La religione del lavoro frena la natalità

La Nuova Bussola quotidiana 23 Marzo 2021  

L’Institute for Family Studies pubblica un rapporto che mostra come il “lavorismo”, cioè l’idolatria sociale del lavoro, danneggi la natalità. Una prova? I Paesi nordici, dove la fertilità sta diminuendo «drasticamente». E in generale, dove il lavoro è ritenuto più importante della famiglia, nascono meno figli. Segno di un problema, innanzitutto, culturale.

di Giuliano Guzzo

Tra i più accreditati antidoti alla denatalità c’è, ormai da qualche anno, quello dell’occupazione femminile. Si mettano le donne nelle condizioni di fare carriera e di farlo più velocemente – è il mantra – e vedrete che le culle, oggi vuote, torneranno presto a riempirsi. A suffragio di tale ritornello si aggiunge, spesso con aria saputella, che «tutti gli studi» certificano l’inoppugnabile nesso tra occupazione femminile e fertilità. In realtà, come ogni demografo onesto potrebbe confermare, le cose non sono affatto così semplici. Non solo: ci sono ormai elementi per affermare che il mito del lavoro deprime più che sostenere la natalità.

Lo si evince dalle 35 pagine del report pubblicato dall’Institute for Family Studies a firma di Laurie DeRose e Lyman Stone, emblematico sin da un titolo – More Work, Fewer Babies -, che però va compreso bene. Sì, perché i due studiosi hanno eseguito un’indagine più raffinata di quella che potrebbe sembrare, non limitandosi cioè a considerare il lavoro bensì prendendo in esame il «workism». Trattasi di un termine – la cui paternità alcuni attribuiscono a Derek Thompson, giornalista dell’Atlantic – che sta a indicare «la religione del lavoro», che potremmo tradurre in «lavorismo». Ciò che conta qui, però, è il concetto, ossia una crescita dell’importanza socialmente attribuita al lavoro.

La DeRose e Stone se ne sono accorti partendo da un dato di fatto: da una dozzina d’anni, i Paesi nordici (Svezia, Norvegia, Finlandia, Olanda, ecc.), celebrati come avanzati ed egualitari, con welfare esemplare e in grado di promuovere alti tassi di fertilità, hanno visto proprio questi ultimi «diminuire drasticamente». Come mai? Cosa spiega una flessione della natalità che, ragionando in termini puramente materiali ed economici, semplicemente non dovrebbe esistere? Per capirlo, i due studiosi sono andati a indagare più a fondo, scoprendo come da alcuni anni in queste nazioni l’importanza attribuita alla famiglia sia rimasta stabile, mentre è aumentata di molto quella attribuita al lavoro.

Ecco che allora alla base dell’inverno demografico che alligna in questi Paesi, secondo DeRose e Stone, c’è un «cambiamento sociale, morale e persino ideologico rispetto alla concezione del lavoro». È in altre parole cresciuta «l’enfasi sui valori del successo lavorativo e professionale come chiave di significato e valore, che può competere con gli obiettivi familiari». Il fatto che colpisce è che estendendo, attraverso appositi indici, questo approccio a dati internazionali, i due studiosi hanno visto che il calo della fertilità è più netto – in numerosi Paesi – tra quelle persone che ritengono il lavoro più importante della famiglia, le quali generano in media 0,6 figli in meno degli altri, una differenza per nulla bassa. «Indipendentemente da quanto una coppia possa essere egualitaria», concludono quindi DeRose e Stone, «se nessuno dei due partner considera l’elemento familiare come primario nella propria vita, è probabile che la fertilità sia bassa».

I due aggiungono anche che, se davvero si vuole rilanciare la natalità, il vero orizzonte in cui le istituzioni devono muoversi è quello della «ridefinizione delle priorità della vita familiare rispetto alla vita lavorativa». Insomma, c’è una «religione del lavoro» che si sta radicando e che va demitizzata. Il punto qui, dunque, non è – per prevenire una facile obiezione – impedire alla donna di lavorare, ci mancherebbe.

Il punto è che puntare culturalmente tutto sul lavoro, sperando poi che le coppie facciano figli, è utopico. Per un motivo semplice: la denatalità è anche, anzi soprattutto un fatto culturale, come prova il fatto che, spesso, a non volerne sapere di metter su famiglia e di generare prole non siano le fasce più svantaggiate della società, bensì la classe media. Si spiega così l’efficacia limitata di misure quali i pur positivi bonus bebè, il quoziente famigliare e gli asili nido. Ma in assenza di una riscoperta valoriale della famiglia, purtroppo, non c’è incentivo che tenga: i figli non nascono e continueranno a non nascere.

Sapranno i nostri politici e intellettuali fare tesoro delle scoperte di questo studio, dove peraltro l’Italia è citata, oppure continueranno a fare gli ingenui cantori del «workism»? La scommessa demografica è tutta qui, in questa capacità da parte della cultura dominante di fare autocritica. Anche se, vista l’aria che tira, che ciò accada, almeno nell’immediato, non appare purtroppo probabile.