Tecnocrazia: storia e diffusione di una sfida

Tempi 16 marzo 2021

La pandemia ha accelerato il processo di tecnocratizzazione della società; ma allo stesso tempo ha mostrato i limiti della scienza e della tecnica, quando si devono compiere scelte politiche  

di Daniele Barale  

Venerdì 19 febbraio ha preso avvio la XV edizione della Scuola di Alta Formazione Politica della Fondazione Magna Carta. Il compito di aprire le danze è stato affidato al professor Lorenzo Castellani, docente di Istituzioni politiche presso la LUISS Guido Carli di Roma; il quale è intervenuto con una lectio incentrata su una questione di grande attualità: appunto la tecnocrazia.

Tema ben presente nel suo recente libro: “L’ingranaggio del potere”, edito da Liberlibri, casa editrice celebre per pubblicazioni pregevoli quali Lo Stato Servile di Hilaire Belloc, grande compagno di avventure di G. K. Chesterton. Chi scrive ha la fortuna di essere tra i borsisti della Scuola, assieme a una “giovane conoscenza” di Tempi, Diego  Merchiori, presidente del centro culturale veronese Vivere Salendo.

Se dovessi scegliere una citazione per sintetizzare il contenuto della lezione, la attingerei da Dialogo sul potere di Carl Schmitt: “Anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri (…) Davanti a ogni camera del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima.

Non c’è potere umano che non abbia questa anticamera e questo corridoio. Un’anticamera che, nel regime demo-burocratico moderno, la tecno-democrazia, è popolata da tecnici che talvolta eseguono meramente e talaltra desiderano oppure esercitano direttamente il potere”. Scendiamo un po’ più nel dettaglio dell’intervento del prof. Castellani alla Scuola. Si consiglia anche di leggere il buon resoconto che ha scritto Diego. Sarà una preziosa integrazione a questo lavoro.

La tecnica e la modernità

Auguste Comte

“La tecnocrazia non è altro che il potere dei tecnici”. La tecnica ha caratterizzato l’epoca cosiddetta moderna; ha iniziato a diffondere il suo dominio – sebbene fosse presente nei secoli precedenti – tra la prima e la seconda rivoluzione industriale (dalla II metà 700 in poi) e con il successivo sviluppo del capitalismo. Questo dominio è stato facilitato dal positivismo scientistico del XIX secolo, di Henri de Saint-Simon (1760-1825) e Auguste Comte (1798-1857).

I quali immaginavano le società come non più rette dalla classe politica ma da dirigenti industriali dotati di conoscenze tecniche (i manager d’oggi ante litteram) ingegneristiche, poiché considerati come gli unici in grado di far avanzare il progresso tecnologico e indirizzare la società verso la crescita materiale.

Tra le due guerre mondiali

I primi a dar seguito a ciò furono Henry Ford (1863-1947) e Frederick Winslow Taylor (1856-1915). Difatti il significato che conosciamo oggi di “tecnocrazia” (technocracy) venne “assemblato” negli Stati Uniti, per opera dell’ingegnere William Henry Smyth. Così iniziò la fase del management scientifico, che ispirò nuove teorie di organizzazione delle fabbriche. Il contributo dello scientific management, (teorizzato in primis da Taylor all’inizio del XX secolo), fu usato sia per rendere più strutturate e grandi le aziende americane, allo scopo di aumentarne la produttività, sia per magnificare/legittimare sul piano culturale la figura del manager, poi adottata anche in seno alle pubbliche amministrazioni.

Nacquero così le nuove figure di ingegneri, manager e tecnici specializzati in ogni campo della produzione. Si ambìva a razionalizzare l’economia e la politica americana seguendo i principi della fisica e della matematica. Tutto ciò avvenne da una parte all’altra dell’Atlantico, tra Stati Uniti ed Europa. Negli anni Trenta in Francia, invece, fu rilevante il ruolo culturale del gruppo di X-Crise, ex allievi dell’École Polytechnique che puntavano a un miglior coordinamento dell’economia pubblica con quella privata secondo una logica efficientista di pianificazione. (Si tenga presente che Macron ha un background simile).

Ci fu inoltre interesse per la tecnocrazia nella Germania weimeriana, per merito soprattutto dell’ingegnere-filosofo Walter Rathenau. E perfino nei regimi non liberali gli Ingegneri e i manager furono al centro del dibattito politico: in Unione Sovietica, dove Lenin sosteneva che il socialismo fosse “il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese”; finanche nell’Italia fascista, attraverso il produttivismo imbracciato da Mussolini prima e per l’azione di Alberto Beneduce come sviluppatore dell’intervento pubblico poi.

Dagli anni ’40 in poi

Negli anni della II guerra mondiale e dopo, quando vennero sconfitti i totalitarismi – tranne quello comunista -, vi fu un fiorire di nuove istituzioni, agenzie, enti di ricerca. Sullo sfondo: la corsa agli armamenti, al nucleare e la ricostruzione economica da finanziare ed organizzare, attraverso piani quali “New Deal, Marshall“. Senza dimenticare la diffusione del costituzionalismo, l’allargamento della platea della partecipazione alla vita democratica (suffragio universale), e le nuove strutture, come la CECA (1952), nate per garantire la vita democratica, la pace e la giustizia.

Un sistema che in poco tempo si era così ampliato ed era divenuto così sofisticato da portare, alla fine degli anni Cinquanta, il presidente Eisenhower a denunciare i pericoli di un “complesso industriale-militare” troppo potente e incontrollabile, giacché combinava insieme scienza, governo, potere militare e industrie. Tale denuncia è contenuta nel suo discorso di commiato del 17 gennaio 1961, prima di passare le consegne a John F. Kennedy. Ancor prima, altresì i due padri del positivismo si accorsero che la società in mano ai tecnici rischia di degenerare verso forme totalitarie repressive e spersonalizzanti, tali da portare le persone ad alienazione.

Anni ’70

Venne affermandosi una maggiore professionalizzazione dei lavori; processo che fu favorito anche dallo sviluppo delle università. E iniziò la crisi del fordismo, alle cui cause concorsero la crisi del sistema di Bretton Woods, la crisi dell’assioma fordista della crescita indefinita della domanda, lo shock petrolifero, le crisi sociali (come il ‘68), la crisi delle politiche keynesiane.

Di conseguenza, ci fu chi come il sociologo Daniel Bell parlò di società post-industriale (The Coming of Post-Industrial Society, 1973); una società caratterizzata dall’economia della cultura e dalla fine delle ideologie, nella quale le persone con il livello di istruzione più alto avrebbero avuto un maggiore accesso alla gestione del potere, e i tecnocrati un ruolo preminente sul piano politico. Altri studiosi, economisti sociologi e non, immaginarono società a forte caratterizzazione tecnocratica.

Si pensi alla società dello “Stato industriale” di John K. Galbraith, una società fondata sulla pianificazione burocratico-manageriale e su processi di formazione permanente, e dominata dall’interazione tra Stato e capitalismo; al sociologo Karl Mannheim, che teorizzava come unica possibilità di esistenza della social-democrazia quella di sviluppare una società della competenza capace di frenare le derive demagogiche.

Ai giorni nostri

La pandemia ha accelerato il processo di tecnocratizzazione della società; ma allo stesso tempo ha mostrato i limiti della scienza e della tecnica, quando si devono compiere scelte politiche. Si pensi ai virologi in televisione, che hanno dibattuto, durante il primo e il secondo confinamento del 2020, e tuttora lo fanno, su soluzioni opposte per il contenimento del virus. E le soluzioni sono ancora al di là dall’essere raggiunte.

La tecnocrazia è una caratteristica ineliminabile nell’assetto istituzionale dello Stato moderno. Ma le debolezze della politica, abbandonati gli ideali e le visioni di lungo respiro, anche religiose (cattoliche in primis), si sono acuite al punto da ridursi a mera comunicazione e propaganda. In qualche maniera la politica si è sospesa, e sotto la pressione dei malcontenti popolari si è deresponsabilizzata a vantaggio degli apparati non-politici, tecnici, scientifici, burocratici.

Tali apparati determinano la vita dei cittadini operando scelte politiche, ma senza il rischio di dover essere sottoposti al controllo/giudizio dell’elettorato. Per questo oggi si rischia di vedere l’imporsi di una tecno-democrazia.

In conclusione Occorre prendere atto, senza girarci intorno, che la tecnocrazia è una caratteristica ineliminabile nell’assetto istituzionale dello stato moderno. E la pandemia ha accelerato il processo di tecnocratizzazione della società; ma allo stesso tempo ha fatto emergere i limiti della scienza e della tecnica, quando i loro fautori si trovano dinanzi a delle scelte politiche da compiere. Si pensi ai virologi in televisione, che hanno dibattuto, durante il primo e il secondo confinamento del 2020, e tuttora lo fanno, su soluzioni opposte per il contenimento del virus.

E le soluzioni sono ancora ben lungi dall’essere raggiunte. Perciò la teoria e la prassi tecnocratiche non garantiscono alcuna imparzialità o neutralità nella decisione pubblica, come pensano i teorici sopracitati (non sono gli unici); soprattutto non offrono (e meno male) la panacea per tutti i problemi sociali, economici, politici etc. Difatti Vilfredo Pareto (1848-1923) asseriva: “Si può peccare per ignoranza, ma si può peccare anche per interesse. La competenza tecnica può evitare il primo male, ma non può nulla contro il secondo” (in Le systèmes socialistes, Cap. VI, p. 271).

È quasi superfluo ricordarlo, Pareto fu studioso dalla mente versatile (era economista, ingegnere e sociologo) e in àmbito politico teorizzò, insieme a Gaetano Mosca, l’elitismo. È proprio grazie alla parzialità e all’incapacità dei tecnocrati di risolvere tutti i problemi che i politici possono tornare ad avviare processi decisionali in vista del Bene comune; però prima deve emendarsi da certe colpe:

1) quella di aver ridotto la politica a mera comunicazione e propaganda, facendole perdere sostanza e trasformandola in rappresentazione di se stessa;

2) di aver passato il tempo non a “decidere”, ma ad usare la tecnocrazia come scusante, capro espiatorio su cui scaricare i propri errori.

Conseguenza? Le decisioni non prese sono state devolute proprio agli apparati non-politici, tecnici, scientifici, burocratici;

3) e pertanto di aver facilitato l’espansione tecnocratica, che non assicura il rispetto dei princìpi cardine del liberalismo quali il bilanciamento dei poteri e la possibilità per i cittadini di chiedere conto, sebbene in modo generico, alla classe governante del proprio operato; per la grande maggioranza di loro i “corpi tecnici appaiono lontani, incomprensibili e incontrollabili.

Ragione per cui o i membri dei vari partiti tornano a coltivare ideali e visioni di lungo respiro (i cattolici sono chiamati a contribuire, ndr), divenendo più responsabili, oppure vedremo il costituirsi della tecno-democrazia.