L’ethos della democrazia

di Antonio Magliulo,

(membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Tocqueville-Acton)

Per molti anni ci siamo accontentati della definizione minimalista di Winston Churchill: la democrazia è la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre finora sperimentate.

Oggi non ci basta più sapere che non esistono alternative migliori. La democrazia aveva promesso libertà ed eguaglianza per tutti, un’eguale libertà, e non sembra mantenere la promessa fatta. Crescono il disagio e la disaffezione e si teme una progressiva degenerazione.

Negli ultimi tempi sono apparsi molti volumi – scritti da filosofi, giuristi, economisti, politologi – che propongono ricette per rivitalizzare la democrazia. L’ultimo in ordine di tempo, ma non certo di importanza, è quello di Paolo Flores d’Arcais: Democrazia! Libertà privata e libertà in rivolta (add editore, Torino 2012).

La democrazia – secondo Flores – è una forma di governo che dovrebbe garantire a-tutti-e-ciascuno la libertà di perseguire la propria felicità con l’unico limite di non ostacolare quella di altri: “Tutti devono poter egualmente perseguire la propria felicità, nel lavoro, nel sesso, nella cultura, nello svago, nell’azione politica, ciascuno a proprio modo e sovranamente (purché non impedisca analogo diritto del con-cittadino)” (p. 130).

Ma come è possibile garantire a-tutti-e-ciascuno la libertà di perseguire la propria felicità? La condizione minima è che valga un duplice e correlato principio: “una testa, un voto” e “un voto, una testa”. L’essenza della democrazia è l’autonomia (autos nomos) della decisione umana. Ognuno dovrebbe poter essere libero di decidere solo con la propria testa, senza ulteriori condizionamenti esterni, e ogni testa dovrebbe valere un voto.

Il duplice principio sarebbe pienamente rispettato soltanto in una (ideale) democrazia diretta in cui tutti partecipano alle deliberazioni collettive e ogni decisione è assunta all’unanimità. Se, infatti, qualcuno fosse escluso dal processo deliberativo o le decisioni fossero prese a maggioranza, allora la libertà dei vincitori potrebbe ostacolare o schiacciare la libertà dei vinti e degli esclusi.

La (reale) democrazia moderna è però, e non può che essere, rappresentativa e maggioritaria. La sovranità del popolo si esercita delegando ad alcuni il potere di assumere le deliberazioni collettive e le decisioni sono assunte a maggioranza. Il problema fondamentale della democrazia moderna è impedire la tirannide della maggioranza tutelando ancora il diritto individuale alla felicità.

Una soluzione classica è il “costituzionalismo giusnaturalistico”: la costituzione fissa gli inviolabili “diritti naturali” dell’uomo e l’ordinamento positivo si adegua. Nessuna maggioranza può violare il patto fondativo di una comunità. Flores respinge la soluzione giusnaturalistica: il concetto di diritto naturale rinvia infatti, inevitabilmente, a quello di una eterna e immutabile natura umana. Ma chi decide cos’è conforme alla natura umana? E’ sempre e solo una comunità di uomini.

La soluzione di Flores è una sorta di “costituzionalismo positivista”. La costituzione dovrebbe riconoscere il diritto individuale a perseguire la propria felicità e stabilire le condizioni minime necessarie per tutelare quel diritto.

La condizione essenziale è che valga il duplice principio “una testa, un voto” e “un voto, una testa”. E ciò richiede che siano eliminati una serie di condizionamenti esterni che trasformano l’originaria sovranità del popolo in tante decisioni eterodirette. Ciascuno dovrebbe poter essere libero di decidere con la propria testa e ogni testa dovrebbe valere un voto.

Ma quando c’è violenza, corruzione, menzogna, fame, sfruttamento, gli uomini non sono più liberi di decidere autonomamente. Eliminare quei condizionamenti  equivale a riconoscere altrettanti diritti, funzionali all’esclusivo diritto a ricercare la propria felicità: il diritto alla sicurezza, alla legalità, ad una corretta informazione, al lavoro e all’assistenza.

Tra i condizionamenti da eliminare, secondo Flores, c’è Dio (o la religione o la Chiesa): l’uomo non sarà mai pienamente libero finchè dovrà tener conto del giudizio divino. Nell’agorà non c’è posto per Dio (o per i suoi interpreti). Il confronto è tra uomini, ciascuno con la propria ragione. Dio è compatibile con la democrazia solo se i cristiani (o gli uomini di fede) rinunciano a stabilire ogni collegamento tra fede e ragione e si presentano nel foro della democrazia con la sola ratio.

Scrive Flores: “Dio è compatibile con la democrazia esclusivamente a tassative condizioni: che nessuna testa, meno che mai se gerarchica di una fede, promuova una posizione politica su qualsivoglia tema sventolando in vista del voto Dio come argomento, anziché autolimitarsi alla trattazione razionale che – sola – può entrare in dia-logos con il con-cittadino.

E che ogni fedele interiorizzi come riflesso condizionato e vero e proprio istinto civico questa esclusione di Dio nella sfera pubblica, e mai incorra nella tentazione che le «ragioni» del suo cuore devoto – che la ragione comune non può conoscere e deve anzi disconoscere – concorrano a diventare legge per chi ha un cuore diverso” (p. 79).

Anche la costituzione è scritta da uomini, esseri limitati e fallibili. La democrazia – continua Flores – è dunque infondabile, può perseguire fini diversi. L’unico ancoraggio è un principio di coerenza. Se la costituzione, suprema legge dello Stato, riconosce e tutela il diritto individuale a ricercare la propria felicità, allora la politica e la stessa etica pubblica devono perseguire quello stesso fine.

La politica dovrebbe assumere decisioni concrete per eliminare o ridurre i condizionamenti esterni che limitano la libertà individuale tutelando corrispondenti diritti: alla sicurezza, informazione … L’etica pubblica dovrebbe sanzionare ogni atteggiamento o comportamento lesivo della libertà di tutti-e-di-ciascuno.

Nella democrazia della felicità: “chi vuole divorzia, chi non vuole no, chi vuole abortisce, chi non vuole no, chi vuole accede al suicidio assistito, chi non vuole no, e ciascuno è libero di vivere il sesso come eterosessualità o omosessualità, fedeltà o promiscuità, e addirittura nell’astinenza del chiostro di clausura” (127-28).

Nella città ideale di Flores ogni uomo cerca per conto proprio la via che conduce alla felicità. Ne esistono tante e tutte sono buone. L’unico divieto è di non intralciare la via di altri.

Il libro chiarisce, con semplicità e profondità, molti aspetti dell’attuale crisi o disagio della democrazia e delinea una prospettiva coraggiosa e per molti aspetti condivisibile. La democrazia vera o piena o compiuta è formale e sostanziale: è un governo del popolo e per il popolo.

Un governo che agisse in nome del popolo, rispettando soltanto formalmente le regole procedurali, violerebbe lo scopo, l’essenza, della democrazia finendo per agire contro il popolo. La democrazia vive se ha un ethos, se l’opinione pubblica condivide e sostiene lo sforzo di tutti di garantire a ciascuno il diritto a ricercare la felicità. Nell’agorà il confronto non può che avvenire tra uomini dotati di ragione. Nessuno può nominare il nome di Dio invano. Nessuno può difendere una decisione con l’argomento: “Dio lo vuole”.

Mi permetto tuttavia di dissentire su due aspetti essenziali entrambi connessi all’idea di ragione.

Primo, la ragione umana è sempre ancorata ad una particolare filosofia o weltanschauung. Flores adotta e applica una concezione razionalistica della ragione che considera ragionevole/razionale solo ciò che è scientificamente verificabile o confutabile. Flores auspica anzi un illuminismo di massa proprio per diffondere quell’idea di ragione. Ma il razionalismo è stato criticato da molti, per esempio dall’agnostico Hayek, che considera una “presunzione fatale” la pretesa di considerare ragionevole/razionale solo ciò che è scientificamente verificabile o confutabile.

Non si capisce perché Flores sia libero di esplicitare e adottare la propria ragione illuministica e altri non dovrebbero essere liberi di esplicitare e applicare la loro ragione. Il confronto non può che avvenire sul piano della ragione umana. Ma non esiste soltanto la ragione illuministica e il confronto tra uomini sarebbe tanto più trasparente quanto più ciascuno potesse esplicitare l’origine e la matrice della propria ragione.

Secondo, la ragione, per sua natura, è sempre protesa a cercare ciò che è bene (e male) per l’uomo, ciò che lo rende felice. E dunque, inevitabilmente, e talvolta inavvertitamente, torna a riflettere su ciò che è conforme alla “natura umana”. Applichiamo pure il principio (milliano) della libertà individuale limitata soltanto dall’altrui libertà. Perché impedire ad un ragazzo di suicidarsi? Eppure chiunque, dotato ancora di un briciolo di ragione (e sensibilità) umane, cercherebbe di dissuadere un ragazzo (anche se fosse solo al mondo) a togliersi la vita. Perché?

Perché non dovremmo considerare quell’atto una libera decisione individuale che non intralcia la via alla felicità di altri? Perché contrastiamo la droga, l’alcool o il fumo? Perché ci costringiamo, vicendevolmente, a metterci la cintura di sicurezza in auto o ci obblighiamo a mandare i figli a scuola? La risposta è che vi sono cose o servizi che sono beni (gli economisti li chiamano “meritori”) anche se gli individui non lo sanno o non se ne accorgono. Sono “oggettivamente” beni.

Nella città reale gli uomini sembrano non aver rinunciato a cercare insieme la via migliore che conduce alla felicità e a distinguere ciò che va nella giusta direzione.

Per rivitalizzare la democrazia occorre innanzitutto prendere coscienza del suo momento di difficoltà, se non di vera e propria crisi. E poi agire, per mantenere, per quanto è umanamente possibile, l’originaria promessa di un’eguale libertà.

Giorgio La Pira ha scritto pagine illuminanti, che hanno ispirato fondamentali articoli della Carta costituzionale, sul rapporto tra natura e libertà e tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Pagine da rileggere in questo tempo di crisi e disagio della democrazia moderna.