Michail Geller: II totalitarismo

despotiL’Altra Europa
(bimestrale del Centro Russia Cristiana )
n. 6 (216)-1987

La nozione di totalitarismo come modello di sistema sociale fa per la prima volta la sua comparsa nella Germania e nell’Italia degli anni Venti. Il termine diventa poi usuale nel lessico politico a partire dal 1932, dopo la pubblicazione nell’Enciclopedia Italiana di un articolo di Mussolini nel quale quest’ultimo si proclama «totalitario» e battezza lo stato fascista italiano: «Lo stato totalitario».

L’affermazione di Mussolini è tanto più importante in quanto allora in Italia il potere era interamente detenuto dal Duce. Il concetto ha quindi un valore non solo teorico ma anche pratico. Dopo che Hitler ebbe preso il potere in Germania, la nozione di «totalitarismo» viene posta a fondamento anche del sistema nazista.

Alla fine degli anni Trenta, durante e immediatamente dopo la guerra, storici, politologi e sociologi fanno del totalitarismo un oggetto di studio. La definizione che ne viene data a questo punto è di una semplicità elementare: uno stato totalitario è un sistema retto da un partito unico, completamente soggetto a una guida carismatica, che ricorre al terrore più spietato per sopprimere ogni forma di dissenso.

La definizione diventa problematica solo negli anni del dopoguerra, dopo l’eliminazione della Germania nazista e dell’Italia fascista, quando si scopre l’esistenza di un sistema gemello, quello sovietico. Ci si trova allora costretti ad applicare questo termine radicalmente negativo a quello che fino al giorno prima era un alleato. Inoltre, lo stesso termine non sembra poter indicare due regimi animati da fini in apparenza così totalmente opposti.

Ciò che rende così difficile la definizione di questo fenomeno è una particolarità messa in luce da Tocqueville. Prevedendo delle forme di repressione nuove e ancora sconosciute all’umanità, il famoso storico dovette concludere: «Invano cerco un’espressione che sia in grado di riflettere esattamente e di condensare l’idea che si è formata in me; vecchie parole come dispotismo e tirannia sono assolutamente inadatte. Si tratta di una realtà nuova; ed è quindi necessario cercare di definirla, visto che non le si può dare un nome (1)».

Fu poi George Orwell a definire il XX secolo «l’era dello stato totalitario», citando come esempi il 19 giugno 1941, la Germania, l’Unione Sovietica e l’Italia. Per lo scrittore inglese la grande caratteristica del totalitarismo è la «liquidazione della libertà di pensiero in proporzioni un tempo assolutamente inimmaginabili».

Inoltre, sottolinea Orwell, il controllo esercitato sul pensiero ha ormai un carattere non solo negativo, ma positivo: «Non solo impedisce di esprimere — o anche di avere — certe idee, ma vi detta ciò che dovete pensare, vi crea un’ideologia, cerca di determinare la vostra vita emozionale, vi impone delle norme di comportamento (2)».

All’inizio degli anni Cinquanta, i politologi sviluppano la formula dell’autore di 1984, cercando di far rientrare in classificazioni più precise un termine che suscita reazioni tanto più vive in quanto è ormai passato dal terreno della «teoria pura» all’arsenale della «guerra fredda».

Nel 1951, Hanna Arendt pone in evidenza tre indici caratteristici del totalitarismo: un arbitrio di tipo particolare, che si cela dietro la masche­ra del costituzionalismo; un’ideologia che funge non da sistema di idee o di convinzioni ma da strumento atto a riforgiare gli uomini e a consolidare il potere dell’elite dirigente; una funzione particolare del terrore gestito dalla Guida totalitaria (3).

Nel 1954, Cari J. Friedrich elenca cinque (in seguito ne aggiungerà una sesta) caratteristiche comuni, secondo lui, a tutti gli stati totalitari: un’ideologia ufficiale, obbligatoria per tutti e tesa a creare «l’umanità ideale», un unico partito di massa, generalmente diretto da un solo individuo e organizzato secondo un principio gerarchico; un controllo assoluto, nei limiti consentiti dai mezzi tecnici, delle forze armate; un identico controllo dei mass media; un sistema polizie­sco di terrore fisico e psicologico; un controllo centralizzato e una completa subordinazione dell’economia (4).

J.L. Talmon introduce il concetto di «democrazia totalitaria», un fenomeno la cui apparizione risale, secondo lui, al XVIII secolo; Talmon precisa che «prima della rivoluzione d’Ottobre, la democrazia totalitaria non era una struttura coerente, un regime, ma un movimento ideologico nato durante la rivoluzione francese» (5). Egli stabilisce poi una distinzione tra i totalitarismi di «destra» e di «sinistra» e la fonda sul fatto che il secondo si pone come fine «l’uomo, i suoi interessi e la sua salvezza» mentre il primo si preoccupa «del collettivo, dello stato, della nazione, della razza» (6).

La morte di Stalin e poi le prime avvisaglie della politica della «distensione» portano alla progressiva scomparsa della nozione di «totalitarismo» come strumento di analisi. I politologi, innanzitutto quelli americani, si dicono ormai «insoddisfatti del modello del totalitarismo» (7). Herbert Marcuse arriva a concludere che, nonostante alcune differenze apparenti, il sistema sovietico è fondamentalmente simile a quello degli USA (8). In ogni caso, anche i politologi che riconoscono l’utilità del modello e colgono correttamente i tratti specifici del totalitarismo giudicano ormai indispensabile, come fa Robert C. Tucker, distinguere Lenin da Stalin, il regime bolscevico da quello del Fuhrer (9).

Unico politologo ad aver personalmente sperimentato il potere totalitario, Milovan Gilas parla del «totalitarismo di Lenin» definendolo «la tirannia più assoluta e meglio riuscita dell’era industriale». Secondo lui, le sue caratteristiche principali sono: l’apparizione e il consolidamento di una burocrazia di partito («avanguardia del proletariato», «nuova classe», «casta burocratica», «partitocrazia», «classe politica») come casta privilegiata; l’autorità assoluta della burocrazia di partito, strumento dei cambiamenti sociali nella vita del popolo; il monopolio della burocrazia di partito, che manipola i settori chiave dell’economia (10).

Teorico e pratico del totalitarismo, Milovan Gilas ritiene che «lo studio critico della realtà attualmente esistente ci avvicina alla verità più di quanto lo possano fare delle formule schematiche». La seconda metà del XX secolo è in grado di fornire all’analisi della realtà un materiale estremamente ricco.

Dopo la vittoria sul nazismo e sul fascismo, in effetti, il modello sovietico di totalitarismo è ormai imitato in diversi paesi sparsi un po’ su tutti i continenti abitati: dalla Cina all’Albania, da Cuba ai paesi dell’Europa centrale e orientale, dal Vietnam al Nicaragua, si diffonde e si consolida un sistema che, nelle sue grandi linee, corrisponde alle definizioni del «totalitarismo».

La varietà dei sistemi che sperimentano il modello, il loro numero, le diversità legate alle condizioni concrete di tempo e di luogo, al pari delle considerazioni politiche, inducono certi politologi a parlare ormai di un «post-totalitarismo». L’assenza di un «modello ideale» è uno degli argomenti principali che vengono addotti per giustificare l’abbandono della nozione di «totalitarismo».

E le circostanze che hanno spinto i Khmer rossi a cercare di costruire questo «modello ideale» sono considerate appunto come la prova della sua inesistenza. Leszek Kolakowski confuta questo argomento osservando che «la maggior parte dei concetti utilizzati per descrivere dei fenomeni sociali di grande portata non hanno mai un equivalente empirico ideale (11)».

In genere, comunque, i ricercatori che si occupano del problema del «totalitarismo» lasciano completamente da parte la questione dell’interpretazione che di questo termine e di questo fenomeno viene data dai sovietici. In realtà invece, solo la visione del concetto di «totalitarismo» presente nei politologi e negli ideologi sovietici consente di svelarne quell’essenza che sfugge ai teorici «puri». I dizionari e le enciclopedie sovietiche degli anni Trenta e Quaranta ignorano il termine «totalitarismo».

Il Dizionario della lingua russa del 1953 ne da invece una definizione lapidaria: «Totalitario: fascista, che applica i metodi del fascismo». E precisa: termine «libresco», cioè non utilizzato nella lingua corrente. Facendo dell’aggettivo «totalitario» un sinonimo del termine «fascista», gli autori del Dizionario gli attribuiscono un valore profondamente negativo che rende superflue spiegazioni ulteriori.

Il Dizionario enciclopedico del 1955 da questa definizione: «Stato totalitario: stato borghese a regime fascista». Diventerà la definizione standard, obbligatoria. Nel 1983, il Breve dizionario politico vede nel totalitarismo una «forma di stato borghese autoritario della fase imperialista».

La definizione sovietica sottolinea il carattere «borghese» dello sta­to totalitario e denuncia fermamente la «propaganda antisovietica» che si serve della «nozione di totalitarismo per tracciare un quadro menzo­gnero della democrazia socialista» (12).

La prima descrizione dello stato totalitario, la prima enumerazione delle sue caratteristiche, risale al 1955: un potere statale «completamente in mano a una cricca di politicanti fascisti»; la soppressione di tutte le libertà democratiche; l’uso sistematico del terrore e della violenza nei confronti delle organizzazioni e dei leader rivoluzionari e progressisti; la negazione di tutti i diritti dei lavoratori; una politica estera aggressiva (13).

La terza edizione della Grande enciclopedia sovietica (1977) riprende questa descrizione in modo meno chiassoso: «Gli stati e i regimi totalitari sono caratterizzati dalla statalizzazione di tutte le organizzazioni legali, dall’attribuzione alle autorità di una piena discrezionalità (non limitata dalla legge) di poteri, dalla messa al bando di tutte le organizzazioni democratiche, dalla soppressione dei diritti e delle libertà costituzionali, dalla militarizzazione della vita sociale, dalla repressione delle forze progressiste e dei diversamente pensanti» (14).

Il Breve dizionario politico riprende la stessa formula, evitando però l’allusione alle persecuzioni di cui sono fatti oggetto i «diversamente pensanti»; il Breve dizionario, infatti, dedica per la prima volta un articolo a parte ai dissidenti, cioè, letteralmente, ai «diversamente pensanti» (15).

Basta confrontare le definizioni proposte dai politologi sovietici con quelle occidentali per rendersi conto che da entrambe le parti si parla dello stesso sistema. Vi si mette in luce un’istanza centrale che aspira a esercitare un controllo assoluto sullo stato e sui cittadini, pratica il terrore più spietato, militarizza la vita sociale e conduce una politica estera aggressiva. A differenza dei loro colleghi occidentali, però, i politologi sovietici non menzionano né il partito né la Guida.

Avendo preso come assioma l’idea che «il capitalismo è in grado di generare il sistema totalitario antiumano contro il quale gli antiutopisti continuano instancabilmente a lanciare i loro moniti» (16), i politologi e i lessicografi sovietici non sono ancora riusciti, dopo diversi decenni ormai, a stabilire l’origine del termine «totalitarismo».

La seconda edizione della Grande enciclopedia sovietica (1956) vede nel termine russo un derivato dell’aggettivo francese «totalitaire». Il Breve dizionario politico (1978) gli preferisce la parola latina «totalis», salvo poi sostituirla, nell’edizione del 1983, con «totalitas». Il Dizionario enciclopedico militare (pubblicato anch’esso nel 1983) cita poi sia il latino sia il francese: «totalis» e «total».

Questa strana discordanza può essere spiegata con una sorta di ritegno a ricordare quella che è l’autentica radice del termine, la parola «totus»: tutto. Non è difficile immaginare che questo «tutto» sia potuto sembrare eccessivamente evocativo agli autori della definizione sovietica del totalitarismo. La prima Costituzione sovietica (la Costituzione della RSFSR, nel 1918) non fa menzione del partito comunista.

Lenin, però, non tenta neppur lontanamente di nascondere la situazione reale quando sottolinea: «Dobbiamo sapere e non dimenticare mai che la Costituzione della Repubblica sovietica si fonda totalmente sul fatto che il partito corregge, stabilisce e costruisce tutto secondo un unico principio». Totalmente, tutto, un unico principio: sono queste le caratteristiche fondamentali del regi­me che Lenin è venuto via via creando a partire dall’Ottobre 1917.

Alla fine della guerra civile, quando il paese entra in una fase di sviluppo relativamente tranquilla, Lev Kamenev, membro del Politburo, lancia questo ammonimento: «Chi parla contro il partito, chi esige una divisione tra le funzioni dell’apparato sovietico e quelle del partito, cerca di imporre anche a noi la divisione dei poteri che esiste negli altri stati …

Lasciamo che l’apparato statale sovietico si occupi dello stato, ci dice questa gente, e riserviamo al partito l’agitazione, la propaganda, il rafforzamento della coscienza comunista, ecc. No, compagni, questo farebbe troppo piacere ai nostri nemici» (17). Nel 1926, Stalin è ancora più esplicito: «La dittatura del proletariato è di fatto la “dittatura” della sua avanguardia, la “dittatura” del suo partito…» (18).

Tutto il potere appartiene al partito: è questa la formula del sistema instaurato da Lenin, che a questo punto ignora ancora il termine «totalitarismo». Nella Costituzione dell’URSS, promulgata nel 1936, il ruolo del partito come istanza suprema del potere è per la prima volta oggetto di un articolo a parte.

L’articolo 126 proclama infatti: il PCUS costituisce «il nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, siano esse sociali o statali» (19). La Costituzione del 1977, attualmente in vigore, consacra al partito l’articolo 6 del capitolo I: «II PCUS è la forza direttiva e orientativa della società sovietica, il nucleo del suo sistema politico e di tutte le organizzazioni sociali e statali… Armato della dottrina marxista-leninista, il partito comunista stabilisce la prospettiva generale di sviluppo della società, la linea della politica interna ed estera; dirige la grande attività edificatrice del popolo sovietico, conferisce un carattere pianificato e scientificamente fondato alla sua lotta per la vittoria del comunismo» (20).

Il partito comunista dirige, orienta, è il nucleo di tutte le organizzazioni sociali e statali, stabilisce non solo lo scopo della società ma anche le vie che vi conducono, la politica interna, estera ed economica, la vita spirituale del paese e di ogni individuo. La natura totalitaria del potere del partito è l’esito della sua onnipresenza, della sua partecipazione, con voce deliberativa, a tutte le attività di tutte le istituzioni sovietiche.

Apparentemente lo stato sovietico non si distingue in nulla dagli altri stati: ha un’amministrazione, un’economia, una cultura gestite da specialisti e da organismi direttivi. Ma il partito non è soltanto un elemento interno a queste organizzazioni, perché nello stesso tempo è anche al di sopra di esse: dirige, orienta, controlla, ma senza rispondere di nulla.

La responsabilità di tutti gli insuccessi ricade sistematicamente sui diretti esecutori: ministri, pianificatori, scrittori, artisti. Singolarmente presi, i membri del partito qualche volta possono anche sbagliarsi. Ma il partito nella sua totalità ha sempre ragione. Questa infallibilità, legata al fatto che il partito è «armato della dottrina marxista-leninista» — che è l’unica giusta e che lo rende perciò invincibile — e affiancata da un potere illimitato, è una condizione necessaria del totalitarismo.

L’uomo è contemporaneamente il fine e il mezzo del potere totalitario. Solo un potere assoluto sull’uomo fa sì che ci si possa garantire il controllo assoluto della società. Filosofo ufficiale del fascismo italiano, nel 1925 Giovanni Gentile vede nel fascismo una «concezione totale dell’uomo» (21)

Nel 1985 Michail Gorbacev, presentando il nuovo programma del PCUS, proclama: «II nostro partito deve avere una politica socialmente forte, capace di inglobare tutto lo spazio della vita umana …» (22). Questa subordinazione di «tutto lo spazio della vita umana» esige non solo il controllo delle leve politiche, economiche e sociali, ma anche la nazionalizzazione della memoria e della lingua. Orwell è stato il primo a mettere in luce questo processo di invasione della storia da parte del potere totalitario.

La sua formula — chi controlla il passato, controlla il futuro — è la trasposizione di una definizione dello storico sovietico M.N. Pokrovskij: la storia è la politica proiettata nel passato. La manipolazione della memoria diventa un potente strumento di dominazione dell’uomo, lo strumento della sua trasformazione. La nazionalizzazione della lingua si traduce in una manomissione del lessico: la parola si vede privata del suo senso immanente, il suo significato varia a seconda dei bisogni, a discrezione dell’Istanza Suprema.

E poiché il pensiero si traduce in parole, l’uomo pensa come parla. La soppressione dei termini «superflui», «nocivi» e le sostituzioni operate nell’ambito del senso rendono impossibile ogni forma di pensiero che possa risultare sgradita al potere totalitario. Czeslaw Mitosz vede nel totalitarismo una logocrazia, un sistema in cui il potere appartiene a chi controlla il Verbo (23).

Due aspetti del totalitarismo hanno subito dei cambiamenti nel corso dell’ultimo quarto di secolo. Il terrore e la paura che il terrore stesso porta con sé hanno assunto forme nuove. Il terrore totale, il cui modello fu il «grande terrore» staliniano degli anni 1935-1938, sembrava una caratteristica assoluta del totalitarismo, questo per lo meno all’inizio degli anni Cinquanta.

L’esperienza del periodo post-staliniano o post-maoista ha provato che il terrore totale era una misura estrema, necessaria al totalitarismo finché la formazione del sistema era ancora in atto. Il totalitarismo maturo, invece, non ha bisogno se non di un terrore selettivo, strisciante. Si alimenta del ricordo del passato che mantiene vivo il senso di paura nato nella «giovinezza» del totalitarismo. Nel 1931, in un’intervista a Stalin, lo scrittore tedesco Emil Lùdwig osserva che «una parte significativa della popolazione sovietica prova un sentimento di paura» e ne chiede il perché alla Guida (24).

Nel 1985, in un’intervista a Gorbacev, dei giornalisti americani gli fanno la stessa domanda: «La gente ha paura di lei?» (25). Stalin e Gorbacev danno una risposta identica: «La gente non ci teme». Con un piccola differenza, sviluppatasi in questi cinquant’anni, che riflette bene ciò che distingue il totalitarismo «giovane» dal totalitarismo «maturo».

Stalin affermava che il 90% della popolazione non aveva motivo di avere paura; il restante 10% invece, la «classe borghese», aveva tutte le ragioni di essere terrorizzata, perché stava per essere «liquidata» (26). Poco prima dell’intervista a Gorbacev il presidente del KGB, V. Cebrikov, mentre constatava la scomparsa in URSS delle «classi nemiche», precedentemente liquidate, ammetteva però l’esistenza «di elementi isolati, ostili al nostro regime». A questo punto, è soltanto contro di loro che «gli organi di sicurezza» devono puntare «la lama della loro azione» (27).

È cambiata anche la concezione della Guida: la Guida carismatica della prima fase del totalitarismo, infatti, è scomparsa. Oggi il carisma viene attribuito al posto di Segretario generale, alla poltrona sulla quale questi troneggia. La persona della Guida in quanto tale ha quindi perso importanza: il suo potere si è spersonalizzato.

Dopo settant’anni di esistenza, la «realtà nuova» annunciata da Tocqueville — il totalitarismo — può essere definita come un sistema particolare di potere le cui caratteristiche fondamentali sono: la presenza di un partito che controlla tutti gli ambiti della vita nella società e nello stato e mira a esercitare un controllo assoluto su «tutto lo spazio della vita umana». La stabilità del totalitarismo è garantita da una nazionalizzazione della memoria e del Verbo che fa sì che le idee, i sentimenti e i desideri possano essere sostituiti da ciò che serve al totalitarismo.

La storia dell’edificazione dei sistemi totalitari negli anni 1950-1980 dimostra che quando un partito unico, animato da un’ideologia fondata su una «scienza» considerata l’«unica giusta», prende il potere, per ciò stesso si crea un sistema che è simile a tutti gli altri totalitarismi e passa attraverso le stesse tappe, dalla giovinezza all’età matura,

(dal dattiloscritto originale)

Note

1) A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, IV, 6; Oeuvres complétes, Paris 1964, III, p. 419.
2) G. Orwell, The Collected Essays, journalism and Letters, New York 1968, II, p. 134.
3) H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, New York 1958.
4) C.J. Friedrich, «The Unique Character in Totalitarian Society», in Totalitarianism, atti di una conferenza tenuta nel marzo 1953 all’Accademia americana delle arti e delle scienze.
5) C.J. Friedrich, «The Unique Character in Totalitarian Society», in Totalitarianism, atti di una conferenza tenuta nel marzo 1953 all’Accademia americana delle arti e delle scienze.
6) Ibid., p. 17.
7) J F Hough – M Faisond  Come l’Unione sovietica è governata (titolo originale  in inglese), Harvard Univ. Press, 1979, p. 523.
8) Cit. da L. Schapiro, Totalitarianism, London 1972, p. 10.
9) R.C. Tucker, The Soviet Political Mind, New York 1968, cap. I.
10) M. Gilas, «The Desintegration of Leninist Totalitarianism», in 1984 Revisited. Totalitarianism in Our Century, New York 1983, p. 136.
11) L. Kolakowski, «Totalitarianism and the Virtue of the Lie», in 1984 Revisited …, p. 122.
12) Kratkij politiieskij slovar’, Moskva 1983, p. 329.
13) Enciklopediieskij slovar’ v trech tomach, Moskva 1953-1955, t. III, 1955, p. 419.
14) Bol’Saja sovetskaja enciklopedija, Moskva 1977.
15) Kratkij politiieskìj slovar’, Moskva 1983, p. 89.
16) G. Ch. Sachnazarov, Socializm i buduscee (II socialismo e il futuro), Moskva 1983, p. 671.
17) Dvenadcatyjs’ezd VKP(b). Stenogr. otcet. (XII Congresso del Partito …), Moskva 1923, pp. 144-145.
18) I.V.Stalin, Sobranie Solinenij (Opere), Moskva 1948, T. Vili, p. 37.
19) Konstitucija SSSR, Moskva 1960, p. 27.
20) Konstitucija SSSR, Moskva 1977, p. 4.
21) G. Gentile, Che cosa è il fascismo? Discorsi e Polemiche, Firenze 1925, p. 39.
22) Pravda, 16 ottobre 1985.
23) C. Mitosz, Zniewolony Umysl (La mente prigioniera), Paris 1980.
24) I.V. Stalin. op. cit., T. XIII, p. 109.
25) Pravda, 2 settembre 1985; Time, 9 settembre 1985, p. 17.
26) I.V.Stalin, op. cit., t. XIII, p. 112.
27) V. Cebrikov, «Sverjajas’ s Leninym, rukovodstvujas’ trebovanijami partii» (Alla scuola di Lenin, secondo le esigenze del partito), in Kommunist, n. 9, 1985, pp. 48-49.

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