Cristiani perseguitati in Nigeria

Nigeria_cristianida Ragionpolitica.it martedì 17 luglio 2012

di Marco Respinti

La strage continua di cristiani ha trasformato la Nigeria in un’emergenza non più procrastinabile di fronte alla quale il mondo cosiddetto libero e civile non può più, se libero e civile vuole continuare a rimanere, fingere di non vedere o mostrarsi in altre faccende «più urgenti» affaccendato. Del resto, il caso nigeriano dimostra ancora una volta la correttezza delle analisi più attente a proposito della guerra al terrorismo.

È evidente, infatti, che la priorità dell’ora presente è, da tempo, quella del terrorismo di matrice islamica: quello la cui ratio è l’«islamismo» ancora e sempre distinguibile dall’Islam e però ancora e sempre generatore di «zone grigie» dove dire dove finisca l’uno e dove inizi l’altro, o quanto l’uno fornisca armi e bagagli culturali all’altro, è sempre più arduo.

Ora, l’islamismo, nel suo sogno di restaurazione del califfato musulmano in cui tutti gli altri sono tollerati solo nel rango di dhimmi a patto che si sottomettano alla legge sharaitica superiore (e questo giocoforza dopo una prima fase di sradicamento violento di società e culture considerate blasfeme), pratica lo jihad attraverso, a seconda di luoghi e contesti, due strategie. Una globale e l’altra locale.

Esiste cioè un islamismo in cui lo jihad è al servizio di interessi regionali in nome di una sorta di «califfato in piccolo», appunto locale, ed esiste un islamismo in cui lo jihad è al servizio d’interessi globali in nome del califfato universale. Esempio tipico del primo è Hamas, esempio da manuale del secondo è al-Qa’ida. Le due strategie non sono antitetiche, l’una può, coscientemente o meno, contenere l’altra, ma non mancano attriti e frizioni, anche dure. 

Fatte salve le «zone grigie» (talora d’importanza decisiva), se sbaglia infatti chi riduce tutto l’Islam al solo islamismo, sbaglia a maggior ragione chi pensa che tutto il terrorismo islamista sia sempre e solo al-Qa’ida. Anzi, una delle probabili ragioni del fallimento evidente della strategia terroristica di al-Qa’ida sta proprio nel fatto che organizzazioni e movimenti, pur sempre di matrice islamista, e non meno terroristici bensì diversamente terroristici da al-Qa’ida sono stati e sono certamente di fatto, se non talora persino di principio, ostacoli ‒ almeno, cioè se non altro, in ambito locale ‒ al progetto qaidista.

Ebbene, tutto questo rimane una verità profonda, soprattutto perché è ciò che dimostrano come minimo più di dieci anni di fatti concreti (a far data cioè dall’Undici Settembre), ma nella pratica, e soprattutto con il passare del tempo, il terreno di confine fra le due strategie islamo-terroristiche si fa sempre più labile e i suoi contorni imprecisati.

Il caso della Nigeria ne è forse l’esempio più calzante. In Nigeria, le stragi di cristiani sono perpetrate dalla «setta» Boko Haram, espressione dell’islamismo terroristico regionale più vieto e oscurantista, a cui certamente si sommano crudeltà tipiche del tribalismo locale magari assenti, o comunque diverse (il che non significa più morbide) altrove pur in contesto islamo-terroristici. Di per sé, Boko Haram – che odia l’Occidente perché lo ritiene cristiano odiando anzitutto i cristiani, anche nigeriani, perché ai suoi occhi i cristiani non possono, proprio essendo tali, che essere «occidentali» – è un esempio di islamo-terrorismo regionale, al servizio di uno jihad che persegue interessi locali di supremazia e di dominio.

Al tempo stesso, però, nel coltivare il proprio progetto locale, Boko Haram si è proposto ad al-Qa’ida. Certo, è vero che in ciò vi è una buona dose di marketing; che il segnalarsi ad al-Qa’ida può servire più per accreditarsi a livello d’immagine, magari sperando anche in qualche forma di sostegno; e pure che il fatto di dirsi qaidista non fa automaticamente di un islamo-terrorista un vero qaidista almeno finché la casamadre non accetta l’arruolamento e non conferma la patente di legittimità.

Ma è sempre vero che in casi come questi vale una sorta di «silenzio assenso» mediante cui la casamadre non smentisce apertamente l’arruolamento volontario di cellule e organizzazioni locali finché non è, per svariati motivi strategici, costretta a farlo, potendo nel frattempo sfruttare a proprio vantaggio, se e quando serve, la situazione poco definita. 

Dunque Boko Haram è la punta di diamante di uno jihadismo tutto regionale che però manifesta la propria volontà di svolgere azioni in loco in conto qaidista, almeno finché le due strategie non dovessero (altrove è vistosamente successo) contraddirsi palesemente. Del resto, è nella natura stessa di al-Qa’ida l’essere anche – cioè non solo – un network di organizzazioni indipendenti e autocefale inquadrate in una sporta di «federazione» più grande che fornisce la leadership suprema e il quadro di riferimento necessario, e che solo in alcuni casi specifici addestra e forma di militanti e quadri vero nomine qaidisti.

Essere qaidisti significa cioè sia appartenere al «nucleo ristretto» di militanti e dirigenti dell’organizzazione creata da Osama bin Laden (1957-2011), sia riconoscersi nella sua cultura pur concretamente militando in altre strutture che del resto, per essere davvero accettate dalla casamadre, debbono ottemperare a certi requisiti. Al-Qa’ida è insomma come una «supernazionale» delle all star dell’islamo-terrorismo planetario, allenata da commissari tecnici capaci di coniugare efficacemente, quindi anche di dosare, rigore e laissez-faire. 

Con tutta probabilità, Boko Haram è oggi l’espressione più riuscita di questo gioco, per ora vincente, che da un lato costituisce certamente il modo di essere tradizionale di al-Qa’ida, dall’altro evidenzia le necessità del dopo Bin Laden, allorché il qaidismo ha giocoforza assunto più i panni di un franchising che quelli di una multinazionale. Perché sicuramente Boko Haram persegue obiettivi strettamente regionali, ma altrettanto certamente la sua azione pervicace tiene se non altro ben in vista il testimone dell’islamo-terrorismo che magari altrove, anche per la capacità, comunque, di reazione dell’Occidente, segna maggiormente il passo.

Non è lo spostamento in toto sul quadrante nordafricano della strategia islamo-terrorista, ma sicuramente è lo sfruttamento di una forte potenzialità regionale per mire più ampie. Che possono pur essere anche «solo» il rinfocolare la brace che arde sotto la cenere o il certificato di esistenza in vita di una struttura duramente colpita eppure ancora non completamente sconfitta.

Il lavoro sporco che Boko Haram sbriga per il qaidismo globale, perseguendo alla perfezione il proprio progetto di jihadimo regionale al servizio d’interessi locali, assume così il volto di una lotta senza quartiere ai nemici di sempre: i cristiani proprio perché cristiani, e quindi in questo percepiti comunque come «occidentali», vale a dire allo spudorato servizio d’interessi stranieri (culturali, religiosi, economici, nella più completa indistinzione) che tali sono nel più radicale e profondo dei significati.

Boko Haram è il tipico esempio, oggi, di «pensatoio» dove «evangelizzazione» significa colonialismo e dove «missione» vuol dire «sfruttamento». Per gli stragisti di Boko Haram c’è poca differenza infatti tra una chiesa cattolica dove il parroco e i fedeli sono dei neri nigeriani e una pompa di benzina gestita da un viso pallido nato oltremare, e questo sul piano stretto dell’elaborazione teologico-culturale, per grossolana che possa essere.

Ecco, la cosa peggiore che possa toccare ora ai cristiani neri nigeriani, oltre all’essere massacrati a ogni festa comandata dagl’islamo-terroristi, è quello di essere abbandonati al proprio destino da quei bianchi nati oltremare che, anche fosse solo per difendere la propria pompa di benzina (cosa che di per sé non è affatto immorale), hanno il dovere di mettere un freno alla mattanza.