare su un’ampia maggioranza favorevole) che interviene sul reato di “istigazione o aiuto al suicidio” di cui all’art. 580 c.p..

Questa norma, attualmente, prevede che “Chiunque determina altri al suicidio, o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione è punito con la reclusione… Le pene sono aumentate se la persona… si trova in una delle condizioni indicate ai nn. 1 e 2 dell’articolo precedente…” (art. 579 Omicidio del consenziente: 1) persona minore di anni 18; 2) persona inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica o altra infermità o per abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti).

Sull’articolo in questione era intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 242/2019 (preannunciata dalla propria ordinanza n. 207/2018) sul caso “Cappato-DJ Fabo”, la quale, pur ritenendo la norma “funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili”, aveva tuttavia escluso la punibilità di colui che “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

Con la richiamata precedente ordinanza la Corte aveva inusualmente “messo in mora” il legislatore ad intervenire sulla materia tenendo conto delle indicazioni da essa dettate, peraltro individuando il “coinvolgimento in un percorso di cure palliative” quale necessario “pre-requisito di qualsiasi altro percorso alternativo del paziente”.

Nell’inerzia delle Camere con la suddetta sentenza la Corte Costituzionale (ponendosi nel solco già tracciato dalla L. 219/2017 sul cd. “testamento biologico”) ha aperto la strada all’eutanasia, così come fece con la sentenza n. 27/1975 sull’aborto “terapeutico”, preludio alla L. 194/1978; un inquietante de-jà vu…

Non potrà sfuggire a chiunque l’opacità dei termini usati (“trattamenti di sostegno vitale”, “patologia irreversibile”, “sofferenza intollerabile”) che lascia al magistrato un’ eccessiva discrezionalità, in contrasto con il principio costituzionale di tipicità e tassatività delle fattispecie di reato.

Deve essere chiaro anche che, Costituzione alla mano, la Corte non aveva (e non ha) alcun potere di vincolare il Parlamento sovrano nella sua funzione legislativa, per cui non vi è alcun obbligo di emanare una legge a contenuto eutanasico, che preveda, cioè, un dovere del medico (in palese contrasto con il giuramento di Ippocrate) di assecondare la volontà suicida di un soggetto, seppure a certe condizioni.

Si poteva, per esempio, prevedere (v. progetto di legge dell’On. Alessandro Pagano) una pena sensibilmente ridotta per coloro che, familiari o conviventi di una persona irreversibilmente malata e tenuta in vita con strumenti di sostegno vitale, abbiano agito mossi da grave turbamento per le insopportabili sofferenze del medesimo, al quale sia stato garantito l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore di cui alla L. n. 38/2010.

Ciò precisato, il ddl unificato approvato in Commissione, pur dichiarando di volersi attenere a quella sentenza, al contrario ne allarga addirittura le maglie. Infatti, da un lato, non si menziona in esso l’importante passaggio delle cure palliative e della terapia del dolore come pregiudiziale all’accesso alla MVMA; dall’altro, alla nozione di “patologia irreversibile”, vi aggiunge quelle di “prognosi infausta” e di “condizione clinica irreversibile”, che ampliano ulteriormente gli spazi di interpretazione. Infine, i pazienti che ne faranno richiesta si troveranno affidati alle “cure” di medici non obiettori (quasi certamente, infatti, non saranno quelli di famiglia a dare la morte ai loro pazienti) con la conseguenza che il tutto si ridurrà ad una procedura burocratica seriale (esattamente come per l’aborto). 

Al di là della terminologia usata e delle petizioni di principio che lasciano il tempo che trovano (la L. 194/78 docet anche in questo senso), tutto l’impianto del ddl fa trasparire la soggiacente volontà di introdurre nell’ordinamento un “diritto soggettivo al suicidio”, stabilendo apertamente il principio che la vita dell’individuo sia un bene disponibile, al quale corrisponde il “dovere” dello Stato di fornire gli strumenti per la sua attuazione.

Pertanto, è necessario attirare l’attenzione dell’opinione pubblica proprio su questo passaggio per cercare di riaffermare con forza l’opposto, e fino ad oggi indiscusso, principio della vita come bene posto su un livello superiore ad ogni altro, e, quindi, “non disponibile”, che l’ intera comunità e le leggi sono chiamate a tutelare e servire con mezzi adeguati, soprattutto nelle sue espressioni più fragili. 

La radicale antinomia tra i due principi non può essere composta in alcun modo; uno esclude l’altro e viceversa, senza che possa esservi una posizione intermedia. Se si accetta quello per cui il diritto alla vita sia disponibile, il relativo esercizio da parte di chi ne sia titolare, essendo il suo un diritto personalissimo, non può restare soggetto ad alcuna condizione: di salute, di età od altro.

Quindi, qualora si ammetta ciò, si avrà non più il diritto alla vita, ma “sulla” propria vita e, dunque, in questa accezione, esso “deve” comprendere anche la facoltà di autodistruzione la quale, dato il carattere non frazionabile di tale diritto, deve essere sempre e senza condizioni “fruibile”.

E’, infatti, evidente, in questa prospettiva, che la consapevole e libera decisione di un individuo, capace di intendere e volere, di porre fine alla propria vita (sulla quale – si ripete – ha un diritto personalissimo) non potrebbe mai essere sindacato da alcuno, così come cadrebbe, ipso facto (in quanto ne rappresentano un minus), ogni divieto degli atti di disposizione del proprio corpo “che cagionino una riduzione permanente dell’integrità fisica o sono contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” (art. 5 c.c.). 

Se sono il padrone della mia vita, ne faccio quel che voglio, in qualsiasi momento ed incondizionatamente; questo è da sempre il leitmotiv dei radicali – in piena coerenza con il referendum, appena bocciato, per l’abrogazione dell’ omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) – che sta sempre più penetrando nella mentalità corrente grazie alla martellante azione dei media compattamente schierati a loro favore.

Una volta passato il principio che vi è un diritto a morire, ogni tentativo di contenerne la portata attraverso mediazioni come quella prevista dal T.U. del ddl Bazoli-Provenza, è destinato ad essere travolto; è solo una questione di tempo, come si è visto per la legge sull’aborto (sulla cui falsariga, come alcuni hanno rilevato, è strutturato il ddl in discussione) con la quale sono state “legalmente” soppresse 6 milioni di vite.

Si comprende, quindi, come la posta in gioco sia enorme: non si tratta tanto di accapigliarsi su una insidiosa terminologia di cui è farcito il ddl, quanto di intendersi se sia il caso di far uscire dal vaso di Pandora un altro “nuovo” diritto che consentirebbe di ridurre il proprio corpo e la propria vita ad una macchina il cui uso, come per qualsiasi altro bonus, è regolato in base ai criteri di efficienza ed economicità.

Le esperienze dei paesi che hanno aperto al principio di disponibilità della vita (dapprima timidamente poi in un rapido crescendo di ipotesi) non ci dicono nulla di buono al riguardo. Il Belgio e l’ Olanda, primi arrivati, in pochi anni, hanno visto incrementati in modo esponenziale i suicidi “medicalmente assistiti”, non solo di malati terminali, ma anche di persone affette solamente dalla stanchezza di vivere; nel R.U. sono stati uccisi direttamente e anche contro la volontà dei genitori bambini gravemente ammalati; ecc.

E’, inoltre, scontato che in una società come la nostra, in cui la cui speranza di vita è aumentata notevolmente così come la percentuale di persone anziane che, spesso vivono sole, il passaggio dal “diritto” al “dovere” di morire di individui ormai improduttivi, o la cui vita non risponda a certi cliches, diventerà quasi impercettibile, spinto dalla mentalità utilitaristica o eutanasica incalzanti e, non di meno, dai costi sociali e sanitari insostenibili frutto di ottuse politiche anti-nataliste e contro la famiglia.

La strada per evitare tale scenario non può essere l’ eutanasia ma quella, più impegnativa ma degna dell’uomo, di offrire concreti sostegni alle persone malate e a chi si occupa di loro, garantendo a tutti l’ accesso alle cure palliative ed antidolore nella fase terminale; per questo c’è già una legge (n. 38/2010) rimasta, per lo più, lettera morta…

Se il mondo cattolico e chiunque creda ancora nel valore intangibile della vita umana, seguendo il grido del Papa contro la “cultura dello scarto”, facessero sentire all’unisono la loro voce, forse saremmo ancora in tempo per frenare la folle corsa incontro alla morte che questa società, senza speranza, ha intrapreso.

Per quanto ci riguarda, facciamo nostro il motto di S. Ignazio di Loyola: “pregare come se tutto dipendesse da Dio, lavorare come se tutto dipendesse da noi”. 

Per chiudere, traggo dall’ottimo volume “Eutanasia; le ragioni del no” (Cantagalli 2021) curato da Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro Studi Livatino (di cui consiglio la lettura), in apertura al I° capitolo, una riflessione del famoso oncologo francese Lucien Israel, che, più e meglio di ogni altra argomento giuridico, ci dà l’idea della drammaticità dell’ora presente: “L’eutanasia legalizzata rappresenta la rottura del legame simbolico tra le generazioni. Figli, nipoti e, oramai, pronipoti (…) sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi (…). Quando i vecchi non serviranno più, che siano depressi o che ancora non abbiano trovato il reparto medico in grado di non farli soffrire, si deciderà che è tanto semplice, e persino più caritatevole, sbarazzarsene” (da “Contro l’eutanasia”, Lindau 2007 p. 84).