Un’adeguata ermeneutica conciliare

Concilio Vaticanoil Regno n.17 1 ottobre 2012

Lo scorso 3 ottobre, il card. Scola ha tenuto la prolusione d’apertura – intitolata Dagli albori all’apertura del Concilio. Note per una lettura del Vaticano II—al Convegno internazionale «II concilio ecumenico Vaticano II alla luce degli archivi dei padri conciliari», promosso (dal 3 al 5 ottobre) dal Pontificio comitato di scienze storiche in collaborazione col Centro studi e ricerche «Concino Vaticano II» della Pontificia università lateranense.

«Nel rispetto della mia competenza», scrive l’arcivescovo di Milano, il contributo «intende soffermarsi su tre nodi ermeneutici emergenti dai principali fatti e documenti del periodo di cui il Congresso si occupa»: il rapporto tra l’elemento teologico e quello storico, e di conseguenza la definizione del «soggetto» dell’ermeneutica conciliare; la questione dell’«indole pastorale del Vaticano II»; e l’intreccio tra «evento» e «corpus dottrinale».

L’intenzione dichiarata, «offrire qualche pista per un’adeguata ermeneutica conciliare necessaria per comprendere il processo di recezione», trova nell’idea di riforma nella continuità, proposta da Benedetto XVI, la categoria che sembra «più conveniente per leggere la natura dell’evento conciliare e per un’adeguata ermeneutica del suo corpus nell’ottica della pastoralità».

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Un concilio ecumenico, nel quale il Collegio dei vescovi esercita in modo solenne la potestà sulla Chiesa universale, (1) domanda una lettura compiuta in cui l’elemento teologico e l’elemento storico, sempre necessariamente intrecciati, concorrano a spiegarne tutta la portata per la Chiesa e la sua missione (2).

In questo senso un concilio è sempre un evento, connotato da precisi dati storici, attraverso il quale il «soggetto Chiesa» si esprime in vario modo e secondo varie forme, ma soprattutto attraverso un corpus di insegnamenti.

Non a caso Dei Verbum 8 descrive questo soggetto in azione con le seguenti parole: «Nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto la Chiesa perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (EV l/882) (3). Pertanto, il concilio ecumenico costituisce un’occasione eccezionale nella vita del «soggetto Chiesa».

Convocati dal papa e sotto la sua presidenza i vescovi, nel concilio ecumenico, «sono per tutta la Chiesa dottori e giudici della fede e della morale» (LG 25; EV 1/345). Nel concilio, infatti, la Chiesa si trova autenticamente rappresentata: «I singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col papa la Chiesa intera, nel vincolo della pace, dell’amore e dell’unità» (LG 23; EV 1 /338) (4).

La Chiesa, autenticamente rappresentata nel concilio ecumenico, è un soggetto vivente. Non è quindi possibile avvicinarsi ai primi passi del Vaticano II – Dagli albori all’apertura del Concilio – prescindendo dalla sua recezione. Al di là dell’importanza di una considerazione accurata degli avvenimenti del periodo compreso tra l’annuncio del Concilio, il 25 gennaio 1959, (5) e il messaggio al mondo del 20 ottobre 1962, (6) affinchè la loro rilevanza ecclesiale emerga è necessario che essi siano colti a partire dal presente.

In quest’ottica è indubbio che la fase attuale di recezione del Vaticano II è segnata dall’ormai celebre discorso di Benedetto XVI alla curia romana del 22 dicembre 2005. In esso il papa invitava a ripensare il nesso tra ermeneutica e recezione del Concilio (7).

Cominciamo con identificare sinteticamente la sequenza di tali avvenimenti (8).

Nella fase antepreparatoria, il 17 maggio 1959, viene istituita la Commissione antepreparatoria (9). presieduta dal cardinale Domenico Tardini, (10) il quale nel mese successivo invierà la lettera di consultazione ai futuri padri conciliari (11). Il 15 luglio successivo, il papa comunica al segretario di stato che il concilio si chiamerà «Vaticano II» (12).

La registrazione e la schedatura delle risposte dei vescovi, dei superiori generali, delle università e dei dicasteri romani alla richiesta del segretario di stato sarà il compito fondamentale di questa fase (13). Dal 24 al 31 gennaio 1960, viene celebrato il Sinodo romano (14).

La fase preparatoria si apre con il motu proprio Superno Dei nutu, del 5 giugno 1960, che istituisce le commissioni preparatorie e il Segretariato per l’unità dei cristiani (15). Le commissioni iniziano e svolgono il loro lavoro mentre si verificano alcuni fatti significativi dal punto di vista ecclesiale – la pubblicazione dell’enciclica Mater et Magistra il 15 maggio 1961 (16), del monitum Biblicarum disciplinarum studio da parte del Sant’Uffizio, il 20 giugno 1961 (17), e della costituzione apostolica Veterum Sapientia sulla scelta di mantenere il latino sia nell’insegnamento ecclesiastico sia nella liturgia, del 22 febbraio 1962 (18) e dal punto di vista sociale: il 13 agosto 1961 inizia la costruzione del muro di Berlino.

Il compito di guidare tali lavori preparatori è affidato alla Commissione centrale preparatoria che celebra, fra il 1961 e il 1962, sette sessioni (19). Il 25 dicembre 1961, Giovanni XXIII pubblica la costituzione apostolica Humanae salutis e indice il concilio Vaticano II (20). Poco dopo, il 2 febbraio 1962, ne fissa l’inizio per l’11 ottobre 1962 (21).

Infine, rientrano nella fase iniziale dei lavori conciliari la pubblicazione, il 6 agosto 1962, dell’Ordo concilii oecumenici Vaticani secundi celebrandi (22) e il radiomessaggio dell’ 11 settembre (23), che precedono l’apertura solenne dell’assise conciliare e l’allocuzione Gaudet mater Ecclesia (24).

Il presente contributo, nel rispetto della mia competenza, intende soffermarsi su tre nodi ermeneutici emergenti dai principali fatti e documenti del periodo di cui questo congresso si occupa. L’intenzione è quella di offrire qualche pista per un’adeguata ermeneutica conciliare necessaria per comprendere il processo di recezione.

Per comodità li anticipo: la considerazione dei precedenti teologici e ecclesiali del Vaticano II e dell’iniziativa di Giovanni XXIII ci introdurrà nella questione del rapporto tra l’elemento teologico e l’elemento storico e, conseguentemente, in quella del «soggetto» adeguato dell’ermeneutica conciliare. In secondo luogo, a partire dalle indicazioni offerte da papa Roncalli, affronteremo la questione dell’indole pastorale del Vaticano II. Infine, considerando gli inizi dei lavori e la vicenda degli schemi approntati dalle diverse commissioni preparatorie, proporrò qualche nota sull’intreccio evento-corpus dottrinale.

1. II SOGGETTO DELL’ERMENEUTICA CONCILIARE

Tra i due Concili

Non è agevole presentare un quadro sintetico dei decenni che intercorrono tra l’interruzione del Vaticano I e l’annuncio di un nuovo concilio ecumenico. La difficoltà deriva dalla molteplicità e complessità delle questioni in gioco nei pontificati che si sono succeduti.

A titolo di esempio possiamo citare alcuni elementi: il peso della questione sociale negli anni del pontificato di Leone XIII (25) l’inizio delle riforme e la crisi modernista in quelli di san Pio X, (26) la tragedia della prima guerra mondiale con Benedetto XV (27) la soluzione della questione romana con Pio XI (28) e, infine, il complesso e ricco pontificato di Pio XII, tuttora oggetto di disparate valutazioni (29).

Per quanto riguarda l’oggetto del nostro contributo è possibile individuare due elementi particolarmente significativi. Entrambi si presentano sotto la forma del paradosso.

In primo luogo, occorre fare riferimento al contesto ecclesiale e socio-culturale della prima metà del Novecento. In esso troviamo, da una parte, una situazione problematica della Chiesa nei confronti del «mondo»: mi riferisco al noto confronto con la modernità e alle difficoltà cui esso ha condotto.

Lo storico Martina così descrive questa situazione: «Si avvertiva da molti l’urgenza di adeguare la Chiesa a una situazione per molti aspetti nuova che si era sviluppata abbastanza rapidamente negli ultimi decenni e di farla uscire da quella severa chiusura, da quella diffidenza verso il mondo moderno, da quella lentezza nel cammino, da quella ritrosia a ogni dialogo veramente aperto e comprensivo, che aveva caratterizzato molte pagine della storia della Chiesa dopo la repressione del modernismo, efficace e senz’altro positiva per un verso, unilaterale e negativa per l’altro». (30).

Occorre evitare subito interpretazioni fuorvianti delle radici di tale urgenza. Essa non nacque dalla smania della Chiesa di rincorrere il mondo moderno, o per dirlo in altri termini, dal tentativo di «adeguarsi allo spirito del mondo». Si deve oggettivamente riconoscere che quell’urgenza di apertura al mondo fu anzitutto un’urgenza missionaria. Questa lettura permette, tra l’altro, di cogliere il legame oggettivo che vincola la percezione critica che Pio XII ebbe della fine del suo pontificato e l’iniziativa del beato Giovanni XXIII (31).

A questa situazione problematica, fa da contrappunto- ecco il paradosso — la presenza di notevoli segni di rinnovamento nella vita della Chiesa e nella riflessione teologica. Ne elenchiamo i principali. Innanzitutto, il dinamismo missionario che caratterizzò la vita e l’azione della Chiesa dalla seconda metà dell’Ottocento trovando nella Santa Sede un efficace sostegno (32).

Segue poi nel tempo e si estende fino all’immediato preconcilio, il fiorire dell’apostolato dei laici – si pensi all’Azione cattolica o ai movimenti di spiritualità matrimoniale in Francia – e il conseguente sviluppo della «teologia del laicato». (33). Questi segni nuovi nella vita ecclesiale sono accompagnati e, nello stesso tempo, favoriti dai cosiddetti movimenti liturgico, (34) patri-stico (35), biblico (36), ecumenico (37), e catechistico (38), nonché dal rinnovamento teologico (39).

A questo proposito si avverte oggi, con più insistenza che in passato, la necessità di studiare il legame effettivo di tali movimenti con il Vaticano II e la sua preparazione (40) mettendo in maggiore evidenza il fatto che un concilio è in se stesso un momento privilegiato di recezione della vita della Chiesa e, anche per questo, di traditio (41).

Riprendere il Vaticano I?

Il primo elemento significativo, dunque, è la coesistenza di una situazione problematica e il fermento di nuove correnti e realtà che man mano si fanno spazio nella vita della Chiesa. Questo paradosso rende ragione dell’urgenza di cambiamento scaturita da una presa di coscienza di una mancanza di incidenza missionaria nei confronti del mondo moderno.

Il secondo elemento riguarda l’interrogativo sui tentativi precedenti a quello di Roncali! di riprendere il concilio Vaticano I e l’eventuale loro influsso sull’iniziativa di Giovanni XXIII.

E importante sottolineare che, dalla fine del Vaticano I, permase nella coscienza ecclesiale l’idea di riprendere il concilio per completarne i lavori (42). Sono ben noti i tentativi di Pio XI e di Pio XII di riprendere il Vaticano I: «Era un problema che ciascun papa trasmetteva al successore» (43).

Nell’enciclica Ubi arcano, del 23 dicembre 1922, Pio XI espresse con chiarezza il proposito di riprendere il Vaticano I (44) e, a questo fine, chiese di studiare quanto era rimasto inevaso a motivo della sua interruzione forzata. Fece inviare a cardinali e vescovi una lettera del segretario di stato domandando il loro parere sulla ripresa del concilio (45). Tuttavia l’iniziativa di papa Ratti non fu condotta in porto a motivo sia della complessità del dibattito intorno all’eventuale concilio sia, soprattutto, a causa della questione romana ancora aperta (46).

Ciò nonostante l’idea della ripresa del Vaticano I non fu del tutto abbandonata. Infatti, dopo il tentativo fallito di Pio XI, anche papa Pacelli ne considerò la possibilità, affidando la questione al Sant’Uffizio. Una commissione ristretta iniziò a lavorare su questa ipotesi il 15 marzo 1948. Successivamente, nel febbraio 1949, venne istituita la Commissione centrale o Commissione speciale preparatoria, e nominati presidente il nunzio in Italia, s.e. Borgongini Duca, e segretario il gesuita Pierre Charles, professore di teologia dogmatica a Lovanio.

Due dati sono rilevanti nel lavoro della Commissione: la convinzione che la mera ripresa del Vaticano I non giustificava la convocazione di un nuovo concilio e le divergenze in merito all’impostazione e all’organizzazione del concilio stesso. Di fatto, il 4 gennaio 1951, il papa dispose l’abbandono del progetto (47).

Le difficoltà oggettive legate al numero di vescovi da convocare e alle divergenze citate, insieme al disegno pacelliano di internazionalizzazione del collegio cardinalizio e della curia nonché di un magistero universale molto capillare, condussero a tale decisione (48).

Eppure, ecco l’altra faccia della medaglia, questi tentativi, che finirono sempre per arenarsi, possono essere considerati «”precedenti”, per intenderci, solo in ordine di tempo, essendo ben noto che l’idea del Concilio maturò, in Giovanni XXIII, per ben altre vie, né può ricollegarsi direttamente ai propositi del suo predecessore» (49).

Infatti, appare chiaro che la pura ripresa del Vaticano I non poteva di per sé sola giustificare l’indizione di un nuovo concilio. Una mera ripresa — come la stessa commissione preparatoria ai tempi di Pio XII fece presente – non sarebbe stata in grado di rispondere alle sollecitazioni storiche che lo Spirito stava offrendo alla Chiesa (50).

A tali nuove sollecitazioni rispose il beato Giovanni XXIII. Gli studiosi hanno messo in rilievo alcuni elementi che potrebbero aiutare a comprendere come si fece strada l’idea del concilio nell’animo di Roncalli: gli anni passati come giovane segretario del vescovo di Bergamo, Radini Tedeschi, che gli permisero di conoscere l’uso del sinodo come strumento pastorale; i suoi studi storici, soprattutto quelli relativi all’applicazione della riforma tridentina da parte di san Carlo Borromeo (con la pubblicazione degli Atti della visita apostolica del santo a Bergamo nel 1575); le figure e le proposte di presuli come Bonomelli e Gelso Costantini; le frequentazioni degli ambienti ortodossi in qualità di rappresentante della Santa Sede; i tentativi dei suoi predecessori.. (51)

Nell’esercizio del ministero petrino

Eppure, nella celebre allocuzione Gaudet mater Ecclesia dell’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII descrisse l’origine del Concilio con queste parole: «Quanto all’origine e alla causa del grande avvenimento per il quale ci è piaciuto adunarvi, è sufficiente riportare ancora una volta la testimonianza, certamente umile, ma che noi possiamo attestare come sperimentata: la prima volta che abbiamo concepito questo Concilio nella mente quasi all’improvviso, e in seguito l’abbiamo comunicato con parole semplici davanti al sacro Collegio dei padri cardinali in quel fausto 25 gennaio 1959, festa della conversione di san Paolo, nella sua patriarcale basilica sulla via Ostiense.

Gli animi degli astanti furono subito repentinamente commossi, come se brillasse un raggio di luce soprannaturale, e tutti lo trasparirono soavemente sul volto e negli occhi. Nello stesso tempo si accese in tutto il mondo un enorme interesse, e tutti gli uomini cominciarono a attendere con impazienza la celebrazione del Concilio» (52).

Il modo in cui si giunse all’annunzio del 25 gennaio 1959 è stato oggetto di diverse pubblicazioni (53). E’ necessario, tuttavia, soffermarsi a considerare la natura dell’ispirazione giovannea del Concilio.

Occorre abbandonare vecchi stereotipi, ormai superati: è passato il tempo in cui si parlava del «mistero Roncalli» per esprimere la difficoltà di spiegare come un uomo profondamente legato alla tradizione abbia potuto indire un concilio come il Vaticano II (54).

Infatti, oggi è agevolmente possibile riconoscere la grandezza spirituale di questo papa che presentò il Concilio come qualcosa di «improvviso» non perché, come abbiamo detto, non ci fossero elementi nella sua storia personale e nei decenni precedenti al suo pontificato per poter pensare a un concilio, bensì perché l’annuncio e la convocazione di quello che sarebbe stato il Vaticano II, furono la risposta personale che il successore di Pietro diede allo Spirito nell’esercizio del suo singolare ministero (55)

Non si può, infatti, che essere d’accordo con chi parla dell’ispirazione di Roncalli come di «un pensiero, evidentemente già riflettuto e di cui ha anche parlato a altri, che – in un certo momento — egli sente come accettato, supportato o anche “illuminato” da Dio» (56)

A questa responsabilità personale nell’esercizio del ministero petrino da parte di Giovanni XXIII si connette il novum che, nel solco della traditio catholica, caratterizza il Vaticano II (57). Dalla considerazione sintetica dei precedenti ecclesiali e teologici del concilio Vaticano II e dell’iniziativa di Giovanni XXIII che abbiamo voluto offrire, emerge un elemento fondamentale per un’adeguata comprensione del Concilio.

Tutti gli avvenimenti precedenti, compresi i fattori di rinnovamento, non sono in grado di spiegare esaurientemente l’iniziativa del papa. E impossibile coglierla senza un’adeguata ermeneutica della storia.

Essa implica riconoscere che la storia della Chiesa ha per sua natura uno statuto teologico: la storia della Chiesa, descrivendo il pellegrinare del popolo di Dio attraverso i secoli verso la patria celeste, ha come protagonista il Padre che chiama gli uomini, in Gesù Cristo e per la potenza dello Spirito, a esserne co-agonisti. Una strada che finisca, lo si voglia o meno, per estromettere dall’elaborazione della storia della Chiesa il dialogo tra la libertà di Dio e la libertà degli uomini semplicemente non risulta percorribile. La storia proprio in quanto storia mette in gioco questo incontro di libertà e, in ultima analisi, la fede stessa.

Su questa base, numerose controversie ermeneutiche che vedono storici e teologi accusarsi reciprocamente di letture riduttive o ideologiche, dovrebbero essere lasciate definitivamente da parte.

Ovviamente, non è compito facile e necessita di grande acribia. Un aiuto ci può essere offerto dall’analogia con ciò che sta avvenendo nell’ambito degli studi biblici. Nell’esortazione apostolica Verbum Domini, Benedetto XVI indica alcuni evidenti rischi che minacciano l’interpretazione delle Scritture quando metodologicamente si cede al dualismo tra i due livelli, quello storico-critico e quello teologico: la riduzione della Scrittura a un testo solo del passato, l’elaborazione di un’ermeneutica secolarizzata, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il divino non appare nella storia umana, e la conseguente estensione del dubbio sui misteri fondamentali del cristianesimo e sul loro valore storico (58).

Il «soggetto» adeguato

Mi sembra che queste considerazioni possano illuminare il necessario compito di ermeneutica adeguata al concilio Vaticano II. Lo prova il fatto che il criterio fondamentale per l’esegesi biblica proposto dal papa è applicabile all’ermeneutica conciliare: «II luogo originario dell’interpretazione scritturistica è la vita della Chiesa.

Questa affermazione non indica il riferimento ecclesiale come un criterio estrinseco cui gli esegeti devono piegarsi, ma è richiesta dalla realtà stessa delle Scritture e da come esse si sono formate nel tempo» (59). Sembra plausibile leggere quest’affermazione in rapporto alla proposta del papa circa «l’ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del popolo di Dio in cammino» (60).

Quanto fin qui detto indica con chiarezza quale sia il soggetto adeguato di un’ermeneutica conciliare. La lettura conciliare, sia per lo storico sia per il teologo, non può scaturire, in ultima istanza, che dal «soggetto Chiesa». Solo in esso trova la sua unità. Attraverso il «soggetto Chiesa», infatti, l’unità, per sua natura, è posta e garantita all’origine e non cercata come il convergere di strade autonome.

Ovviamente, quando si parla di «soggetto Chiesa» — ma questo dovrebbe essere un dato acquisito proprio grazie all’insegnamento conciliare – lo si intende secondo tutta la ricchezza della communio che è nello stesso tempo communio christifiddium, communio hierarchica e communio Ecclesiarum, quella communio che vive secondo «il vero principio teologico della varietà e della pluriformità nell’unità» (61)

2. L’INDOLE PASTORALE DEL CONCILIO

Genesi e affermazione di un concetto dibattuto

II frutto della risposta di Giovanni XXIII alla sollecitazione dello Spirito per il bene della Chiesa e della sua missione, fu la proposta di un concilio ecumenico le cui finalità e caratteristiche, anche se non sempre tra loro omogenee (aggiornamento, unità dei cristiani e della famiglia umana, attenzione ai segni dei tempi, indole pastorale del magistero, scelta di esporre più chiaramente il valore dell’insegnamento piuttosto che di condannare…), possono essere sinteticamente enucleate nel termine «pastorale».

Infatti, l’indole «pastorale» ha segnato fin dall’origine l’indizione conciliare. Il termine «pastorale», che connotava da tempo la sensibilità di Roncalli, diventa esplicito nel suo ministero come patriarca di Venezia. (62) Viene riproposto dal papa in diversi interventi fino ad arrivare alla celebre Gaudet mater Ecclesia. La letteratura storico-teologica ha sufficientemente documentato non solo la lettera di questa considerazione, ma anche il suo significato (63).

Limitandoci ad alcuni degli interventi più significativi di Giovanni XXIII al riguardo, possiamo iniziare citando le parole con cui la costituzione apostolica Humanae salutis descrive la finalità del Concilio: «Questo si richiede ora alla Chiesa: di immettere l’energia perenne, vivificante, divina del Vangelo nelle vene di quella che è oggi la comunità umana, che si esalta delle sue conquiste nel campo della tecnica e delle scienze, ma subisce le conseguenze di un ordine temporale che taluni hanno tentato di riorganizzare prescindendo da Dio» (64).

Segue il radiomessaggio dell’11 settembre 1962, un mese prima dell’apertura del primo periodo del Concilio: «II mondo infatti ha bisogno di Cristo: ed è la Chiesa che deve portare Cristo al mondo. Il mondo ha i suoi problemi dei quali cerca talora con angoscia una soluzione (…). Questi problemi di acutissima gravita stanno da sempre nel cuore della Chiesa. Perciò essa li ha fatti oggetto di studio attento, e il concilio ecumenico potrà offrire, con chiaro linguaggio, soluzioni che son postulate dalla dignità dell’uomo e dalla sua vocazione cristiana» (65).

Infine è d’obbligo citare quello che è stato considerato l’emblema dell’indole pastorale del Concilio proposta da Giovanni XXIII, l’allocuzione Gaudet mater Ecclesia (66). Si è evidenziato come il papa, con uno squisito gesto primaziale, più che offrire un ordine del giorno per i lavori del Concilio sono noti i commenti anche autorevoli di coloro che ritenevano imprescindibile un programma (67) consegnò una prospettiva o linea di lavoro.

Per quanto riguarda il contenuto dell’allocuzione, «se la prima parte era destinata ai presupposti del Concilio: sperimentata fecondità dell’istituzione conciliare, centralità del Cristo nel rapporto tra concilio e Chiesa e, infine, contesto storico del nuovo concilio, [la] seconda parte concerneva più direttamente i contenuti del lavoro conciliare» (68).

Tra questi contenuti, particolare attenzione è stata dedicata alla caratterizzazione pastorale del magistero, per riproporre la fede cristiana in modo adeguato al cammino storico della Chiesa e, quindi, ai tempi in cui essa è chiamata a svolgere la sua missione.

Vale la pena citare per esteso questo celeberrimo brano: «Noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli. Ma il nostro lavoro non consiste neppure, come scopo primario, nel discutere alcuni dei principali temi della dottrina ecclesiastica (…). Per intavolare soltanto simili discussioni non era necessario indire un concilio ecumenico. Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei concili di Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa e immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale» (69).

Uno snodo ermeneutico decisivo

Non è questa l’occasione per compiere una ricerca dettagliata sull’effettiva recezione da parte dei padri conciliari di questa prospettiva indicata dal papa (70). Tuttavia, occorre riconoscere che parlare di «concilio pastorale» o «indole pa-storale» del concilio implica inoltrarsi in uno dei nodi fondamentali dell’ermeneutica del Vaticano II. Non a caso il significato del termine «pastorale» e l’opportunità di utilizzarlo fu oggetto di dibattito già lungo i lavori conciliari: basti ricordare l’emblematica discussione sul carattere pastorale dello Schema XIII sul titolo che esso doveva ricevere (71).

Cosa si intende per «indole pastorale» del Concilio?

Per descrivere il contenuto di questa espressione possiamo proporre alcuni elementi fondamentali che dovranno essere convenientemente approfonditi nelle sedi adeguate.

In primo luogo, mi sia permesso di riprendere la proposta d’interpretazione dell’indole pastorale del Concilio, che ebbi modo di offrire riflettendo sulla recezione della Gaudium et spes, nel convegno internazionale sul Vaticano II celebratosi a Roma in occasione del grande giubileo del 2000 (72) «In estrema sintesi: – dicevo allora – papa Roncalli, e sulla sua scia Paolo VI e i padri conciliari, hanno inteso sottolineare la natura salvifica della Chiesa proprio con l’evidenziarne il compito pastorale. La Chiesa offre testimonianza della verità che è Gesù Cristo per il fatto di concepirsi essenzialmente propter homines».(73)

Quindi col termine «pastorale» ci si riferisce alla missione storico-salvifica (sacramentale) della Chiesa. Questa prospettiva suppone una considerazione «pastorale» del Chi della Chiesa, all’interno della quale rientra il tema – decisivo, ma circoscritto della formulazione pastorale della dottrina. L’«indole pastorale» mostra che «la Chiesa appare come una realtà essenzialmente eccentrica, definibile solo in base a una duplice costitutiva relazione: a Cristo e alla sua missione, da una parte, e al mondo verso cui è continuamente ed essenzialmente inviata, dall’altra» (74)

Il valore del magistero conciliare

La considerazione «pastorale» della Chiesa, l’identificazione del suo essere essenzialmente «eccentrica», cioè missionaria, conduce a riconoscere che «non c’è annuncio del Vangelo di Dio senza farsi carico del destinatario» (75). Questo farsi carico del destinatario rivela tutta la sua portata nel rinnovamento della teologia della rivelazione e della fede sulla scia della costituzione dogmatica Dei Verbum (76).

Infatti, «la rivelazione diventa realtà soltanto e sempre là dove c’è fede (…). Di conseguenza appartiene, fino a un certo punto, alla rivelazione anche il soggetto ricevente, senza del quale essa non esiste» (77). Occorrerebbe, a proposito del destinatario della rivelazione, approfondire come la storia chieda sempre decisione, chieda libertà.

Non c’è storia che possa prescindere dalla decisione del singolo uomo. Ogni censura fatta alla storia, è condannata a fallire, proprio perché è una sorta di attentato oggettivo contro la libertà.

Questa comprensione dell’indole pastorale del Concilio, infine, permette un risultato di primo ordine (anche per il rapporto con la modernità): «Cristianesimo e storia non sono più pensati come due fattori estrinseci e tra loro presupposti» (78). In forza della «pastoralità» è possibile precisare il rapporto tra cristianesimo e storia nella prospettiva della logica sacramentale (79).

A partire dall’indole pastorale del Concilio risulta plausibile una lettura unitaria delle quattro costituzioni conciliari, che trova nella costituzione pastorale Gaudium et spes la sua espressione emblematica. Secondo tale lettura unitaria le costituzioni Sacrosanctum concilium e Lumen gentium manifestano l’autocoscienza missionaria della Chiesa, cioè, la risposta al celebre interrogativo Ecclesia quid dicis de te ipsa?

Una risposta resa possibile dall’insegnamento su rivelazione e fede a opera della costituzione dogmatica Dei Verbum (80) L’essenza pastorale della Chiesa implica che dica a sé e al mondo chi essa sia e per farlo non può che partire dall’autocomunicazione della Trinità (rivelazione).

Inoltre, è possibile riconoscere continuità tra la prospettiva di un «concilio pastorale» di Giovanni XXIII e l’ac­cento ecclesiologico favorito da Paolo VI (81). In primo luogo, per la valutazione che lo stesso Montini offrì ai suoi diocesani dell’allocuzione Gaudet mater Ecclesia.

Scriveva il 13 ottobre 1962: «Abbiamo visto la Chiesa! E ascoltato! la voce del papa su tutte, una voce di padre e di profeta, quella di un maestro amico del mondo. Bisogna, cari confratelli e fedeli, rileggere il discorso del papa all’apertura del Concilio. È la chiave per comprendere il resto; è l’invito alla sintonia dei sentimenti e dei propositi con il Concilio stesso; è la lezione sul come bisogna oggi guardare il mondo, la vita: “La Chiesa cattolica – ha detto il papa – innalzando per mezzo di questo concilio ecumenico la fiaccola della verità religiosa, vuoi mostrarsi madre amorevole di tutti, benigna, paziente, piena di misericordia e di bontà verso i figli da lei separati. ..”. Bisogna che questa voce del papa risuoni dentro di noi e ci educhi a essere cristiani, e sentirci cattolici. Ascoltare» (82).

In secondo luogo, in forza della ripresa esplicita della Gaudet mater Ecclesia e della finalità pastorale del Concilio proposta dallo stesso Paolo VI nel discorso di apertura del secondo periodo conciliare, il 29 settembre 1963 (83).

Un testimone privilegiato del nesso intrinseco tra indole pastorale del Concilio e rinnovamento dell’autocoscienza della Chiesa, è il cardinale Karol Wojtyla e il suo ministero a Cracovia.

Nella sua opera Alle fonti del rinnovamento il futuro Giovanni Paolo II coglie acutamente il nesso tra pastoralità, autocoscienza e realizzarsi della Chiesa: il Vaticano II «conservando il carattere di pastoralità — anzi, proprio a motivo del suo fine pastorale — ha sviluppato largamente la dottrina della fede e di conseguenza ha creato le basi per il suo arricchimento (…). Infatti, prendendo in esame l’insieme del magistero conciliare, ci accorgiamo che i pastori della Chiesa si prefiggevano non tanto e non soltanto di dare una risposta all’interrogativo: in che cosa bisogna credere quale è il genuino senso di questa o quella verità della fede o simili, ma cercavano piuttosto di rispondere alla domanda più complessa: che cosa vuoi dire essere credente, essere cattolico, essere membro della Chiesa? Essi si sono adoperati a dare risposta a questo interrogativo nell’ampio contesto del mondo di oggi» (81).

L’azione del card. Wojtyla e il magistero di Giovanni Paolo II individuano nel singolare principio dell’ arricchimento della fede la nota distintiva di questa pastoralità: non si tratta di un principio puramente intellettuale, ma di una concreta attuazione di forme ecclesiali personali e comunitarie (85).

Per concludere questo secondo passaggio della nostra riflessione, mi preme sottolineare che l’indole pastorale del Concilio, lungi dal depotenziare la portata del Vaticano II per la Chiesa e l’importanza del suo insegnamento dottrinale (86), la rafforza. E lo fa proprio perché mostra come dalla considerazione della missione della Chiesa scaturisca la possibilità di una più adeguata comprensione della stessa rivelazione cristiana.

Ecco perché l’indole pastorale del Concilio ne esalta tutta la portata dottrinale: «Sarebbe assolutamente sbagliato contrapporre l’intenzione e il modo di esprimersi pastorale del Concilio al significato dottrinale, esplicitamente formulato e continuamente ribadito, dimenticando che i suoi testi contengono “un serio appello alla coscienza del cristiano cattolico” (J. Ratzinger)» (87).

3. EVENTO E CORPUS DOTTRINALE

Gli albori del Concilio

Nell’ esaminare gli albori del lavoro conciliare, con tutta l’attività di preparazione che lo precedette, dobbiamo in questa sede, per ovvi motivi, lasciar cadere altre vicende non prive di complessità (88), e concentrarci su due momenti: gli interventi dei cardinali Liénart e Frings, quest’ultimo anche a nome dei cardinali Dòpfner e Kònig, del 13 ottobre 1962, e la considerazione degli schemi, approntati durante la fase preparatoria, fino al loro arrivo in aula conciliare.

Gli studiosi hanno segnalato l’importanza della richiesta di rinvio della votazione delle commissioni conciliari fatta dal cardinale Liénart e appoggiata dall’arcivescovo di Colonia (89). Definire questo fatto come «rottura della legalità conciliare» (90) significa prescindere dall’accettazione della proposta da parte della presidenza. Ed è quindi un abuso interpretativo.

E rinvio della votazione consentì di comporre le commissioni conciliari incrementandone sia l’internazionalità sia la pluralità di visioni e di competenza teologica dei membri. Soprattutto «è necessario considerare come frutto di questa prima decisione fondamentale del Concilio, il ristabilimento d’una tensione feconda tra periferia e centro, tra la molteplicità vivente del cattolicesimo rappresentata dall’episcopato e l’unità la cui garanzia è affidata al primato.

E si deve aggiungere che la tensione tra questi due elementi non è assolutamente, come qualche osservatore sorpreso ha deplorato, un andare “in panne”, un doloroso incidente di percorso, ma questa tensione, e l’arricchimento reciproco tra l’uno e il molteplice che ne risulta, appartiene di per sé all’espressione stessa della vita della Chiesa, essere vivente che, infatti, ha bisogno di tali tensioni per svilupparsi» (91).

In secondo luogo, è opportuno offrire qualche precisazione in merito agli schemi preparati per lo svolgimento del concilio.

Un primo dato che è conveniente sottolineare riguarda il lavoro della Commissione centrale preparatoria, che vide la presenza di personalità come Alfrink, Bea, Cicognani, Dòpfner, Frings, Kònig, Larraona, Léger, Liénart, Montini, Ottaviani, Pizzardo, Ruffini e Siri (92). È, infatti, necessario evidenziare che in quella sede cominciò a farsi spazio, pur timidamente, l’intendimento pastorale proposto da Giovanni XXIII (93).

Un secondo dato riguarda la quantità degli schemi preparati. Si è giunti addirittura a parlare di «miopia ed elefantiasi del lavoro preparatorio», (94) giudizio che dev’essere adeguatamente corretto. Infatti, già nel 1971 Vincenzo Carbone fornì gli elementi necessari per poter concludere che «il numero degli schemi fu ridotto a ventidue senza particolari difficoltà» (95).

In terzo luogo, è opportuno notare che i giudizi sulla qualità e il tenore degli schemi preparati sono molto discordi e anche contraddittori. Non manca chi li considera la «quintessenza» di quella che viene chiamata «teologia o corrente romana», tesa a proporre un concilio dottrinale di preservazione della fede e condanna degli errori moderni (96).

All’opposto estremo, soprattutto per quanto riguarda il materiale preparato dalla commissione teologica, (97) troviamo l’opinione di chi considera, senz’altro con una certa enfasi polemica, che «sicuramente il periodo preparatorio fu teologicamente più interessante e importante del periodo conciliare» (98).

Sull’importanza degli schemi preparatori

Alla luce dell’uso effettivo degli schemi preparati nel processo di redazione e approvazione dei diversi documenti conciliari – oggi è riconosciuto, anche da coloro che mantengono pareri contrapposti sul loro valore, che gli schemi hanno avuto una loro importanza – (99) appare più equilibrato il giudizio sul materiale preparatorio che Joseph Ratzinger offre in La mia vita: «Come membro della commissione centrale per la preparazione del Concilio il cardinal Frings ricevette gli schemi preparatori (“Schemata”), che dovevano essere presentati ai padri dopo la convocazione dell’assemblea conciliare per essere discussi e approvati. Questi testi egli me li inviò ora regolarmente, per avere un mio parere e delle proposte di miglioramento. Ovviamente, su diversi punti avevo qualcosa da osservare, ma non trovavo nessuna ragione per rifiutarli del tutto, come poi, durante il Concilio, fu da molti richiesto e, infine, anche ottenuto. Indubbiamente, il rinnovamento biblico e patristico, che aveva avuto luogo nei decenni precedenti, aveva lasciato solo poche tracce in questi documenti; essi davano quindi un’impressione di rigidità e di scarsa apertura, di un eccessivo legame con la teologia scolastica, di un pensiero troppo professorale e poco pastorale; ma si deve riconoscere che essi erano stati elaborati con cura e solidità di argomentazioni» (100).

Un tale giudizio, infatti, permette di meglio comprendere sia il contributo reale dell’attività preparatoria ai lavori conciliari, sia le ragioni dell’esito degli schemi dopo la loro presentazione in aula.

Un esempio paradigmatico, anche se di poco esula dal penodo che stiamo considerando, ci viene offerto dal primo dibattito sullo schema De Ecclesia, iniziato il 1 dicembre 1962 nella XXXI Congregazione generale. Esso è preceduto dal sintomatico lamento del cardinale Ottaviani sulle critiche che avrebbe ricevuto lo schema presentato (101).

Il dato significativo, che gli studiosi mettono in evidenza con acribia, è costituito dal fatto che le critiche allo schema non riguardano direttamente i contenuti dottrinali del medesimo, bensì il loro stile teologico. Gli interventi dei padri conciliari lasciano trasparire la necessità non solo di accettare la prospettiva di Giovanni XXIII sull’indole pastorale del Concilio, ma anche di assumere gli apporti dei movimenti di rinnovamento (missionario, catechistico, biblico, patristico, liturgico…) precedenti al Concilio (102)

Già il Philips nel suo commento alla costituzione Lumen gentium osserva: «Malgrado gli elogi che gli vengono decretati (semplici formule di cortesia, per entrare in argomento) il testo proposto è oggetto di critiche aperte. La maggior parte degli oratori riconosce che il lavoro dottrinale è stato condotto diligentemente; i punti trattati sono effettivamente della massima attualità e perseguono obiettivi di un alto insegnamento.

Ma l’esposizione è per lo più troppo astratta e troppo schematica per essere in grado di promuovere un rinnovamento di fede profondo ed efficace. Inoltre, il testo assomiglia piuttosto a una giustapposizione di punti dottrinali che a un insieme veramente strutturato (…). Si fa rilevare la differenza tra lo spirito che papa Giovanni aveva descritto nel suo impressionante discorso inaugurale e il modo in cui è concepito il documento, sia nella sostanza sia nella forma, dove si stenta a intravedere le preoccupazioni del papa. Tutti desiderano una esposizione di carattere pastorale; ma non si è d’accordo sui metodi per arrivarvi» (103).

Il soggetto Chiesa si disse

L’esito del dibattito sugli schemi approntanti prima dell’apertura del Concilio e, soprattutto, la richiesta di un’esposizione pastorale della materia da trattare faranno spazio a un nuovo «modus loquendi determinato, a monte, dal ritorno alle fonti e, a valle, dai destinatari ai quali ci si vuoi rivolgere» (104). Siamo così di fronte al processo di rinnovamento caratteristico del Vaticano II.

Sia la decisione di rinviare la votazione delle commissioni, sia la sorte degli schemi preparatori ci consentono di identificare un terzo nodo ermeneutico: tra evento e corpus dottrinale si da conformità o antinomia? (105)

E possibile superare tale alternativa? A mio modo di vedere lo è se vengono assunte fino in fondo sia un’ermeneutica adeguata della storia — primo passaggio della nostra riflessione – sia l’indole pastorale dell’insegnamento conciliare secondo passaggio.

Infatti, l’ermeneutica della storia conciliare ci indica che l’urgenza missionaria (indole pastorale) richiese di rispondere alla domanda: chi è la Chiesa? Tale domanda trovò nel Concilio (evento), come espressione rappresentativa della Chiesa, la sua risposta: nell’evento del Concilio il «soggetto Chiesa si disse» (corpus dottrinale).

In questo senso, i documenti conciliari non solo fanno parte integrante dell’evento, ma permettono l’accesso all’evento stesso nella sua verità. Evento e testi sono semplicemente indisgiungibili (106). Non c’è antinomia tra evento e corpus dottrinale, ma conformità.

Tuttavia è possibile domandarsi: esiste una sporgenza dell’evento rispetto ai testi? Esiste. E non deve meravigliare. Basta citare l’analogia (senza perdere di vista la maggior differenza) con la rivelazione: l’autocomunicazione della Trinità all’uomo e alla famiglia umana sporge rispetto alla Tradizione e alla sacra Scrittura – che pure è ispirata e canonica — autenticamente interpretate dal magistero, eppure non si ha accesso all’autocomunicazione che Dio ha voluto far di sé a prescindere dalla rivelazione scritta o trasmessa (cf. Dei Verbum, nn. 7-10; EV1/880-888).

La sporgenza a cui ci stiamo riferendo è irriducibile, perché è propria del cammino storico della Chiesa. E al suo interno che si deve leggere l’incidenza del Concilio e il grado della sua recezione.

L’inadeguatezza dell’opposizione evento-testi ci porta a riconoscere, ancora una volta, l’inseparabile intreccio tra l’elemento teologico e quello storico. La storia non può essere ridotta a una somma di fatti bruti tra loro giustapposti. La storia ha un senso perché in essa si attua il destino dell’uomo.

La storia è res gestae, cioè espressione di azioni significanti. Questo dato emerge con chiarezza proprio dalla considerazione dell’ intenzione generativa dei testi che narrano la storia. Questi, infatti, non si lasciano spogliare di tale intenzione in nome di una pretesa oggetti-vita, sotto pena di cadere in balìa di una ricerca puramente soggettiva. L’esistenza di uno scarto tra l’analisi critica di un testo e l’intenzione generativa del medesimo va indubbiamente riconosciuta.

Ma è proprio questo scarto a garantire la natura fondativa dell’intenzione generativa del testo, impedendo al lettore o allo scienziato di appropriarsene come se fosse un suo prodotto. L’intenzione, sempre soggiacente al racconto storico, è una solida prova di come le circostanze e i rapporti che si danno nella storia provochino la libertà a prendere posizione, a decidere. Proprio per questa ragione, evento e testi frutto dell’evento chiedono adesione.

Il rapporto indisgiungibile evento-corpus di insegnamenti, che non elude la questione dell’inevitabile e benefica sporgenza, fa emergere, ancora una volta, attraverso il peso dell’intenzione generativa, l’insostituibile ruolo del protagonista del Concilio e della recezione: il «soggetto Chiesa».

4. «LA CHIESA PROSEGUE IL SUO PELLEGRINAGGIO»

La lettura del concilio Vaticano II, anche limitata al tempo che va dai suoi albori fino all’apertura, impone un’ermeneutica adeguata della storia. Alla luce della chiave della pastoralità, questa lettura è resa possibile dalla polarità evento-corpus, mantenuta in indisgiungibile unità dal «soggetto Chiesa» in cammino nella storia.

Il Vaticano II è stato una tappa singolare e decisiva dell’avanzare della Chiesa lungo la storia, un provvidenziale «balzo innanzi». Sono molto significative le parole finali di Lumen gentium 8 che, mentre chiudono il capitolo I sul mistero della Chiesa, introducono al capitolo II sul popolo di Dio, mostrando così l’inscindibile unità tra l’origine tri-nitaria della Chiesa e il suo essere soggetto storico (107).

«La Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la passione e la morte del Signore finché egli venga (cf. 1 Cor 11,26). Dalla potenza del Signore risorto viene corroborata per vincere con pazienza e carità le sue afflizioni e difficoltà interne ed esterne e per svelare al mondo con fedeltà, anche se in immagine, il mistero di lui, fin quando alla fine sarà manifestato in piena luce» (108).

Questo pellegrinaggio non può compiersi senza la dinamica della riforma. Non a caso, prima di concludere il paragrafo, lo stesso numero 8 di Lumen gentium recita: «La Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa e insieme sempre bisognosa di purificazione [semper purificanda], è continuamente dedita alla penitenza e al rinnovamento».

Nell’ottica di questa formula conciliare si spiega il ricorso alla categoria di riforma. Essa non può essere adeguatamente compresa da letture costituzionaliste del corpus del Vaticano II (109) e non è riducibile a cambiamenti puramente istituzionali (110). La riforma è legata all’approfondirsi dell’autocoscienza e della santità ecclesiali che lo Spirito assicura alla Sposa soprattutto quando questa non rinuncia a proporre in ogni tempo storico, disposta al martirio, l’avvenimento salvifico di Cristo (111)

Se «la Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma» (Unitatis redintegratio, n. 6; EV l/520s), allora la categoria di riforma (112), che invera quelle di aggiornamento e di rinnovamento utilizzate da Giovanni XXIII (113) e da Paolo VI, (114) supera le false problematiche della continuità e della discontinuità e quelle della rottura e della persistenza. In quest’ottica ci sembra si muova il già citato discorso di Benedetto XVI alla curia romana del 22 dicembre 2005.

La categoria di riforma, quindi, al di là di eventuali comprensioni riduttive del suo significato, continua a sembrare a me la più conveniente per leggere la natura dell’‘evento conciliare e per un’adeguata ermeneutica del suo corpus nell’ottica della pastoralità. La categoria di riforma mette in evidenza il primato della fede — si vede così il legame tra il concilio Vaticano II e l’Anno della fede che Benedetto XVI ha voluto esplicitare nel motu proprio Porta fidei – poiché «la fede stessa, in tutta la sua grandezza e ampiezza, è sempre nuovamente la riforma ecclesiale di cui noi abbiamo bisogno» (115).

È questa la prospettiva con cui affrontare il processo di recezione del Vaticano II. Esso è parte integrante dell’essenziale compito missionario della Chiesa, cioè, del suo porsi nella storia come sacramento universale di salvezza (116).

L’indole pastorale, intesa nella sua pienezza che va dall’‘evento al corpus dottrinale, rappresenta il novum del Vaticano II. I suoi benefici effetti sono già ben visibili nella storia della Chiesa. Tuttavia la sua recezione, ancora in atto, continua a esigere dai cristiani una risposta libera e generosa alla chiamata di Dio che si attesta nella trama storica di circostanze e di rapporti.

 Città del Vaticano, Salone San Pio X, 3 ottobre 2012.
Card. Angelo Scola
Arcivescovo di Milano