La triplice verginità di Maria – I. de La Potterie S.J. (2)

Marianum XLV (1983)

II parto verginale del Verbo incarnato:
«Non ex sanguinibus…,  sed ex Deo natus est» (Gv. 1, 13) *

Maria Vergine

IGNACE DE LA POTTERIE, S.I.
(Pontificio Istituto Biblico – Roma)

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[a causa della mancanza di idonee font nel sito la grafia delle  parole greche può risultare scorretta n.d.r.]

3. L’ultimo testo citato ci da l’occasione di fare un’osservazione più generale di una certa importanza: si rimane colpiti dall’insistenza frequente nella tradizione patristica sull’incontaminazione di Maria. Perché? In tali testi, probabilmente, traspare ancora l’antica preoccupazione giudaica per la purità rituale, secondo la quale lo spargimento di sangue al parto era per la donna una contaminazione (71). Ma nel caso della nascita del Salvatore, la sua madre Maria rimase «incontaminata».

L’insistenza sul fatto dimostra che questi autori si muovono ancora in una tradizione giudeo-cristiana. In un tale contesto veniva applicata a Maria una serie di termini molto caratteristici:  άμίαυτος,  άμόλυυτος,  άxραυτος  (impollutus)  άxράυτως ,  άμολύυτως ,  άρυπάρως ,  άφδόρως ,  παυτός  έλευδέρα  μολύσματος ,  xαδαρός ,  μή  οϋσα  άxάδαρτος  ή  Μαρία  (72). Ma la novità cristiana sta proprio nel fatto che questo vocabolo della contaminazione e dell’incontaminazione non viene usato solo per dire che non ci fu effusione di sangue nel parto di Maria, ma anche per parlare del momento della concezione (qui evidentemente, l’incontaminazione si intende in un altro senso: l’esclusione di ogni rapporto con l’uomo); inoltre, per l’uno come per l’altro di questi due momenti, viene più volte aggiunto il termine cristiano «vergine» (73).

D’altra parte, da Ireneo in poi, c’è una tendenza a sostituire al vocabolario del1′ incontaminazione, termini che mettono direttamente in luce la totale purezza di Maria, specialmente άγυός,  πάυαγυος,  purus, castus, immaculatus (74).Ecco due esempi:

a) sant’Ireneo:

«Quonam Verbum caro erit et Filius Dei filius hominis, purus pure puram aperiens vulvam, eam quae regenerat hominem in Deum, quam ipse puram fecit» (Adversus haereses, IV, 33, 11: SC, 100, 830; PG, 7, 1080 B);

sant’Ambrogio:

«Aperuit matris suae vulvam, ut inmaculatus exiret » (Expositio in Incora, II, 57: CCL, 14, 56; PI, 15, 1655 A [1573 A]).

Ma più chiara ancora è l’insistenza su termini nuovi, tipicamente cristiani, come  παρδέυος  άειπάρδευος  παρδευιxός  virgo, per descrivere la verginità di Maria in quel momento in cui partorì il suo figlio (75). La preoccupazione per la purezza rituale stava scomparendo. I Padri mettevano sempre più in risalto l’aspetto morale e religioso della purità di Maria e della sua verginità al momento del parto.

D’altra parte però, l’estensione della terminologia alla concezione (fu un concepimento verginale) rappresenta una notevole cristianizzazione del vocabolario. Probabilmente questo spiega pure il fatto precedentemente notato — e questa volta il fatto è veramente paradossale — che i Padri parlano anche della purità e verginità di Maria per il periodo della gravidanza, durante il quale, nella tradizione giudaica, l’idea di una eventuale contaminazione non veniva nemmeno presa in considerazione (76).

Prendeva invece un senso importante nella prospettiva dell’incarnazione, perché dal sangue «santo» di Maria il Figlio di Dio doveva «nascere santo» (Le 1, 35; cfr infra). Pertanto, Maria viene presentata come vergine sia nella concezione sia nella gestazione sia nel parto; e si aggiungerà presto: anche dopo il parto (ma questo non è più il nostro problema). Si arriva così al titolo classico  Άειπάρδευος  (77).

4. Queste diverse indicazioni della tradizione patristica erano necessarie per far vedere che l’espressione giovannea «non da sangui» apparteneva primitivamente a un contesto giudeo-cristiano abbastanza preciso, con un interesse speciale per l’incontaminazione di Maria nel suo parto: (78) era un contesto di lettura importante per l’interpretazione esatta del nostro versetto. Questa preoccupazione per il fatto che non c’era nessuna «macchia» nella madre di Gesù è rimasta viva nella patristica antica: ma l’incontaminazione, a quanto pare, fu interpretata sempre di più in senso religioso e cristiano, come sinonimo di verginità.

D’altra parte, bisogna sottolineare un dettaglio importante. Nel testo di Giovanni, viene senza dubbio sottolineato il fatto realistico dell’assenza di spargimento di sangue nel parto di Cristo, ma la ragione non è più di tipo legalistico (non si tratta di un tabù: l’interesse per la purità rituale di Maria, in Giovanni, è già scomparso. Il punto che l’evangelista vuoi mettere in luce è l’aspetto non carnale ( ούδέ  έx  δελήματος  σαρxός ) di questo concepimento e di questo parto.

Tuttavia, il vero senso di questi aspetti negativi si può cogliere soltanto in connessione con l’affermazione positiva finale ( έx  δεοΰ  έγευυήδη ), cioè in relazione col mistero di Cristo, quello del suo rapporto filiale col Padre, come vedremo più avanti.

b) II testo di Giovanni

Torniamo pertanto al nostro versetto per situarlo esattamente nel suo contesto: l’espressione «non da sangui» ha una funzione precisa nell’insieme dei vv. 11-14 del prologo. Osserviamo attentamente i diversi movimenti del pensiero in questo brano. Come di solito, Giovanni mette qui una stretta relazione tra la vita di Cristo e il comportamento degli uomini davanti a lui.

Si delinea così, dal vv. 11 al v. 14, un doppio sviluppo parallelo: da una parte la rivelazione del Verbo «venuto tra i suoi» (v. 11), che si fa conoscere come Figlio di Dio; dall’altra, l’approfondimento della fede dei credenti, chiamati per mezzo della fede in lui a diventare anche loro figli di Dio (v. 12).

1. La rivelazione cristolagica in Gv 1,11-14 segue paradossalmente un ordine regressivo, cioè, si muove a ritroso, andando dal fatto globale della venuta di Cristo tra i suoi (v. 11) verso un momento preciso del passato, l’incarnazione (v. 13), ma per tornare poi di nuovo alla presenza del Verbo incarnato fra i suoi (v. 14); questa volta però viene considerata come oggetto della contemplazione dei testimoni (quindi durante la vita pubblica).

Ma rispetto alla prima accoglienza del Gesù storico, a cui si accennava nel v. 12, si è raggiunto al v. 14 un livello più profondo, quello del mistero di Cristo: i discepoli sanno ormai che egli è il Figlio unigenito venuto da presso il Padre (79). Ma come si è passati, dall’aspetto esteriore, alla conoscenza della vera identità di Gesù come Figlio di Dio, cioè alla scoperta del suo mistero interiore? L’elemento intermediario presentato nel contesto è una riflessione sul modo in cui l’uomo Gesù è stato partorito e concepito (vv. 12-13). L’importanza di questa riflessione sul concepimento e sulla nascita del Verbo incarnato verrà messa in luce più avanti (al § 4).

2. Ma consideriamo prima lo sviluppo parallelo, quello dell’atteggiamento di fede degli uomini. Al v. 11, l’evangelista dice che, davanti alla venuta del Verbo tra «i suoi» ( οί  ϊδιοι ), la loro risposta fu negativa. Ma dal v. 12 al v. 14 descrive l’atteggiamento positivo di coloro che «lo hanno accolto» ( έλαβου ): questa «accoglienza» però era stata solo il momento iniziale del loro incontro con lui, al tempo della sua vita terrestre.

Per la descrizione della crescita esistenziale di questa fede (e del frutto che produce: l’approfondimento nella vita filiale), Giovanni segue semplicemente l’ordine storico: dopo aver ricordato l’accoglienza passata (cfr l’aoristo  έλαβου ), egli considera la maturazione della fede presente ( τοϊς  πιστεύουυσιυ  είς  τό  όυομα  αύτοϋ ) per aprire subito una prospettiva sul divenire futuro ( έξουσίαυ … γευέσδαι ), cioè sulla possibilità per i credenti di diventare sempre più figli di Dio.

Quale è il complemento dei verbi e quindi l’oggetto della loro fede? Progredendo nella lunga frase, si concentra nelle ultime parole: «(credono che egli) è stato generato da Dio»; e si aggiunge al v. 14: egli è «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre». Soltanto la fede nel Verbo incarnato, Figlio unigenito, è per Giovanni l’autentica fede in Gesù Cristo (cfr Gv 20,31).

3, II paradosso quindi è che, mentre lo sviluppo della fede dei discepoli è descritto secondo l’ordine cronologico (dal passato al presente, verso il futuro, nella vita dei credenti), l’oggetto stesso di questa fede — la vita e il mistero di Cristo — viene presentato nell’ordine inverso di quello storico, come abbiamo osservato: dalla manifestazione (pubblica) di Cristo tra i suoi, Giovanni risale indietro fino di’incarnazione. Là infatti si trova per l’evangelista la chiave del mistero di Cristo. Per far comprendere che Gesù è il Figlio di Dio, egli concentra tutta la sua attenzione su quel momento iniziale della sua vita: egli è stato «generato da Dio» (v. 13b).

Ma dobbiamo subito chiedere: come lo sa l’evangelista? Come lo sapevano i discepoli? Il concepimento di Cristo nel seno della sua madre era un fatto storico, sì, ma del tutto segreto e nascosto, sottratto a ogni possibilità di osservazione esteriore. Qui precisamente prendono tutto il loro significato le tre negazioni del versetto; queste tre esclusioni hanno reso possibile la scoperta sorprendente, decisiva: Cristo era stato «generato da Dio»; egli quindi era «l’Unigenito venuto da presso il Padre».

Quale è dunque la funzione delle tre negazioni? Per spiegare ciò che fu la generazione temporale del Verbo, vengono escluse tre realtà esteriori che sarebbero state i mezzi normali della sua generazione umana. Queste tre esclusioni, che hanno come oggetto delle realtà di per sé visibili (sangue, carne, uomo), erano certo soltanto un segno negativo; però erano necessarie per rendere verosimile il fatto invisibile della generazione divina. Il caso è analogo a quello della tomba vuota: era un fatto visibile, un segno negativo, ma un segno quasi necessario della risurrezione corporale del Signore.

4. Si deve ancora notare un altro punto. All’interno della parte negativa del v. 13, esattamente come per l’insieme della vita di Cristo, il movimento rimane anche qui regressivo, andando cioè a rovescio dell’ordine cronologico: si parla stranamente prima della nascita («non da sangui») e nel terzo membro, della concezione («non da volere di uomo»).

Secondo J. Galot, «il paradosso è così palese che si riesce difficilmente ad ammetterlo come autentica interpretazione del testo» (80). Secondo noi, invece, l’apparente paradosso scompare del tutto, se, dopo aver analizzato il movimento del versetto, abbiamo capito in quale direzione si sviluppa il pensiero dell’autore. Si vede allora che l’ordine regressivo era quasi necessario.

Infatti, dove voleva arrivare l’evangelista? Come abbiamo visto, la lunga frase che riempie i due w. 12-13 è fortemente polarizzata verso la fine:  έx  δεοϋ  έγευυήδη.  Per spiegare al lettore che questa «generazione» unica era l’opera di Dio stesso, e non di un uomo, era indispensabile escludere il modo in cui si sarebbe realizzata una generazione umana ( ούδέ  έx  δελήματος  άυδρός ).

Quindi, per ottenere un contrasto diretto, questa terza negazione doveva precedere immediatamente l’affermazione finale e positiva: in questi due membri, infatti, si tratta di due modi opposti, radicalmente diversi, di concepimento, quello umano e quello divino: o «da volere di uomo …» o «da Dio …». Bisogna escludere formalmente il primo per far comprendere e accettare il secondo, cioè che Gesù fu «generato da Dio».

Si vede meglio adesso che c’è una dialettica complessa in questo versetto. L’autore doveva giungere all’affermazione essenziale,  έx  δεοϋ  έγευυήδη  , che descrive la generazione temporale del Verbo. Ora, questo momento era l’inizio assoluto della sua vita terrestre. Perciò, siccome Giovanni era partito dalla presenza di Cristo tra i suoi (v. 12), egli ha dovuto risalire progressivamente verso questo momento iniziale.

In questo cammino verso l’indietro però, doveva incontrare anche il momento della nascita, prima ancora di raggiungere il punto di partenza, il momento centrale e decisivo, più interiore e più misterioso, della generazione di Cristo. Ora, quel momento della nascita era ugualmente importante: il parto dell’uomo, cioè il momento in cui esce dal seno materno, è l’inizio della sua vita esteriore, visibile e sociale.

Perciò, per gli altri uomini, si può dire che la nascita è l’inizio della loro vita: la durata della vita umana viene calcolata, non dal concepimento alla morte, ma dalla nascita alla morte. Pertanto, è comprensibile che l’evangelista, risalendo verso l’inizio della vita temporale di Cristo, si sia fermato anche al momento della sua nascita, non già per descriverne le circostanze esteriori (non c’è in Giovanni un racconto di «Natale», come in Matteo e Luca), ma per considerare il fatto umano stesso del parto, con tutto il suo significato.

La nascita è un evento più vistoso e appariscente di quello del concepimento: il parto del bimbo, però, se l’esito è andato bene, indica che tutto il tempo della gestazione — e anche il momento iniziale del concepimento — hanno avuto uno svolgimento normale e felice. In questo senso, la nascita appartiene, nella sua esteriorità significativa, alla categoria del segno (81).

Questo appare chiaramente nel testo parallelo di Ippolito analizzato sopra (p. 153 s.): dopo aver ricordato che, a differenza di Cristo, l’anticristo sarà concepito  έx  σπέρματος   e partorito  έξ  αίμάτωύ,  come tutti gli altri, l’autore, qualche riga dopo, torna sulla descrizione del processo generativo ordinario degli uomini; ma qui, riprende solo l’espressione  έx  αίμάτως  γεγευυημέυου  che descrive il parto, perché nella tradizione giudaica, era propria quel fatto esteriore dello spargimento di sangue che contaminava la partoriente. Così sarà per l’anticristo.

Ma nel caso di Cristo, dice Giovanni, il parto avvenne senza questo spargimento di sangue: era un parto verginale. Anche questo fatto negativo, del tutto eccezionale, era un segno. Paragonandolo con le condizioni normali di ogni parto, i credenti dovevano concludere da questa nascita a un intervento di Dio stesso. Con la seconda negazione l’evangelista spiega infatti che questa nascita e questa concezione non si sono svolte secondo le leggi ordinarie della carne: «non fu generato da volere di carne».

Questo preparava anche la terza negazione. Il parto verginale e tutto il processo generativo senza il desiderio della carne faceva comprendere che anche il concepimento si era svolto «senza un volere di uomo». Il parto verginale e il concepimento verginale, quindi, fanno parte insieme di un processo unico; sono l’inizio e la fine di quel periodo; ma il parto, ancora più della concezione, è un segno dell’intervento di Dio nell’incarnazione del Verbo: il parto verginale era un segno della concezione verginale, un segno del fatto che il Verbo incarnato era stato «generato da Dio».

Perciò, i primi cristiani, contemplando il Verbo incarnato alla luce della sua generazione umana, hanno compreso che egli era «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre».

c) II testo parallelo di Luca

Una conferma dell’interpretazione proposta per Gv 1,12-14 si trova nel testo più o meno parallelo di Le 1,34-35. Sono i due passi più espliciti dei vangeli sull’incarnazione. Furono spesso raffrontati nei primi secoli. Infatti esistono chiaramente diverse somiglianze tra loro, anche se, dal punto di vista letterario, sarebbe rischioso supporre un contatto diretto tra le due tradizioni. Presentiamo i due testi in sinossi (con un’inversione in quello di Luca per far vedere meglio il parallelismo; per la traduzione del v. 35, cfr infra):

II parallelismo diventa particolarmente suggestivo, quando si osserva l’articolazione ternaria dei due testi: a) generazione; b) nascita; c) riconoscimento futuro del fatto che egli (Gesù) è il Figlio di Dio. Ma noi ci interessiamo specialmente dei due membri paralleli dove si parla della nascita di Gesù. Si può osservare qui una specie di parallelismo di tipo chiastico:

Lc                      quello che nascerà

(annuncio)                                                        santo

Gv                                                            non da sangui
(realizzazione)           egli è nato

1. Non è possibile analizzare qui in dettaglio il versetto tanto discusso di Lc 1, 35 (82) Ma la cosa certamente più importante da chiarire è la costruzione grammaticale della frase e la funzione che vi occupano i singoli elementi. Per più grande chiarezza, indichiamo subito i quattro tipi di lettura che sono stati presentati, per poi giustificare e interpretare la nostra traduzione:

I.   Il Santo che nascerà — sarà chiamato Figlio di Dio
II   Ciò che nascerà santo — sarà chiamato Figlio di Dio
III  Ciò che nascerà — sarà (è) santo e chiamato Figlio di Dio
IV   Ciò che nascerà — sarà chiamato Santo, Figlio di Dio.

Questi diversi modelli, eccetto il secondo, sono ben rappresentati nelle versioni italiane recenti (83). Il primo, che considera  τό … άγιου  come il soggetto, si trova soltanto tra i moderni; ma deve essere escluso, perché supporrebbe un altro ordine delle parole, con  τό  άγιου  in testa («sanctum quod nascetur», invece di «quod nascetur sanctum»); inoltre, l’espressione lucana  τό  γευυώμευου,  che è ben conosciuta in greco (84) e che si trova qui all’inizio, è da prendere come un tutto (l’articolo  τό  regge  γευυώμευου ); questo participio, quindi, non può avere la funzione di un aggettivo determinativo di τό  άγιου  (considerato come un sostantivo-soggetto).

Solo  τό  γευυώμευου  può essere soggetto della frase; lo hanno capito bene gli altri tre modelli. Però, ciò non significa che questo participio neutro («nato») sia da considerare come un sostantivo, ossia che debba essere preso come l’equivalente di «bambino» ( τό  τέxυου ); l’espressione  τό  γευυώμευου  conserva intatto tutto il suo valore verbale,(85) in riferimento all’atto di concepire o di partorire, cioè al momento della concezione o della nascita: secondo i casi, significa «id quod generatur» oppure «id quod nascitur».

Nella situazione presente, quella dell’annuncio a Maria, il verbo ha valore di futuro, e si tratta del parto, della nascita, non del concepimento (del quale si era già parlato nel v. 35a); con le versioni antiche bisogna dunque tradurre: «ciò che nascerà» (cfr Volgata: «id quod nascetur ») (86)

Gli altri tre modelli, in comune, fanno di «santo» un predicato. Ma in dipendeva di quale verbo? Nella forma IV, «Santo» dipende da «sarà chiamato» che segue; il titolo «Figlio di Dio» diventa allora una semplice apposizione del predicato «Santo», sul quale cade tutta l’enfasi del versetto. Questo però è difficilmente sostenibile: la giustapposizione «Santo, Figlio di Dio» non è lucana; (87) del resto, siccome  xληδήσεται,  separa i due termini  άγιο  e  υίός  non si può parlare di giustapposizione; inoltre, questa lettura non trova quasi nessun appoggio nella tradizione; infine, dire che Gesù «sarà chiamato Santo» sembra contraddire l’uso del N.T., dove «Santo» non è diventato un nome corrente di Cristo; «Figlio di Dio» invece è uno dei suoi titoli principali (88).

Questo spiega precisamente che  υίός  δεοϋ  si trova in posizione enfatica alla fine: è il punto d’arrivo di tutto il movimento del versetto. L’aggettivo  δεοϋ,  che precede, non appartiene quindi a quel gruppo finale  xληδήσεται  υίός  δεοϋ  (89). Rimane vero però che «santo» è un predicato; deve dunque dipendere da un verbo, ma diverso da «sarà chiamato». E’così che viene interpretato il testo nei modelli II e III.

Tuttavia anche il modello III deve essere criticato: la sua debolezza sta nel fatto che si vede costretto a inserire nel testo un nuovo verbo, «sarà»; conseguentemente, diversi aggiungono anche la congiunzione «e», per connettere i due verbi principali: «sarà (oppure è) santo e (sarà) chiamato …». Ma così cambiano doppiamente il versetto! L’unica lettura soddisfacente è quindi quella del modello II; sembra essere anche quella della Volgata (critica), che riproduce esattamente il greco:

«Ideoque et quod nascetur sanctum vocabitur Filius Dei».

Le tre parole quod nascetur sanctum, prese insieme, formano il soggetto di vocabitur Filius Dei. All’interno del gruppo di quelle parole, l’aggettivo «santo» è semplicemente predicato con «nascerà». Infatti, non è stato abbastanza osservato che il verbo nascere (qui:  γευυάσδαι ) può benissimo essere accompagnato da un predicato, che esprime le circostanze della nascita, la situazione sociale o familiare del bimbo, le sue disposizioni, etc.; così per esempio nel racconto giovanneo del cieco nato:  τυφλός  έγευυήδη  (Gv 9, 2.19.20),  τυφλός  εγευυημέυος  (Gv 9, 32).

In latino si può dire: «qui mortui nascuntur … »; (90) così anche in italiano: «è nato sordo, cieco, ladro, povero, intelligente, etc.»; oppure in francese: «il (le Messie) a voulu naìtre pauvre, afin de …» (Bossuet). Si noti inoltre che questa lettura, che prende  τό  γευυώμέυου  αγιου  come la prima metà della frase, è raccomandata dall’equilibrio stilistico (non è il caso negli altri tre modelli): i due membri hanno una lunghezza uguale (due volte tre parole; e sei [in greco sette] o otto sillabe); le due costruzioni sono parallele: precede il verbo, al futuro (nascetur, vocabitur), poi segue il predicato, in posizione enfatica (sanctum, Filius Dei); non si può negare la corrispondenza ritmica tra i due membri (91):

quod nascetur  sanctum

vocabiturFilius Dei

Più delle altre, questa interpretazione da un’importanza speciale al momento della nascita di Gesù («nascerà santo»), in quanto si distingue dal concepimento (v. 35a), ma anche dal tempo posteriore in cui Gesù verrà chiamato Figlio di Dio: è la divisione in tre tempi di cui abbiamo già parlato. Cerchiamo adesso di meglio comprenderla, nel suo senso teologico. Dovremo anche spiegare la funzione che ottiene, in questa struttura, l’espressione  διό  xαί,  che mette un nesso causale tra il primo membro (a: il concepimento) e gli altri due (b: la nascita; c: la rivelazione della divina figliolanza).

2. Nella prima parte del v. 35, l’angelo annuncia a Maria che (a) concepirà in un modo verginale: sarà l’opera dello Spirito, della potenza creatrice dell’Altissimo. Poi prosegue: «per questo, (b) ciò che nascerà santo, (c) verrà chiamato Figlio di Dio». La rivelazione tra gli uomini della divina figliolanza di Gesù (e) è presentata come una conseguenza della concezione verginale (a); però quel risultato sarà ottenuto soltanto attraverso la funzione intermedia della nascita santa di Gesù (b).

Se mettiamo, come si deve, la virgola dopo  άγιου,  è chiaro che la causalità introdotta con Sia noi vale in primo luogo per quella nascita di Gesù, e soltanto indirettamente per la divulgazione della sua divina figliolanza. Troppo spesso, «santo» viene interpretato qui in un modo generico e assoluto, specialmente quando si inserisce il verbo «sarà» (allora l’angelo annuncerebbe la futura santità di Cristo); ma queste considerazioni ci allontanano dal contesto.

La posizione di  άγιου  in funzione di predicato rispetto a  τό  γευυώμευου  (92) ci obbliga a vedere indicate qui in un modo preciso le circostanze della nascita di Gesù. Ora, la santità della nascita è presentata come una prima conseguenza dell’azione dello Spirito Santo nella concezione: a un concepimento santo poteva seguire soltanto un «parto santo». In altre parole, la concezione verginale doveva avere come effetto prossimo il parto verginale (93).

La «santità» del parto, è vero, viene menzionata solo di sfuggita; il testo si affretta a indicare la conseguenza futura di questa concezione e di questo parto nell’economia della rivelazione: Gesù sarà dunque riconosciuto come Figlio di Dio e chiamato tale (94).

A questo punto, anche la tradizione antica ci viene in aiuto. I Padri e gli autori medievali che leggono il versetto come lo abbiamo fatto noi, intendono la «santità» della nascita di Gesù come l’assenza di contaminazione, di ogni forma d’impurità e di corruzione. Vediamo due esempi. San Cirillo di Gerusalemme, immediatamente dopo aver citato Le 1, 35, spiega:

«La sua nascita ( ή  γέυυησις ) fu pura e incontaminata ( άxραυτος  xαί  άρρύπαρος ). Perché dove ispira lo Spirito Santo, là è tolta ogni macchia ( μολυσμός ). La nascita del Figlio unigenito nella carne, dalla Vergine, fu incontaminata» (Catechesis 12, 32: PG, 33, 765 A; cfr anche :  πώς  τέξη  Cai. 17, 6: 976 B).

Aimone di Halberstadt:

«Fiat … sine viri semine conceptus in virgine, nascatur de Spiritu Sancto integra caro» (Homilia 4: PL, 118, 36 A) (95).

Secondo questi autori, «nascetur sanctum» è da interpretare della virginitas in partu di Maria. Questo può suscitare un po’ di meraviglia; ma sembra veramente confacente al senso di  γευυώμευου  άγιου  del nostro versetto. Si deve notare che già sant’Ambrogio commentava il nostro testo nel modo seguente: «Vere sanctus, quia inmaculatus ».

È vero che pensava piuttosto al concepimento verginale (non enim virilis coifus vulvae virginali secreta reseravit), ma ne vedeva anche una conseguenza per la purezza del parto: «Hic est qui aperuit matris suae vulvam, ut inmaculatus exiret» (96). In questi diversi testi, «santo» del nostro versetto viene dunque interpretato nel senso di puro, incontaminato.

Non si deve dimenticare che, nel Levitico, specialmente nel «Codice di santità» (Lv 17-26), il termine «santo» implicava anche l’assenza di contaminazione. Ora, nell’occasione della presentazione di Gesù nel Tempio, è proprio Luca che ricorderà la legge mosaica di purificazione (Lv 12, 1-8), alla quale Maria ha voluto sottomettersi (Le 2, 22).

Colpisce il fatto che, per Luca come per Giovanni (1, 13), siamo rimandati, per interpretare il parto di Maria, alla tradizione levitica sulla purità e sull’impurità. Letto così, il versetto di Luca prende un senso eccellente nel contesto dell’annuncio dell’angelo a Maria. Questo risulta chiaramente dalla parafrasi seguente:

«La potenza dell’Altissimo
stenderà su di te la sua ombra.
Pertanto quello che (partorirai)
nascerà puro e immacolato,
e perciò verrà chiamato Figlio di Dio».

3. Torniamo adesso al testo di Giovanni. È solo per comprendere meglio quel versetto del prologo che abbiamo esaminato anche il passo parallelo del vangelo di Luca. L’interpretazione proposta per tale testo di Lc 1, 35 coincide praticamente con quella che abbiamo dato per Gv 1, 13a: secondo quest’ultimo, la nascita del Verbo incarnato si fece «non da sangui», cioè senza quello spargimento di sangue che contaminava la madre al momento del parto; nel testo di Luca, leggiamo che Gesù doveva «nascere santo»: anche qui si tratta dell’incontaminazione al momento del parto di Gesù

.Ancora un’osservazione: in ognuno dei due testi esaminati, c’è un riferimento al riconoscimento della divina figliolanza di Gesù. Nei due casi, questa fede in Cristo, Figlio di Dio, è legata alla fede nella concezione verginale, ma più immediatamente ancora a quella nel parto verginale.

E si comprende perché: nel rapporto dialettico dei tre tempi (concezione, parto, rivelazione pubblica), non è il primo ma il secondo che aveva direttamente valore di segno; il fatto esteriore del parto verginale era il segno di un fatto anteriore, più segreto, il concepimento verginale; l’uno e l’altro, però, presi insieme, facevano comprendere che Gesù Cristo, essendo stato «generato da Dio», era realmente Figlio di Dio (Lc), il Figlio unigenito venuto da presso il Padre (Gv).

Conclusione

Per terminare questa lunga indagine, vorremmo fare tre osservazioni conclusive.

1. Secondo l’esegesi proposta per Gv 1,13 e Lc 1,35, abbiamo in questi due testi un riferimento, non solo alla concezione verginale della madre di Gesù, ma anche al parto verginale. Questo è senza dubbio l’elemento più nuovo della nostra interpretazione. Di solito si pensa che, per la virginitas in partu, non ci sono chiare indicazioni nel N.T.; avremmo soltanto argomenti di tradizione. Ma allora sorge spontanea la domanda: i Padri e gli autori medievali che affermavano la dottrina del parto verginale, non facevano nessun riferimento ai testi dei vangeli?

Noi invece abbiamo potuto constatare, almeno per quanto concerne Lc 1,35, che parecchi autori antichi leggevano la virginitàs in partu proprio in questo versetto di Luca. Se una tale lettura del testo — quella del nostro modello II (cioè:  τό  γευυώμευου  αγιου  «quod nascetur sanctum») — non era tanto diffusa nella tradizione, la ragione è quasi certamente di ordine filologico: questo versetto veniva già letto in modi grammaticalmente diversi nell’antichità; è ancora sempre così oggi.

Tuttavia, tra i moderni, la lettura secondo il modello II è praticamente scomparsa (la maggior parte segue il modello III o IV). Nel tempo patristico invece, il modello II era ben conosciuto, specialmente in Occidente, grazie alle versioni latine. È vero però che la lettura più corrente era di considerare «santo» come un predicato con l’aggiunta del verbo «è» o «sarà» (97).

L’inconveniente era che, quando si faceva l’inserimento del futuro, la santità del bambino veniva quasi staccata dalla sua nascita (abbastanza vicina). Se invece «santo» rimane predicato, ma col verbo «nascerà» (era la nostra lettura), la santità è legata al parto stesso. Perciò, se il progresso moderno in campo filologico porta nuovi argomenti a favore di questa lettura, rafforza allo stesso tempo l’interpretazione teologica che implica, cioè fornisce un testo biblico per la virginits in partu. Questo ci sembra importante.

Infatti è molto significativo che i Padri e gli autori medievali che leggevano il nostro versetto secondo quel modello II («ciò che nascerà santo») sono proprio quelli che vedevano nel testo l’indicazione dell’ incontaminazione e della purità di Maria nella concezione o nel parto. Pertanto, contrariamente a ciò che pensavano parecchi altri, non si tratta qui della santità ontologica del Figlio di Dio o di Dio è santo»), neppure della futura santità dell’uomo Gesù durante la sua vita terrestre («sarà santo»: tema che sarebbe fuori posto nel contesto dell’annunciazione).

L’angelo, dopo l’annuncio a Maria del concepimento verginale, aggiunge subito che il bimbo che sta per venire dovrà anche «nascere santo», cioè puro e incontaminato. Come quel concepimento, così anche il parto «santo» sarà dovuto alla potenza dell’Altissimo e all’azione dello Spirito Santo. Anzi, il parto verginale, essendo più esteriore, sarà un segno che anche il concepimento era stato verginale.

L’uno e l’altro costituiscono un processo unico, quello dell’incarnazione. Ma il modo eccezionale in cui sta per realizzarsi questo evento farà comprendere agli uomini che Gesù era veramente il Figlio di Dio (98).

2. Osservazioni analoghe si possono fare per il testo di  Gv 1, 13. Anche qui, il problema critico e filologico è di un’importanza determinante. La domanda era doppia: bisogna leggere il verbo al plurale o al singolare? su quale sfondo culturale va spiegato il sostantivo plurale «i sangui»? Gli studi storici del nostro tempo hanno permesso di fare notevoli progressi per l’una e l’altra questione. Inoltre la storia dell’esegesi antica del nostro versetto ha fatto comprendere meglio quali erano i problemi coinvolti nelle singole letture.

A livello esegetico, il risultato di queste ricerche non è di scarsa importanza. Il versetto di Gv 1,13 descrive le condizioni concrete in cui si è svolta l’incarnazione. Secondo le indicazioni fornite sopra, Giovanni afferma il concepimento e il parto verginale del Verbo fatto carne.

La convergenza tra Giovanni e Luca è anche un punto di notevole importanza: nei due casi siamo rimandati alla tradizione levitica delle leggi di purità della donna partoriente. Ne segue che anche le posizioni teologiche di Luca e di Giovanni (malgrado un vocabolario diverso) sono somiglianti.

Questo dimostra, contrariamente a ciò che si afferma talvolta oggi (99), che la chiesa giovannea, esattamente come l’ambiente di Luca e di Matteo, conosceva bene la tradizione primitiva sul concepimento verginale e sul parto verginale del Verbo fatto carne. Il contrario sarebbe già a priori molto strano, in un vangelo come quello di Giovanni, così centrato sul mistero dell’incarnazione.

3. Ultima osservazione: secondo i testi di Luca e di Giovanni, la concezione verginale e il parto verginale erano strettamente legati al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio. Ma non nel senso che ne costituivano la condizione assoluta e ontologica (i vangeli non si esprimono in questo modo), bensì nella prospettiva dell’economia della rivelazione. Il fatto che Gesù è stato generato da Dio stesso era un segno, un invito rivolto agli uomini, affinchè riconoscessero in lui il Figlio unigenito di Dio.

Anche la missione di Maria prende il suo vero significato in questa prospettiva: la concezione verginale e il parto verginale della Madre di Gesù hanno un senso anzitutto cristologico. E’così che questi fatti vengono presentati nei vangeli.

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