Benvenuti nella giungla

burocraziaTempi n.42 – 24 ottobre 2012

Un adagio molto in voga tra i commercialisti dice che in Italia un imprenditore che vuole applicare esattamente la legge non ha mai la certezza di averlo fatto. Quando pagare le imposte diventa un mestiere a tempo pieno

Laura Borselli

Chiara ha meno di 20 anni, attitudine a stare sui libri poca. Precisione e cura nello stendere lo smalto tanta. Tantissima. Capita così che decida di fare della sua passione un lavoro vero. Fuori dalla porta c’è già la fila di sorelle e amiche, ma lei prima deve diventare estetista diplomata.

Quei quattromila euro per la scuola glieli prestano volentieri i genitori e dopo un anno lei non vede l’ora di ridarglieli lavorando. Peccato che il percorso non sia così facile. Tanto per cominciare bisogna aprire la partita Iva all’Agenzia delle entrate attraverso una procedura telematica che necessità di un commercialista o di un caf che facciano da intermediario.

Bisogna pagare 71 euro di diritti e poi altri 40 per un’apposita tessera digitale (che si ottiene mettendosi in fila alla Camera di commercio). Alla Camera di commercio bisogna poi iscriversi, pagando diritti per circa 88 euro. Poi arriva il capitolo più spinoso: un posto dove esercitare l’attività. Perché non è semplice trovare un luogo che abbia il minimo di metri quadrati richiesti, l’illuminazione in regola, porte e finestre adatte, pareti lavabili e ovviamente l’attrezzatura del mestiere a norma con tutti i requisiti igienico-sanitari. Una volta trovato il posto le autorizzazioni devono effettivamente arrivare.

Al Comune bisogna aprire la pratica di segnalazione certificata di inizio attività, compilare tre fogli con marca da bollo di 14,62 euro e allegare un bel po’ di altro materiale: planimetria dei locali (ed è vano sperare che vada bene la prima volta: come minimo bisogna modificarla un paio di volte), modalità di sterilizzazione delle attrezzature, sanificazione e disinfezione dei locali, certificato di lavabilità delle pareti. Tutti fogli che un professionista deve redigere. E ovviamente non lo fa gratis. Poi bisogna mettersi a tampinare la Asl perché venga a controllare l’effettiva regolarità dei locali.

La nostra Chiara (il nome è di fantasia, tutto il resto no) ha iniziato le pratiche oltre sei mesi fa. Ora sembra vedere la luce in fondo al tunnel. Intanto le sue compagne di scuola hanno iniziato da tempo a lavorare abusivamente in casa e la clientela non manca. Perché di questi tempi una manicure a cinque euro in meno fa comodo a tanti.

L’esperienza di chi lavora in proprio nel nostro paese mostra quello che puntualmente le tabelle e le statistiche mettono nero su bianco: in Italia professionisti e imprenditori non hanno vita semplice. Nella classifica sulla facilità di fare impresa stilata nel rapporto Doing Business 2012 il nostro paese si collocava all’ottantasettesimo posto sui 183 paesi del mondo.

I dati relativi al 2013 saranno pubblicati tra pochi giorni, ed è difficile pensare che ci sarà un miglioramento significativo. La situazione è la medesima da tempo immemore. Le difficoltà elencate dagli imprenditori sono sempre le stesse: ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, scarsa propensione (diminuita ancora di più con la crisi) delle banche a concedere crediti, tasse elevate e soprattutto complicate.

Secondo il rapporto presentato a giugno dalla Confartigianato, nell’ultimo anno le piccole e medie imprese italiane hanno speso in oneri amministrativi 23.080 milioni di euro, equivalenti a 5.269 euro per impresa e pari a 1,5 punti di Pii. Gli imprenditori artigiani hanno dedicato alla gestione delle pratiche amministrative 123.670.831 giornate, equivalenti a 86 giornate l’anno per impresa. In pratica solo dal 30 aprile gli imprenditori sono liberi dalla burocrazia e possono occuparsi della propria attività.

Nel 2012, sempre per citare testualmente il rapporto di Confartigianato, la pressione fiscale in Italia ha toccato il massimo storico ed è pari al 45,1 per cento del Pil, con una crescita di 2,6 punti in un anno. Le tre manovre economiche del 2011, una ogni 51 giorni, hanno lasciato un segno indelebile nella storia dei conti pubblici italiani.

L’eccezionale crescita di quest’anno fa sfondare il precedente massimo della pressione fiscale di 43,9 per cento registrato nel 1997. Ma, se si considera il mancato gettito dell’economia sommersa, la pressione fiscale effettiva è pari al 53,7 per cento. Le tasse pesano in modo particolare sui salari: in Italia il cuneo fiscale che grava sul costo del lavoro di un dipendente single senza figli con retribuzione media, è pari al 47,6 per cento.

Si tratta del sesto cuneo fiscale più oneroso tra i 34 paesi avanzati dell’Ocse, con un livello di 12,3 punti superiore alla media di 35,3 per cento registrata nei paesi Ocse. E mentre le imprese italiane sopportano questo salasso, una larga parte dell’economia sfugge a qualsiasi tassazione e prospera indisturbata. Secondo il rapporto di Confartigianato le attività sommerse infatti generano un valore aggiunto che oscilla tra un minimo di 255 miliardi di euro e un massimo di 275 miliardi di euro, pari rispettivamente al 16,3 per cento e al 17,5 per cento del Pil

Adempimenti assurdi

Che il nostro sia paese con un talento tutto particolare nel mettere i bastoni tra le ruote a chi lavora non è una novità. Basta fare un giro tra commercialisti e tributaristi per perdersi in una giungla inimmaginabile di adempimenti e di regole di accertamento “presuntivo” del reddito. Per dirne una. Il nostro ordinamento da il potere all’Agenzia delle entrate di contestare ai contribuenti come maggior reddito le somme in entrata sul conto corrente che il contribuente non possa giustificare come irrilevanti.

In parole povere: il fisco può sbirciare il conto corrente bancario e chiedere conto di alcune somme. Il contribuente a quel punto deve dimostrare che si tratta di somme già tassate oppure di prestiti, donazioni, ossia denaro su cui lo Stato non può avanzare pretese.

Il problema è che per imprenditori e professionisti la norma va oltre e stabilisce che vadano considerati come ricavi anche gli importi in uscita dai conti e non giustificati, cioè non transitati dalla contabilità aziendale o per i quali non è indicato il beneficiario. Non solo: questa presunzione viene estesa anche alle operazioni sui conti di terzi, legati alla società (i soci) o legati all’imprenditore individuale (per esempio i familiari).

A quel punto il familiare di un imprenditore che diviene oggetto di un accertamento da parte del fisco deve dimostrare di non aver nulla da nascondere. E lo deve fare giustificando anche le proprie uscite.

Siccome, come è ovvio, non dispone di scritture contabili, deve fornire i documenti (assegni, bonifici che devono essere chiesti, a pagamento, alle proprie banche) che giustificano la spesa con riferimento all’anno o agli anni controllati (fino a 4 anni precedenti, è questo il termine per l’accertamento).

Produrre i giustificativi in molti casi è impossibile, innanzitutto perché spesso è difficile risalire ad assegni inferiori a 2-3 mila euro. In secondo luogo perché si tratta sovente di prelevamenti in contanti effettuati per far fronte alle spese familiari. In casi in cui la documentazione non sia producibile o risulti non sufficiente l’Ufficio imposte accerta in capo alla società (o in capo all’imprenditore) come ricavi omessi anche la somma delle “uscite” non giustificate dei soci (o dei familiari) dai loro conti personali. In soldoni: non sei in grado di dimostrare come hai speso determinate cifre?

Significa che hai guadagnato dei soldi senza pagarci sopra le tasse. E allora ecco scattare maggiori imposte (sul reddito, Irap e Iva) oltre alle relative sanzioni proporzionali (100 per cento delle imposte). Imposte calcolate su un reddito, in realtà, “inesistente”, dal momento che non vi è nessuna dimostrazione che la società (o l’imprenditore) abbia effettuato operazioni in nero.

Controlli a carico nostro

Un’altra norma bizzarra è quella originariamente pensata per contrastare il fenomeno dell’evasione nel settore dell’edilizia. Tecnicamente si dice che vi è una responsabilità del committente per l’esecuzione del controllo degli adempimenti fiscali nei contratti di appalto tra appaltatore e subappaltatori (sia per ritenute Irpef sul lavoro dipendente che per l’Iva dovuta sulle prestazioni oggetto dell’appalto).

In sostanza il committente di opere o di servizi deve verificare che l’appaltatore e i subappaltatori siano in regola con il versamento delle ritenute fiscali e dell’Iva. Se il committente non controlla oppure se gli obblighi tributari non vengono osservati, è il committente stesso ad essere sanzionabile.

Fino a pochi mesi fa, addirittura, il committente era anche solidamente responsabile per il versamento delle imposte. Ora, per fortuna, questo dettaglio è scomparso (anche se nei suoi chiarimenti, l’Agenzia delle Entrate non sembra averne preso atto).

Si potrebbe continuare a lungo, cominciando dagli studi di settore e finendo con l’odiosissima Irap, introdotta nel 1997 da Vincenzo Visco, l’imposta sulle “attività produttive” che si calcola facendo la differenza tra ricavi e costi (ma nei costi non è compreso il costo del lavoro che, come si sa, in Italia è altissimo).

Insomma gli adempimenti non solo sono tanti, ma spesso sono anche poco chiari. Un adagio molto in voga tra i commercialisti dice che in Italia un imprenditore che vuole applicare esattamente la legge non ha mai la certezza di averlo fatto. A causa delle modifiche normative “in corso d’opera” (norme con efficacia retroattiva) e degli accertamenti presuntivi spesso usati in modo indiscriminato.

Capita spesso che le regole cambino durante il gioco. L’ultimo esempio è freschissimo e riguarda il tetto alle detrazioni previsto dalla Legge di stabilità licenziata dal governo e ora in attesa di passare dal Parlamento. L’esecutivo medita di ridurre la quota scaricabile sul fisco di numerose spese familiari e, in deroga allo Statuto del contribuente, il nuovo regime dovrebbe applicarsi retroattivamente a decorrere dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2012. Ma su questo il dibattito è aperto.

Un paio di settimane fa l’Agenzia delle entrate ha scritto alle associazioni di categoria per chiedere suggerimenti sulla semplificazione degli adempimenti burocratici a carico dei contribuenti. Scartoffie per semplificare. Lineare, no?

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Parlano Bartolussi e Sangalli

La scure del governo colpisce i già debolissimi consumi

La tassa più odiosa? Senza dubbio l’Imu, secondo Giuseppe Bortolussi, direttore della Cgia di Mestre, che la eliminerebbe volentieri se avesse una bacchetta magica. L’associazione veneta ha calcolato che, rispetto all’Ici, il prelievo per i negozi e i laboratori risulta mediamente raddoppiato, mentre per i capannoni si registrano incrementi di imposta che superano il 60 per cento.

«È una tassa – spiega a Tempi Bortolussi – che non colpisce solo chi è proprietario, ma anche chi è affittuario che si vede aumentare il canone mensile». La Legge di stabilità, stando al poco che ne sa ad oggi, solleva non poche perplessità, soprattutto per il prospettato tetto alle detrazioni (sulla cui retroattività si annuncia battaglia in Parlamento) e per il taglio dell’Irpef cui fa da contraltare un aumento dell’Iva, tutti provvedimenti che penalizzano i consumi in maniera indiscriminata e vanno a incidere sui meno abbienti.

«Gli aumenti Iva – ci spiega Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio – incidono di più su chi ha minori disponibilità di reddito e destina la maggior parte del suo reddito ai consumi. Inoltre, è evidente che i soggetti fiscalmente incapienti – circa dieci milioni di cittadini non assoggettati all’Irpef per il loro basso reddito – non avranno nessun beneficio dalla riduzione Irpef e sconteranno integralmente l’aumento Iva».

Anche per Bortolussi il governo sta esagerando con il rigore: «Monti ha problemi legati al fatto che è un tecnico. La politica sceglie cosa fare, il tecnico sceglie come fare. Lui è un bravo chirurgo ma in questo momento il malato è in carenza di ossigeno.Colpire i consumi oggi significa togliere l’ossigeno».

[Ib]